GEMINI MAN di Ang LeeStupisce e intristisce anche un po' vedere il regista di Banchetto di nozze e di Mangiare, bere, uomo, donna, che anche dopo essere passato dalle produzioni taiwanesi degli esordi a quelle hollywoodiane ha diretto film personali e intensi come Brokeback Mountain o Tempesta di ghiaccio al comando di una macchina da effetti speciali come Gemini Man (se pronunciate il titolo in modo corretto, geminai men, potreste fare una bella figura come anche passare per dislessico o fanatico). O forse non stupisce, in fondo Ang Lee aveva già dimostrato il suo eclettismo dirigendo un film di supereoi (per altro di modesto successo) come Hulk, la sua volontà di sperimentare le possibilità e i limiti della cgi (computer generated imaginery) con il meraviglioso Vita di Pi, e anche il gusto per gli action acrobatici dirigendo il wuxia La tigre e il dragone. Bisogna dire che la sceneggiatura, scritta e riscritta nel corso dei 20 anni che sono trascorsi dall'idea iniziale del progetto alla sua realizzazione, una volta che la tecnologia è sufficientemente maturata da renderne possibile la sua realizzazione, sembra tagliata su misura per Ang Lee, riprendendo alcuni degli spunti già contenuti in Hulk: lo sdoppiamento del personaggio, lo scienziato demiurgico, il rapporto padri e figli e la contrapposizione tra padri buoni e padri oscuri (presente peraltro anche nella saga di Guerre stellari). In questo caso gli effetti propriamente fantascientifici sono quasi impercettibili, concentrandosi principalmente nella duplicazione e ringiovanimento di un volonteroso Will Smith, nella parte di Henry Brogan, un sicario cinquantenne alle soglie del pensionamento (dopo 72 uccisioni comincia ad avere qualche dubbio morale) che si trova a combattere e a lottare corpo a corpo con il clone di se stesso, che ha circa la metà della sua età. Almeno nelle scene in cui è riconoscibile, Junior è in realtà un attore virtuale, ricostruito sulla base della motion capture applicata al corpo e al viso di Smith, che ne riproduce movenze ed espressioni sulla versione digitale ringiovanita dell'attore. Girato in 3D Plus (belle alcune sequenze, tra cui quelle acquatiche), Gemini Man disloca la sua azione in diverse suggestive parti del mondo (Florida, Caraibi, Cartagena, Budapest), come si conviene ad una tradizione che va dalle saghe di 007 a quella di Bourne e a tutte le filiazioni e le varianti possibili, e concentra le sue qualità in alcune scene d'azione, come l'inseguimento in moto (con un motociclo utilizzato come arma) o il corpo a corpo in una catacomba ungherese. Ma purtroppo il film si struttura su una storia frusta e con modalità risapute, già viste molte e troppe volte (quello dell'agente esperto perseguitato dallo stesso Governo per cui agiva e da funzionari tanto potenti quanto corrotti e malvagi), e soprattutto si sviluppa su una sceneggiatura (firmata alla fine da Billy Ray, Darren Lemke, David Benioff) davvero di livello molto basso rispetto all'accuratezza che ci si aspetterebbe da un blockbuster. Non si parla semplicemente di verosimiglianza (che in un prodotto del genere non è richiesta), ma la sospensione dell'incredulità è richiesta ad un livello molto alto, e spesso in modo gratuito. E' ovviamente sbagliato porsi delle domande di logica narrativa; ma viene subito da chiedersi perché il metodo per uccidere uno scienziato presumibilmente indifeso e inerme sia quello di sparargli una fucilata da una collina lontana un paio di chilometri centrandolo da un finestrino di un treno ad alta velocità che corre ad oltre 200 kmh; o perché, in una sequenza immediatamente successiva, Henry parli di una bambina “bellissima” a bordo del treno, che lui non poteva sicuramente vedere; o ancora, come mai due cecchini infallibili si sparino l'uno con l'altro un numero incredibile di colpi senza mai arrivare a bersaglio. Se si entra in questo mood scettico, i “perché?” si susseguono per tutto il film, sequenza dopo sequenza, finché il ridicolo involontario (per chi vuole percepirlo) irrompe quando il cattivo, dopo aver cercato di ucciderlo per tutta la durata del film impiegando eserciti di soldati superarmati (sterminati a decine), missili, cloni sempre più letali, ecc., gli chiede “Henry, perché sei così arrabbiato?”. L'elemento femminile (più o meno l'unico) è fornito da Mary Elizabeth Winstead, che assomiglia a una versione ringiovanita di Sigourney Weaver. Finale chiuso, ma suscettibile di eventuali sequel, non indispensabili.
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Rispondendo a chi mi chiede come ho trovato C'era una volta... a Hollywood, se mi fosse piaciuto o no, se fosse bello o brutto, mi sono reso conto di avere opinioni troppo ambivalenti. Non ho resistito allo pressione e ho cercato un alleviamento dello stress attraverso un sfogo schizofrenico. Ho separato perciò le opinioni positive da quelle più negative e qui e su Face Off vi propongo, oltre alla recensione ufficiale, altre due criticamente splittate. Perdonate, e buona lettura. E Tarantino è Tarantino, Prendere o lasciare. Qui c'è tutto: le chiacchiere infinite, il metacinema e il citazionismo, la passione per i film di serie B, la volontà di riscrivere la storia grazie al cinema, gli attori glamour e la costruzione di personaggi pieni di fascino (non necessariamente positivo), la violenza parossistica, le macchine veloci, i piedi nudi femminili. Fin qui Quentin aveva rivisitato i generi cinematografici imprimendo ogni volta su ciascuno di essi il marchio indelebile della propria personalità e del proprio stile (non si potrà più parlare di gangster movie senza citare Le iene, di war movie senza Bastardi senza gloria, di western senza Django Unchained) e ne aveva letteralmente inventati di nuovi (Pulp Fiction, Kill Bill), andando a comporre ogni volta un mosaico caotico e un monumento frattale al cinema del “suo” passato, una serie B magmatica che contiene spaghetti-western, film bellici, poliziotteschi, kung-fu movie, gangster film, nazisploitation, ecc. In C'era una volta... a Hollywood (fin dal titolo, dove si fondono fiaba, l'omaggio a Sergio Leone, l'antonomasia del cinema), immerge direttamente i propri personaggi nel bagno del cinema hollywoodiano alla fine degli anni '60, sbizzarrendosi a inventare film nel film, a distorcere film realmente esistiti (La grande fuga), a farne vedere spezzoni di altri al personaggio che interpreta l'attrice reale che recita nel film che sta guardando, a disegnare attori immaginari e declinando puntigliosamente la loro filmografia, ad alludere ad attori realmente esistiti (il Clint Eastwood di Rawhide e poi degli spaghetti-western), ad evocarne la presenza fantasmatica di altri (Steve McQueen), a chiamarne altri ancora, celeberrimi (Pacino), ad interpretare in cameo personaggi secondari, a rappresentare registi realmente esistenti (Polanski) e a citarne altri (Corbucci, Margheriti) attribuendogli film mai realizzati. Realtà, verità, storia, cinema, invenzione si mescolano in un amalgama ludico che, ancora una volta, si chiama Cinema e si autoproclama tale, una festa mobile per gli occhi e per le orecchie (tenetele aperte alla colonna sonora). Nostalgia, gusto del vintage, si è detto. Eppure Tarantino riesce ogni volta, qualsiasi genere frequenti, qualsiasi epoca affronti, a renderli attuali, originali, rinfrescandoli con il proprio inimitabile stile. La narrazione sembra girare in tondo, o concedersi dei gustosi a parte (Di Caprio e la bambina; Pitt e la visita allo Spahn Ranch, che dimostra ancora una volta, caso mai ce ne fosse bisogno, la capacità di Tarantino nel costruire la tensione), fino al finale. Dove, di nuovo, il cinema si prende la sua rivincita sulla storia, sulla cronaca, sulla tristezza della cruda realtà. Non a caso, per terminare l'opera, viene tirato fuori da uno sgabuzzino un oggetto improbabile, che si direbbe fiabesco non fosse cruentemente letale, squisitamente incongruo e altrettanto squisitamente cinematografico. La violenza, che è una delle ragion d'essere del cinema di Tarantino, trova ancora una volta il modo di autoassolversi, di far uscire lo spettatore stupito e gratificato. Fuori è un'altra storia, ma dentro il cinema arrivano i nostri – anche se sono un po' stonati, un po' lamentosi - e il Cinema può ancora permettersi una fiammeggiante (un)glorious vittoria sulla vita. C'ERA UNA VOLTA... A HOLLYWOOD (Once Upon a Time in Hollywood) di Quentin TarantinoC'era una volta... a Hollywood inizia con le immagini di un western in bianco e nero. Siamo evidentemente dentro un film nel film, e infatti si tratta di un telefilm il cui protagonista è Jake Cahill, interpretato da Rick Dalton, interpretato a sua volta da Leonardo Di Caprio. Quando finisce, ci si aspetterebbe di entrare nel film vero e proprio e di passare al colore. Invece anche la sequenza successiva, senza soluzione di continuità, è in bianco e nero, e scopriamo stavolta di essere dentro un'intervista televisiva fatta a Rick Dalton e al suo body double, al suo stuntman, ovvero Cliff Booth, impersonato da Brad Pitt. Questo gioco tra livelli finzionali diversi e stratificati (tematizzato dallo stesso rapporto vero/falso tra attore e stuntman) prosegue per tutto il film, e ne è in buona parte l'anima e la ragion d'essere. Vediamo attori impersonare altri attori e registi realmente esistenti o esistiti (Polanski, Bruce Lee, Steve McQueen), attori famosissimi (Pacino, Dern, Russell) interpretare personaggi secondari; vediamo spezzoni di telefilm inesistenti e girati appositamente da Tarantino e brani di film reali del passato; vediamo Dalton recitare in una scena (reale) de La grande fuga, cui non in realtà non ha mai partecipato; vediamo Sharon Tate (interpretata da Margot Robbie) che in un cinema guarda The Wrecking Crew, con Sharon Tate (quella vera) che interpreta uno dei personaggi; e leggo intanto che Tarantino è intenzionato veramente – o così dice – a girare cinque episodi di Bounty Law, il telefilm western che compare nel film, con Di Caprio nella parte di Jake Cahill... E' un corto circuito continuo tra “realtà” (finzionale) e finzione (“vera” o “finta”) che giocano continuamente tra loro, in una “favola” (come da titolo), dove nulla ha l'obbligo di essere vero o verosimile, nemmeno quando vagamente lo sembra. Così un oggetto letale la cui presenza è logica in un film di nazisti può ricomparire incongruamente (e suscitando l'ilarità del pubblico) nella “realtà” della Hollywood degli anni '60; così quella che sembra una cronaca puntuale (scandita da un orologio che mostra il passare del tempo) di fatti realmente accaduti e a tutti noti, può deviare dai binari della storia reale e mettersi a correre su quelli pop della fantasia e del desiderio. Tarantino ambienta il film nel 1969 (quello del massacro di Bel Air, dove i seguaci della setta di Charlie Manson uccisero Sharon Tate, moglie – incinta – di Roman Polanski e alcune altre persone) e rende quindi prevedibilmente omaggio al cinema – rigorosamente di serie B – dell'epoca, con i kung-fu movie, gli spaghetti western, gli spionistici di derivazione bondiana, ecc., e alle serie televisive che riproducevano i generi cinematografici come il western e il poliziesco. E contemporaneamente rende omaggio a se stesso, mettendoci dentro a sua volta il western (saggiato nei suoi modi in Hateful Eight e Django Unchained), il film di nazisti alla Bastardi senza gloria, la passione per le macchine veloci di Grindhouse, il feticismo per i piedi nudi femminili (quelli maschili sono inguainati in morbidi mocassini indiani o in stivali da cow boy) che è ormai uno dei suoi marchi di fabbrica. Il cinema di Tarantino è e rimane un cinema pop, colorato, stratificato, mosso, postmoderno nella sua essenza, sostanzialmente puerile, che non annoia mai. Per fare un solo esempio, la sequenza della visita di Spahn Movie Ranch è un saggio compiuto del suo talento nel costruire sequenze articolate e percorse dalla tensione; inoltre l'ironia è sempre desta e all'opera e il piacere cinefilo della visione è costantemente vellicato (e per lo spettatore italiano il godimento cinefilo è ulteriormente amplificato, come vedrete). Eppure. Eppure il suo desiderio di essere cool gli fa correre il rischio di risultare appunto freddo, di abbassare l'interesse dello spettatore e il ritmo della narrazione. Vari fattori di rischio minano il film. A cominciare dall'eccessiva lunghezza, con nove decimi di film dedicati a raccontarci vicende di cui non percepiamo la necessità e l'interesse, tra un attore piagnucoloso che teme il declino e il suo stunt che vivacchia soddisfatto e sornione nella sua ombra, e un'attrice (la Tate, appunto), che rimane più una presenza che un personaggio vero e proprio, un monito a rivolgere la nostra attenzione ad un finale già noto e prevedibile e che tuttavia non la vedrà – inaspettatamente, neppure questa volta – protagonista. Il punto di vista su Hollywood e sui fatti tragici di quel 1969 rimane marginale, laterale, come “marginale” è quel cinema continuamente citato (e che riguarda abbondantemente l'Italia, di cui, negli anni di Fellini o di Antonioni, si citano lo spaghetti-western, Corbucci o Margheriti, così come del cinema americano in pieno fermento – e con Polanski sulla scena – si citano solo outsiders e prodotti di serie B). Dopo essere andato oziosamente a zonzo per un paio d'ore, fuori e dentro dalla finzione, fuori e dentro dai set, fuori e dentro dalla storia, senza troppo badare al rigore del racconto (vedi ad es. l'uso – o il non uso – delle didascalie o della voce fuori campo) l'ultimo segmento acquista improvvisamente un piglio cronachistico e scandito cronologicamente, attraverso didascalie e voce off, che ci conduce verso un finale pirotecnico alla Tarantino (ma anche l'abnorme prologo costituito da tutto il resto del film, in fondo, lo è). Per lo spettatore è una gioia catartica e liberatoria, un risarcimento per aver pazientato per tutto il resto della pellicola, un motivo per uscire soddisfatti dal cinema. Cosa che ho fatto in parte anch'io. Ma solo in parte, per due motivi; il primo è che il finale si basa su un espediente narrativo già usato e già visto in un suo film precedente (preannunciato in una delle sequenze iniziali): e attendere per due ore una sorpresa che si rivela in un certo senso di seconda mano può essere un po' frustrante. Il secondo è la strategia di Tarantino di legittimazione e e moralizzazione della violenza estrema che costituisce una delle ragion d'essere del suo fare cinema. Vedere donne brutalmente massacrate, persone arse vive o sbranate dai cani e altre simili atrocità, viene proposto come un piacere etico oltre che estetico, giustificato al di là della sua perversione, dal fatto che vittime finali di questa violenza sono gli esseri peggiori e più meritevoli di castigo: serial killer, nazisti, schiavisti, assassini, satanisti. Come non tifare per la violenza tarantiniana? Come non godere di un inaspettato happy end, come nelle favole? Eppure, malgrado Quentin ci dia la sua beffarda assoluzione all'uscita dal cinema, un senso di disagio e l'impressione di essere stati in qualche modo moralmente turlupinati permane. Ah, e tra Di Caprio e Pitt, Pitt (favorito da un ruolo molto più cool a quello un po' lamentoso del collega), come previsto. E sulla Robbie (The Wolf of Wall Street, Tonya!) non si discute. leggi anche le recensioni schizofreniche su Hollybloog e su Face Off L'AMOUR FLOU - COME SEPARARSI E RESTARE AMICI di Romane Bohringer e Philippe RebbotRomane e Philippe sono insieme da dieci anni. Hanno due figli che adorano, un bassethound (che lei detesta), una bella casa. Lui ha 55 anni, un passato da militante di sinistra (si definisce marxista-lennonista, ma più della corrente lennonista), e gira ancora con barba incolta, capelli lunghi, cappellino da baseball e skate-board. Lei ha 44 anni, è più concreta, insofferente, vogliosa di novità, soprattutto in campo sessuale. Forse si amano ancora, ma non sono più innamorati; forse sono ancora affiatati e complici, eppure non si sopportano più. Quello che era stato amour fou, cioé folle e senza regole, ora è amour flou, cioé letteralmente sfocato, confuso. Si separeranno, ma tentando di salvare la serenità dei figli, e anche quella vicinanza reciproca che sentono ancora come un bene prezioso: la soluzione sarà l'acquisto e la ristrutturazione di un grande appartamento in cui ognuno dei due vivrà in una parte contigua ma separata della casa, congiunta dalla zona comune della stanza dei figli. Funzionerà? C'è materia per un dibattito su una sperimentazione sentimentale-immobiliare-sociologica, che potrebbe costituire una soluzione pilota nei casi di separazione a bassa conflittualità e contribuire anche positivamente rispetto al problema degli alloggi per le coppie separate e a quello dell'affidamento dei figli. Ma c'è materia anche per una commedia cinematografica romantico-famigliare. Il film fa esattamente questo, muovendosi sul doppio binario di un tema da dibattito sociologico, e su quello di una commedia che mette in risalto i lati buffi e grotteschi dell'inedita situazione famigliare. Il fatto è che Romane Bohringer e Philippe Rebbot, sceneggiatori, registi ed interpreti del film, questa storia l'hanno vissuta realmente, in termini più o meno simili, e che quello che mettono in scena è la loro storia, la loro relazione, se stessi, i propri figli, i propri genitori, fratelli, amici, ecc. La scelta della commedia quindi non è solo di genere e di tono, ma si rivela anche come l'espediente inevitabile e necessario per prendere le ironiche distanze da quella che altrimenti sarebbe una storia troppo intima, e dal rischio dell'esibizionismo sentimentale ed esistenziale. Rischio tuttavia non del tutto scongiurato. Se Romane e Philippe, attori di professione nella vita reale, dimostrano la capacità del cinema francese di mettere al centro delle storie personaggi, volti e fisicità non convenzionali (facile immaginare che nel cinema hollywoodiano come anche in quello italiano i due protagonisti avrebbero avuto volti corpi bellocci e affascinanti), il racconto attribuisce comunque ai due, né giovani né belli, delle chance di seduzione sessuale nei confronti di partner ben più giovani e avvenenti piuttosto improbabile. Intorno alla strana coppia (la cui storia viene pedissequamente scandita da canzoni francesi a tema) vengono poi disposti una serie di personaggi non meno strampalati, che hanno la funzione di indurre al sorriso, ma che non sempre riescono nello scopo. Il risultato per lo spettatore è quello di essere indotto al sorriso (come nella scena in cui, dalle retrovie dei rispettivi campi domestici, si contendono le attenzioni dei figli a colpi di megafono), e nello stesso tempo ad un vago senso di costante irritazione e insofferenza. In fondo quello che importa agli autori è raccontare il loro azzardo, esibire la propria audace esperienza, dare un esempio problematico ma potenzialmente fecondo, e accendere un dibattito (nel film compare anche la (vera) giornalista e politica Clémentine Autain nei panni di se stessa, che prende sul serio su un piano di concretizzabile politica sociale e famigliare la sperimentazione di Romane e Philippe) sulle possibilità di forme diverse e inedite di famiglia. Non fosse sufficientemente chiaro, i due inseriscono addirittura un episodio in cui Romane (che convive sotto lo stesso tetto con il non-più-compagno) tenta un'avventura lesbica con un'amica pansessuale, dopodiché le due corrono nude nell'appartamento accanto per proporsi come possibili madri surrogate per soddisfare la voglia di genitorialità tanto dell'amica che della coppia tutta maschile di vicini omosessuali... Si finisce con un matrimonio (tra due potenziali rispettive conquiste dei protagonisti), e con un romantico e problematico patto di separazione e di eterna solidarietà, con tanto di scambio di anello di separazione. Nuove famiglie all'orizzonte e sotto il cielo, almeno sotto quello confuso e vitale del cinema. 5 E' IL NUMERO PERFETTO di Igort (Igor Tuveri)Igort ha fatto di tutto. E' fumettista, illustratore, designer, musicista, cantante, compositore, conduttore radiofonico, romanziere, sceneggiatore, fondatore di case editrici (Coconino Press) e di avanguardie artistiche (Valvoline), direttore di giornali (Linus); è uno che è di casa a Bologna come a Parigi o a Tokyo; è uno che ha collaborato con Sakamoto e con Murakami, con Corsicato e con Sampayo, che ha esposto alla Biennale di Venezia e disegnato per la Swatch; che ha raccontato il punk e Fats Waller, Warhol e la Politkovskaja, il Giappone o l'Ucraina.
Naturale quindi che quando Toni Servillo gli suggerì una trasposizione della sua graphic novel noir 5 è il numero perfetto (2002), alla fine l'onere e l'onore della regia del film che racconta la storia di Peppino Lo Cicero, sicario gregario della camorra che torna sulla ribalta criminale dopo che il suo figlio d'arte viene ucciso sul lavoro, li caricasse sulle sue possenti ed eclettiche spalle. 5 è dunque un film personale e d'autore in tutti i sensi, dal momento che Igort (il vero nome è Igor Tuveri) ha non solo scritto il testo da cui è tratto, ma ne aveva già immaginato e realizzato tutto l'originario impianto visivo. Non occorre qui tornare sulle analogie tra cinema e fumetto (la compresenza di immagini e parole, il linguaggio fatto di découpage, montaggio ritmato e articolato in sequenze, inquadrature, piani, ecc.). Tra tutti gli ormai innumerevoli casi di traduzioni dal fumetto al cinema, 5 vanta però un ascendente diretto, con numerose analogie: si tratta di Sin City, graphic novel (in più episodi) scritta e disegnata da Frank Miller, che poi ha co-sceneggiato e co-diretto (con Robert Rodriguez) i film che ne sono stati tratti. Non è solo il processo creativo e produttivo ad accomunare i film di Igort e di Miller: in entrambi i casi si tratta di noir metropolitani, la cui scintilla narrativa è fornita dalla volontà di vendetta del protagonista all'interno di contesti criminali, e in cui lo stile cinematografico si propone di riprodurre rigorosamente (sia pure in live action) le atmosfere e l'impianto grafico del fumetto. Sia l'uno che l'altro partono da una bicromia spigolosa e piatta, quasi priva di sfumature e di colore, con un'esasperazione della resa grafica della violenza. In 5 (e l'impostazione è dichiarata nelle sequenze della titolazione dei capitoli, che rievocano anche le mitiche prime pagine dello Spirit di Eisner) le sparatorie sono stilizzate e coreografate come balletti in cui si alternano e si rispondono i gesti, i colpi tirati, i corpi che cadono, il sangue digitali che sprizza all'impatto dei proiettili; e dove il bagliore degli spari rivelano gli spazi oscuri o i vuoti delle architetture. La stessa opera di stilizzazione Igort l'ha compiuta sia sul contesto che sui personaggi. Su Napoli – che ormai può considerarsi la capitale del noir italiano, tra Gomorra, i film dei Manetti Bros e quelli di animazione di Rak, Napoli velata, Perez, ecc. - viene fatta una doppia operazioni, da una parte di stereotipizzazione (i vicoli, i cortili monumentali, la caffettiera napoletana, l'insegna delle lacrime napulitane, ecc.), dall'altra di viraggio al negativo; la Napoli di Igort è una città piovosa, buia, fredda, spopolata: la stessa processione religiosa, altro emblema di napoletanità, si svolge di notte in strade deserte, ed è l'unica scena in cui compaiono personaggi non direttamente legati all'azione drammatica. Gli stessi personaggi sono stilizzati in maniera fumettistica: nasi deformi, orbi, gobbi, pettinature afro o rock (un Mister Ics che ricorda certi personaggi delle bande dessinée alla Lucien di Margerin) sono dei marchi che trasformano i personaggi in maschere (e che ricordano la fisiognomica teratologica del Dick Tracy di Gould). Nello stesso tempo Igor non perde l'occasione per evocare – oltre al gusto grafico dell'epoca in cui si svolge il film, il 1972, con le copertine dei libri e i manifesti pubblcitari - un immaginario cinefumettistico che appartiene agli anni della sua infanzia e giovinezza (e che, casualmente o no, declina la violenza in diverse forme): dai nerissimi (narrativamente e graficamente) fumetti italiani degli anni '60 come il Kriminal di Magnus e Bunker, contrapposti agli eroi pop, colorati e buonisti dei comics americani), ai kung fu movies che furoreggiarono sugli schermi italiani negli anni '70 (il manifesto di Cinque dita di violenza mostra una mano che tiene in palmo due bulbi oculari strappati dalle orbite), allo spaghetti western alla Sergio Leone, iconograficamente mimato nei suoi stilemi nella sequenza dello scambio di prigionieri sul tetto. Efficacemente servito da un terzetto di attori che, al pari degli altri interpreti, accettano di farsi maschere e silhouette (un Servillo nasuto tra crudeltà e sentimentalismo noir, un Buccirosso ormai a suo agio nell'ambiente camorristico dopo i film dei Manetti e una Golino sorprendente nelle scene di sparatoria) dalle musiche vintage di D-Ross e Startuffo, dalla fotografia desaturata di Nicolaj Bruel e dalle funzionali scenografie del veterano Nello Giorgetti, 5 purtroppo perde un po' di smalto in un finale tropicale color pastello alla maniera di Loustal, dove tenta di impostare un finale che dovrebbe ribaltare la nostra prospettiva su quanto abbiamo visto, ma che non ne ha sufficiente forza né credibilità. MARTIN EDEN di Pietro MarcelloVedo che Martin Eden è stato accolto con favore alla proiezione in Sala Grande a Venezia. Allora sono io che non l'ho capito, perché quasi nulla (e sono tentato di togliere il “quasi”) mi ha convinto nel film di Pietro Marcello. Forse non riesco ad entrare e farmi coinvolgere dal suo tipo di cinema, che viene invece considerato innovativo, personale e originale; la sua volontà di mescolare fiction e materiale d'archivio; verismo e apologo fiabesco; documentario e racconto. E non parlo tanto delle intenzioni, che possono avere una loro legittimità, quanto della loro realizzazione cinematografica. Mi ha destato un enorme diffidenza l'accostamento in apertura del titolo Martin Eden (con il nome mantenuto nella sua origine anglosassone, mentre i nomi di tutti gli altri personaggi, tranne uno, sono stati italianizzati) la canzone napoletana di Piccerè. Tutto il film è infatti basato su un continuo spiazzamento spazio-temporale: siamo a Napoli (mai nominata ma riconoscibilissima) anziché nella California di Jack London, in un'epoca imprecisabile che attinge elementi da un secolo o più di storia italiana. Oltretutto alle scene di finzione, costantemente ambigue nella loro collocazione storica, si alternano spezzoni d'archivio, eterogenee riprese dal vero fatte chissà dove e chissà quando, in un'Italia comunque popolare, vitale ma povera. Una tecnica del pastiche che ha il suo correlativo nella colonna sonora che miscela con stridente spregiudicatezza Debussy a Teresa De Sio, le musiche originali alla canzone napoletana. Ma il verismo delle immagini d'archivio (che a volte indulgono anche a facili metafore, come il grande veliero che affonda nel mare come il marinaio Martin Eden, diventato forse troppo grande e pesante per potersi tenere ancora a galla nel mare della vita) stride con l'impaccio delle scene di finzione, che rimangono “teatrali” malgrado le possibilità offerte dal linguaggio cinematografico con il montaggio e l'alternanza dei piani. Trovo difficile raccapezzarmi e cogliere un messaggio storico o filosofico o morale (dovrebbe esserci, penso, viste le premesse). I pregiudizi, le illusioni e le convenzioni borghesi si scontrano con la visione lucida e disincantata del protagonista, proletario (marinaio) che mano a mano che accresce la sua cultura e la sua capacità di lettura del mondo sviluppa una posizione intellettuale da superuomo frustrato, che vede il vero volto della società e della storia ma non riesce ad imporla agli altri uomini, che si rifiutano di ascoltare le sue dissertazioni. Però non capisco bene cosa c'entrino, accomunati nella stessa sequenza e sulla stessa spiaggia, Martin Eden, un manipolo di fascisti in camicia nera e un gruppo di immigrati di colore che sembrano uscire dalle cronache di queste ore. Ad un film che rinuncia a priori a qualsiasi pretesa di rigore e di coerenza, forse avrebbe giovato una costruzione narrativa meno ellittica, una costruzione dei personaggi meno approssimativa. Le caratterizzazioni di questi ultimi mi hanno invece sconfortato: c'è la biondina angelica di buona famiglia con il marcato accento francese (ma perché? tutti gli altri, suoi famigliari compresi, parlano in italiano o napoletano); c'è la cameriera bruna e sincera a fare da contrappunto; c'è il tisico cinico (Carlo Cecchi) che sputa sangue nel fazzoletto e tiene la pistola suicida nell'incavo della Bibbia; c'è il napoletano buzzurro mal rasato e in canottiera; c'è perfino l'irruzione di un editore che parla un milanese da cabaret d'altri tempi. Un macchiettismo di fondo cui rischia di sfuggire solo il personaggio di Maria, la popolana che aiuta Martin Eden nella sua disperata bohème, interpretata da Carmen Pommella. E poi c'è Martin Eden, il Martin Eden dell'elogiatissimo Marinelli, che più diventa colto e ricco e più peggiora, anche fisicamente (l'appartamento dove si consuma è invece sfarzoso e pretenzioso), avvitandosi non trattenuto in una recitazione febbricitante, esasperata e sopra le righe, finendo per sembrare un cattivo da Jeeg Robot che abbia studiato alle scuole serali. L'artista maledetto ha capelli lunghi, non si capisce se ingrigiti o ossigenati, occhiaie profondissime, denti guasti, strabuzza gli occhi mentre si lancia in concioni filosofiche (nietzchiane-spenceriane-individualiste-nichiliste), o pubbliche provocazioni intellettuali; si offende per essere stato definito “socialista” da un giornalista (che piglia a botte per strada); finisce per disprezzare gli uomini, la società, la storia, la vita e se stesso. Alla fine si fa una nuotata in campo lungo, in un mare che identifico anche in quello del mio sconcerto. Se qualcuno ha capito altro mi spieghi. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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