ROMA di Alfonso CuaronLe piastrelle grigie e granulose del pavimento di un cortile vengono invase dall'acqua gettatagli sopra per pulirle: nella pozza d'acqua le piastrelle spariscono sommerse, sostituite dalla visione riflessa di uno squarcio di cielo, attraversato dal volo remoto di un aereo. Nelle prime immagini di Roma c'è già molto. Il grigiore della quotidianità, la routine prosaica del lavoro, e insieme però la possibilità di una visione, il sorgere di un punto di vista attraverso cui guardare il mondo e l'altrove, fino al limite di una fuga tanto lontana da essere non solo impossibile ma quasi impercettibile. Roma è candidato a 10 Oscar. La sua coppia femminile domestica-padrona (accomunate dall'infelicità: la seconda è tradita e abbandonata dal marito) se la vedranno con il terzetto regina-cortigiane de La favorita (anch'esso con 10 candidature – tutte e cinque le attrici dei due film sono candidate alla statuetta). Due storie di donne, con le protagoniste agli apici opposti della scala sociale (la serva e la sovrana), entrambe dirette da registi maschi (un messicano e un greco). In effetti, al centro dell'ultimo cinema di Cuaron, che scrive anche le sceneggiature dei propri film, sembra esserci costantemente il tema della maternità, della nascita, della morte e della rinascita. Ne I figli degli uomini Theo si sacrifica per salvare una donna incinta portatrice di futuro in un mondo in cui l'umanità sembra essere diventata irrimediabilmente sterile; in Gravity Kowalsky a sua volta si sacrifica per salvare Ryan Stone, una donna annichilita dalla perdita della figlia che “rinascerà” al termine di un metaforico parto tra cielo e terra. Roma si svolge per la sua gran parte durante l'arco di una gravidanza. Anche qui c'è una bambina che muore, e due bambini salvati dalle acque (e cioè fatti rinascere, portando nello stesso tempo la protagonista al superamento del proprio lutto; già all'inizio d'altra parte la protagonista aveva invitato un bambino “morto” a “risorgere”). Non ci sono però qui figure maschili a favorire la generazione e la rigenerazione. Al contrario i maschi di Roma sono figure negative, deboli o infantili, fedifraghe o machiste, comunque in fuga dalle responsabilità di un leale rapporto adulto e dalle responsabilità coniugali e parentali. La gravidanza è in questo caso quella di Cleo, domestica tuttofare, di origine india, al servizio di una ricca famiglia borghese di Città del Mexico. Cleo fa i mestieri di casa, cucina, pulisce il cortile, bada al cane, sveglia i bambini, li accudisce, li accompagna a scuola, li mette a letto con il bacio della buonanotte; è sempre pronta a soddisfare i desideri dei propri padroni, grandi e piccoli. E' sinceramente amata, dai bambini come una seconda mamma, dagli adulti come un fedele, ubbidiente e servizievole animale domestico, la cui presenza e la cui disponibilità è percepita come scontata all'interno della natura delle cose. Non bianca, non maschio, non membro della classe dominante, Cleo è sull'ultimo gradino della scala sociale, una scheggia di umanità pure viva e vibrante, un nocciolo duro di sentimenti imprigionata in una molteplice gabbia di costrizioni. Cuaron dirige un film dall'ispirazione autobiografica, tributando un sentito omaggio alle persone umili, pure in grado di donare e di ricevere affetto; ma nello stesso tempo, tenendosi sempre narrativamente vicinissimo alla sua protagonista, non rinuncia a dipingere uno sfaccettato affresco della società messicana agli inizi degli anni '70 (il film si svolge tra il 70 e il 71), tra espropriazioni delle terre agli indigeni, proteste studentesche represse nel sangue, alta borghesia impegnata nei propri riti mondani (e mortiferi), politici approfittatori, maschilismo e ideologia machista. Sullo sfondo del fluire della vita quotidiana, dove i gesti e le incombenze sembrano ripetersi senza fine, in realtà tutto si muove e cambia: terremoti, disordini, incendi, espropriazioni terriere, lutti, tradimenti e abbandoni scuotono il Messico e le vite dei protagonisti. Poco sopra ho parlato di una vicinanza dell'autore alla sua protagonista specificando che si tratta di una vicinanza narrativa; poiché Cuaron sceglie in effetti e mantiene, dal punto di vista visivo (e quindi di approccio “morale” alla storia che racconta e alla sua protagonista), una distanza di rispetto. Il movimento di macchina predominante in Roma è la panoramica, o la carrellata laterale che scorre parallelamente al piano dell'inquadratura. La panoramica mantiene la distanza, collocando la protagonista o i personaggi nello spazio. Esemplari sono i movimenti nella parte iniziale, all'interno della casa, quasi a sondarne gli spazi doppiamente smisurati, a segnalare da una parte l'opulenza esagerata degli spazi padronali contrapposti a quelli angusti e condivisi destinati alle serve, dall'altra la mole del lavoro di cura che viene sobbarcato sulle spalle di queste ultime. La mdp non si sposta in profondità ad accorciare la distanza dei soggetti (nemmeno se i protagonisti rischiano di affogare tra le onde); piuttosto scende nei dettagli (come quando descrive ironicamente un'automobile troppo grande perfino per lo spazio destinatogli) o sceglie il raggelato pudore della fissità, come nella sequenza del parto in ospedale. Roma, che pure è un cinema grande (di ascendenze felliniane suggerite dal titolo stesso come dalla dimensione memorialistica), quasi in una dimensione d'affresco (dove i personaggi appunto, e la protagonista stessa con il suo intimo “diario di una cameriera” rientrano in una veduta d'insieme), lavora infatti per sottrazione, rinunciando ad alcuni elementi fondamentali presenti nella stragrande maggioranza dei film contemporanei. Niente primi piani, niente colore, niente musica extradiegetica. La fotografia, curata dallo stesso Cuaron, attenua i contrasti per avvantaggiarsi di un'ampia gamma di grigi, a cercare di catturare ogni sfumatura della luce messicana nella distanza del ricordo. Analogamente, a fronte dell'assenza della colonna sonora tradizionalmente intesa, il tappeto sonoro di Roma è fittamente e riccamente intessuto di musiche (di bande, orchestre, radio, ecc.), parole (in lingua spagnola, mixteca, inglese ed altre ancora) e suoni (a volte invadenti, come il rombo di una macchina esageratamente potente, o quello del mare minaccioso), in un grandioso tentativo filologico di ricostruire non solo le immagini ma anche i suoni, i rumori, i fonemi di un vissuto passato (due candidature all'Oscar sono dedicate all'editing e al missaggio sonoro, oltre a quelle per la fotografia e per la scenografia, e oltre ancora a quelle per miglior film, film straniero, regia e sceneggiatura e alle due già citate per le attrici). A proposito di maternità (o paternità) e di autobiografismo, il film si prende anche una manciata di secondi per confessare la genesi primigenia del futuro Gravity: con gli eroi abbandonati nello spazio del film del '69, visti con occhi da bambino sullo schermo di un cinematografo di Mexico City.
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TULLY di Jason ReitmanTully è un film sulla maternità. Sul peso e la difficoltà di essere madre, soprattutto nella moderna civiltà occidentale dove la donna ha conquistato il diritto ad avere una vita e una rappresentatività sociale anche al di fuori della cerchia famigliare e della dimensione domestica e prevalentemente accuditiva di altre culture più lontane nel tempo o nello spazio. Marlo, la protagonista, ha già due figli, di cui uno, Jonah, è un maschietto complicato e psicologicamente borderline, non affetto da alcuna sindrome riconosciuta eppure difficile e problematico. La terza gravidanza la getta in uno stato di prostrazione tremendo. La sua è una famiglia americana medio-borghese, con una bella casa e un marito mite ma distratto, che a letto si infila le cuffie da videogame e non c’è più per nessuno. Il fratello di Marlo, più benestante, le fa un regalo: una tata notturna che la sollevi almeno dalle urgenze notturne del neonato e le permetta di riposare con serenità. Marlo accetterà il regalo con riluttanza, temendo che la nuova venuta interferisca nel rapporto tra sé e il bambino, ma alla fine accetta per sfinimento. Come una novella Mary Poppins dai poteri magici, arriva Tully, che sembra incarnare la soluzione ai problemi di Marlo: non solo è in grado di accudire perfettamente il piccolo, permettendo alla mamma di riposare e recuperare le forze e la serenità, ma le sue cure si estendono a Marlo stessa, che attraverso il suo benefico influsso comincerà a riguadagnare serenità e autocontrollo, affettività e cura di sé. Il rapporto materno si avviluppa in una spirale dagli effetti benevoli: chi è madre di chi? Marlo della giovane Tully, quasi una versione ringiovanita di se stessa? Tully di Marlo, grazie alla tranquillità e alla padronanza con cui affronta le difficoltà, e alla calma sicurezza con cui guida la più matura Marlo ad una riflessione su se stessa che le restituisce fiducia e benessere? Ed entrambe sono madri della piccola nuova nata? Il film ha una prima parte estremamente efficace, soprattutto nel descrivere il disagio, la fatica, il fastidio con cui Marlo si sente costretta nel ruolo di madre-per-la-terza-volta. Il montaggio serrato ci restituisce come un incubo la routine in cui la donna si sente imprigionata, mentre Charlize Theron rende plastico nelle posture abbandonate, nelle espressioni assenti e tirate la stanchezza di chi sente improvvisamente di essere e di lavorare solo per gli altri, e si sente privata del proprio tempo, della propria giovinezza, della propria identità. Di chi sente che la vita stessa le venga risucchiata dalla vene (quasi letteralmente: più volte Marlo è inquadrata con le pompe che le risucchiano il latte dalle mammelle) per essere data ad altri. E’ intrigante anche il racconto del rapporto che si istaura tra le due donne, in un’intimità complice e solidale aumentata dal fatto che i loro incontri si svolgono, come è naturale, nelle ore notturne, sole mentre il mondo intorno tace e dorme. Il film potrebbe proseguire su questa strada, conseguendo il suo scopo; ma la sceneggiatura di Diablo Cody (alla terza collaborazione con il regista Jason Reitman, dopo Juno e Young Adult, già con la Theron protagonista) da un certo punto in poi sembra scartare dai binari della verosimiglianza naturalistica delle psicologie e degli avvenimenti. Lo spettatore comincia a chiedersi in quale direzione si stia muovendo il film, che da un momento all’altro potrebbe trasformarsi in un thriller di intrusione e di identità rubate, oppure in un torbido triangolo erotico. Nulla di tutto questo, in realtà. Cody e Reitman guidano il film fino alla sbandata finale (mostrata letteralmente sullo schermo) in grado di riportare in realtà in carreggiata il film, risolvendo e giustificando le incongruenze che si erano andate accumulando nella seconda parte del film. Tutto, in qualche moda, torna, e Tully porta brillantemente a compimento (pur con un twist che lo porta ad appartenere ad un altro genere cinematografico) la sua riflessione su femminilità e maternità. Anche se rimane forse un po’ di rimpianto per uno svolgimento più lineare, che non aveva forse bisogno di colpi di scena (pur più giustificati e giustificabili del consueto) ad effetto per svolgere la propria argomentazione. In definitiva Tully è un film molto interessante per quello che dice e per come lo dice, coraggioso nell’affrontare in contropelo un tema delicato come quello della maternità, così esposto alla retorica perbenista (basti dire che negli Usa il film si è beccato un divieto ai minori di 17 anni). Mackenzie Davis interpreta con smaliziato candore (sì, è un ossimoro) il ruolo del titolo, ma la Theron (che si dice abbia acquistato 23 kg per affrontare il personaggio in una forma, giustamente, imperfetta) è praticamente sublime nell’affrontare un ruolo destinato di primo acchito a non suscitare simpatia; confermandosi, tra le attrici in attività, quella con il più alto tasso nel rapporto bellezza/bravura. MOTHER! di Darren Aronofskymother! assomiglia a quei film che non assomigliano a nessun altro film, che trasgredisce le regole, tradisce il genere di appartenenza, spiazza le aspettative. Uscendo dal cinema ho sentito dei ragazzi dire che era il film più brutto che avessero mai visto: appunto, diverso da tutti gli altri, al margine estremo delle classifiche di giudizio, tanto che Martin Scorsese, dalle colonne dell’Hollywood Reporter, si è sentito in dovere di farne un’appassionata e risentita difesa, preconizzandone un possibile futuro da classico, incompreso all’uscita e glorificato sulla distanza. In realtà mother! qualcosa in comune con altri film ce l’ha: ad esempio la tematica dell’intrusione richiama la filmografia di Michael Haneke, talmente coerente nel perseguimento della sua ossessione da girare due volte il suo film feticcio, Funny Games; ma soprattutto ha in comune con Rosemary’s Baby di Roman Polansky (tratto dal romanzo di Ira Levin, la cui bibliografia ha a sua volta qualche ulteriore eco tematica nel film di Aronofsky, come la violazione della privacy di Shiver o l’uso strumentale della donna ne La fabbrica delle mogli) lo spunto di base, che si potrebbe riassumere così: uno scrittore in crisi che vive in una casa che sembra stregata, stretto un patto demoniaco, concepisce un figlio con la legittima consorte per cederlo al maligno in cambio del successo letterario. In tutta la filmografia di Aronofsky d’altra parte la psiche dei suoi protagonisti porta regista e personaggi stessi ad accanirsi sui propri corpi: dal protagonista di Pi greco che si trapana il cervello per trovare sollievo alle proprie ossessioni, al Wrestler che si trafigge il corpo con le sparachiodi per affrontare combattimenti estremi, alla ballerina de Il cigno nero che sacrifica il proprio corpo per sublimarsi nella danza. Ma se in questi casi si tratta di un martirio autoinflitto, in mother! l’ingiuria arriva dall’esterno-mondo, mentre è la casa più che il corpo (almeno sino al finale) a venire continuamente profanata, quasi che essa fosse l’estroflessione del corpo della protagonista, o del suo utero, continuamente penetrato dalla violenza delle intromissioni o delle irruzioni dal di fuori. Tutto il film si svolge all’interno della casa - dentro le cui pareti vediamo pulsare organi vivi - spazio mentale e metaforico. “Tu sei la casa” dice d’altronde Lui a Lei (li chiamerò così perché i personaggi, significativamente, non hanno nome), mentre di sé, con le parole con cui Dio si presenta a Mosè nell’Esodo, parlando da un cespuglio in fiamme, afferma “Io sono chi sono”. Siamo quindi davanti a un demiurgo maschio, di fronte al quale il femminile letteralmente si fa e si disfa secondo il suo volere, le sue trame, le sue esigenze. Paradossalmente però, in un film in cui la casa viene continuamente penetrata dall’esterno, a brillare per la sua assenza è proprio l’atto sessuale, cesura della narrazione, svolta fondamentale, motivo stesso del titolo (esclamativo!), eppure sprofondato in un una profondissima ellissi narrativa. Sembra quasi che Aronofsky (e il suo protagonista), che guardano a Lei con uno sguardo insieme compassionevole e irrisorio, si astenessero davanti all’atto fondamentale (al contrario di quanto faceva Polansky nelle sequenze memorabili della possessione demoniaca in Rosemary’s Baby), omettendo di mostrare la penetrazione/invasione per eccellenza del femminile, quasi delegando ad un’immacolata concezione diabolica il concepimento del figlio da sacrificare perché Lui possa risorgere dalla sua apparente morte creativa. Lei è dunque quasi una Madonna sposa del principio satanico anziché di quello divino, del principio distruttore anziché di quello creatore, o del Shiva che distrugge affinché Brahma possa ricostruire. Sospeso sul baratro del delirio narrativo fine a se stesso, del puro nonsense fonte di irritazione, travolto dalla propria stessa irrazionale vertigine mozzafiato, mother! richiede per forza di cose una lettura metaforica, pena il rifiuto totale e incondizionato. Forse allora, enunciate più sopra le premesse, non è azzardato leggerlo come un’allegoria della creazione artistica, un ritratto mefistofelico di artista, un’autoanalisi del regista nel proprio rapporto con gli attori, i personaggi, l’opera. Lui è quindi l’autore, il demiurgo; Lei è il corpo attoriale, che offre in dono la propria materia, la propria gestualità, la propria performatività (i lavori di ristrutturazione della casa di Lui vengono eseguiti tutti da Lei, mentre a Lui spetta l’attesa inoperosa dell’ispirazione creatrice); e la casa è l’opera (che l’autore nello stesso tempo, taumaturgicamente, crea e abita, essendo al di fuori e nello stesso tempo all’interno di essa): articolata, viva, complessa, piena di recessi inesplorati, da ricostruire da capo ogni volta che è terminata. Le figure degli intrusi invasori possono essere lette in modi diversi, anche secondo le diverse fasi del film. Inizialmente sembrano essere principalmente materia narrativa, il racconto dell’altrui esperienza di vita cui il narratore aspira, e che accoglie e assorbe, per sostanziare e vivificare la propria opera. D’altra parte sembrano incarnare anche le distrazioni/distruzioni del mondo esterno, che possono contribuire all’opera o costituirne l’ostile e disordinato contesto in cui la creazione deve suo malgrado avere luogo e prendere forma. Infine i visitatori sono i fruitori dell’opera, che la consumano, la sbranano, ne fanno oggetto di culto, la fraintendono, se ne appropriano con modalità anche estranee alle intenzioni dell’autore stesso. La deriva insensata, frastornante, soffocante di mother! si richiude infine in un anello dove creazione e distruzione si riuniscono, in un rapporto di necessaria interdipendenza, preannunciato dalle immagini iniziali. L’autore rivela la sua natura ambigua e “sporca” di demiurgo dolente, che se da una parte è costretto a scendere a compromessi con la realtà esterna, con la propria interiorità esposta, con i propri affetti violentati, con il proprio pubblico, dall’altra è condannato ad un eterno ritorno: ogni volta che terminerà un’opera, sarà costretto a distruggerla, a darla in pasto ai propri lettori/spettatori, a farne tabula rasa, terra bruciata, per poter poi ricominciare a creare, a ricostruire una storia, nello stesso tempo uguale e differente. Un’altra opera, un’altra casa, un altro volto di donna. Non siete convinti? Magari potreste d'accordo con il Face/Off di Oruam Norac: andate a leggere la sua recensione. NOVE LUNE E MEZZA di Michela AndreozziPer una volta tanto è lecito impicciarsi della vita privata delle attrici di un film, perché Nove lune e mezza tratta di un tema molto intimo e privato, e cioè del desiderio, della possibilità, della legittimità della procreazione. Dunque, Claudia Gerini, che nel film interpreta Livia (e che trova modo di essere sexy anche con qualsiasi pancione), e che presta il proprio corpo alla gravidanza tanto desiderata ma mai realizzata della sorella Tina, ha due figlie (avuti da diversi compagni); Michela Andreozzi, che interpreta la complessata Tina, ma che il film l’ha anche scritto (insieme a Fabio Morici e Alessia Crocini) e diretto, non ne ha nessuno. Della propria impossibilità ad avere figli l’Andreozzi aveva parlato in passato su Fecebook e in interviste giornalistiche, sostenendo di sentirsi comunque appagata e realizzata, anche se proprio sullo scoglio di questa dolorosa impossibilità era naufragato il suo primo matrimonio. E’ comprensibile quindi che per il proprio debutto nel lungometraggio (l’eclettica Andreozzi è già attrice televisiva, cinematografica e teatrale; conduttrice radiofonica; redattrice, sceneggiatrice e commediografa) abbia scelto un tema tanto vicino alla propria vita intima; meno scontato che lo approcciasse dal versante della commedia. La comicità è d’altra parte nel dna di Michela, che proprio con un duo comico (Gretel&Gretel) esordisce come attrice televisiva. Bisogna dire subito però che Nove lune e mezza fa ridere e sorridere, ma non si adagia sulla corrività e sulla faciloneria di molto cinema televisivo italiano. Lo spunto dichiarato è quello dello scambio di corpi, oggetto di tante commedie fantastiche in cui uomini e donne, adulti e bambini, bianchi e neri, buoni e cattivi, per incanto si scambiano reciprocamente di corpo (ma non di mentalità) generando equivoci e occasioni comico-grottesche. Lo scambio di corpi tra Livia e Tina non ha però nulla di fantastico o di magico, ma è un atto di sorellanza, di solidarietà femminile (un po’ venato anche dalla gelosia da una parte, dal senso di colpa dall’altra), reso possibile dalle tecniche di fecondazione assistita e grazie alla complicità di un ginecologo demiurgo, omosessuale e padre a sua volta di due bambini (interpretato da Stefano Fresi). Sarà quindi Livia, musicista indipendente ed emancipata, che non sente alcun desiderio di maternità, a portare in grembo e far crescere dentro di sé l’ovulo di Tina fecondato con gli spermatozoi del marito Gianni (Lillo); Livia così conoscerà, ma di nascosto da tutti, tranne che dal compagno Fabio (Giorgio Pasotti) e dall’altra coppia interessata, gioia e dolori della maternità, mentre Tina, che deve simulare invece una gestazione inesistente, recita da futura mamma davanti alla famiglia ma si prova anche i pantaloni di pelle che la sorella sexy per il momento non può indossare. Proprio nella regia, sia come gestione delle sequenze che come direzione degli attori (anche se le sbandate nel macchiettistico fanno parte della natura della commedia), risiedono le maggiori debolezze del film, ancora più palesi proprio dove l’Andreozzi sente la necessità di vivificare la narrazione con qualche artificio retorico (split screen, scene fantastiche, movimenti di macchina, il passare dei mesi in una sorta di time lapse, ecc.) o con l'espediente delle canzoni pop un po' vintage. Ma è degno di rispetto il tentativo, nella scrittura e nella messa in scena, di adottare un punto di vista femminile ma laico sul tema, fornendone al contempo una sorta di panoramica paradigmatica. La donna che agogna alla maternità, quella che la rifiuta a priori in nome della propria indipendenza, la cattolica che sforna figli a maggior gloria del Signore, la single che sogna di fabbricarsi da sé l’uomo della propria vita, le madri felici o stressate, la coppia omosessuale che ha concepito i figli all’estero, la procreazione assistita, l’adozione (e perfino il rapimento: ma stavolta è una donna italiana bianca e borghese a rapire una bambina rom): il tentativo di dar voce ad una pluralità di voci, di approcci alla genitorialità, di visioni alternative, ma anche la voglia di dar vita a personaggi secondari e di dare un minimo di spessore ai comprimari, sono talmente pressanti da indurre l’autrice a rischiare cadute di ritmo (la scena con i tre maschi protagonisti e momentaneamente single), a interrompere addirittura il climax finale per introdurre tra parentesi un nuovo personaggio proprio in sottofinale (la partoriente interpretata da una stralunata Arisa), o a inserire nel finale un colpo di scena che stressa ulteriormente le geometrie genitoriali e sororali già pericolosamente messe in tensione. Il film ha il coraggio di non risolversi, come sarebbe stato facile e ovvio, in un’apoteosi della maternità. Se una morale c’è è più o meno questa: avere figli (con le responsabilità e le fatiche, con le gioie e le gratificazioni che comporta) è un diritto di tutti; non averne, pure. QUELLO CHE SO DI LEI di Martin ProvostQuello che so di lei (il titolo italiano assona un po' con quello del film della Hansen-Løve, Le cose che verranno: le cose che so di lei, quello che verrà...) è un altro di quei film molto francesi che non sono né commedie né drammi perché raccontano le cose della vita, che partecipano un po' dell'una un po' dell'altra. Se ne L'avenir a tenere lo schermo era l'assolo di Isabelle Huppert, qui la ragion d'essere dell'operazione sta nella presenza di un mostro sacro come Catherine Deneuve (non è difficile immaginarsi un Depardieu in un equivalente ruolo al maschile), che deve però dividere la scena con l'omonima Frot. E' quest'ultima la sage femme del titolo originale: termine che in francese indica la professione di ostetrica o levatrice ma che corrisponde anche al reale carattere della donna: sulla cinquantina, con un figlio grande, assennata, assestata su una linea di equilibrio un po' al ribasso, un po' repressa, alle prese con la difesa della tradizione umanistica (o si dovrebbe dire femministica?) del proprio mestiere (insidiata da una nuova organizzazione che vorrebbe trasformare il reparto ospedaliero in una sorta di infantificio asettico e tecnologico). A portare scompiglio nella sua vita ordinata arriveranno la notizia che il giovane figlio sta per diventare padre a sua volta e che ha intenzione di lasciare gli studi di medicina per quelli di ostetricia, seguendo le orme femminili della madre soprattutto per una questione di calcolo economico (tempo/soldi). Ma soprattutto a dare una svolta alla sua esistenza sarà il teatrale ritorno in scena di Béatrice, la donna che molti anni prima convinse il padre di Claire a lasciare la propria moglie per seguirla, lui e la giovane figlia, in avventure picaresche che si si conclusero con il brusco e inspiegato abbandono da parte della seduttrice. Ora Béatrice è gravemente malata e, tornata per cercare notizie del vecchio amore, che si era suicidato a sua insaputa in seguito alla sua dipartita, non trova di meglio che coinvolgere la compassata Claire nelle sue ultime fiammate di vita. Malgrado il tumore che la affligge, la donna è rimasta un'avventuriera e una libertina, che mette il piacere e la libertà davanti a tutto: così fuma, beve, mangia carne rossa, rischia i suoi residui averi nelle bische. Sedicente contessa, è nata povera e morirà senza lasciare nulla a Claire, se non un anello, un biglietto d'addio, e una rinnovata voglia di vivere, che Claire imparerà a condividere con un camionista suo vicino d'orto, provvidenzialmente comparso in coincidenza con l'arrivo di Béatrice, che la corteggia e la conquista con la sua gentilezza e il suo desiderio. Film di donne quindi, di madri e di figlie, ma scritto e diretto da un uomo, Martin Provost, che in qualche modo rivendica comunque spunti autobiografici. La Deneuve si impone con autorità e disinvoltura dall'alto di una carriera ultracinquantennale, tallonata dalla Frot che è però frenata da un viso un po' gommoso. Godibile anche l'interpretazione di Olivier Gourmet, attore dardenniano qui impegnato nell'insolito ruolo di amoroso. Forse il pubblico femminile gradirà, rivivendo gioie e dolori del parto nelle numerose scene con neonati emozionanti appena usciti tutti sporchi dai grembi delle loro mamme; e meglio si potranno immedesimare con Claire quelle che hanno avuto madri un po' ingombranti e conosciuto quel groviglio di sentimenti tra ammirazione, invidia, gelosia e senso di inferiorità. Ma c'è da dire che il film, una volta impostata la situazione di base: donna-matura-gaudente-ma-malata, donna-più-giovane-complessata-ma-per-la-quale-non-è-ancora-troppo-tardi, corteggiatore-paziente-e-appassionato, non offre molte sorprese e scorre senza sussulti, con qualche ripetizione e suscitando moderato interesse, verso il finale più prevedibile. FORTUNATA di Sergio CastellittoDevo confessare che nutro un po’ di diffidenza verso i film del binomio creativo e famigliare Mazzantini (scrittrice e moglie) – Castellitto (regista e marito). E’ una questione di pelle; troppa enfasi, troppa retorica, troppo di qualcosa. D’altra parte lo dice anche Jasmine Trinca in un’intervista: Fortunata non è un film per cinefili, io mi riconosco in tale categoria, ergo Fortunata non è un film per me. Il personaggio del film e del titolo è una donna, una donna che combatte per strappare qualcosa di dolce dalla sua difficile esistenza quotidiana. Lotta contro i comportamenti antisociali della figlia di otto anni, contro l’ex-marito che sfoga nel malanimo e nei comportamenti violenti il suo senso di abbandono e la sua sete di rivalsa, lotta contro il passato doloroso che rischia di riemergere, lotta quotidianamente con il suo lavoro di parrucchiera in nero a domicilio che la sbatte di qua e di là per le periferie romane. Lotta per i soldi, per il sogno di un negozio in proprio, per una vita tranquilla, per sua figlia. Per fortuna si chiama Fortunata, e quindi troverà finalmente un vero amore, il psicoterapeuta della figlia, avrà il suo negozio, azzeccherà finalmente la schedina vincente. Per sfortuna il suo nome nasconde l’ironia di un destino cinico e baro. Per fortuna è abbastanza forte da ricominciare da capo, con caparbietà, un paio d’ali tatuate sulle scapole, un bagno purificatore in cui annegare il passato e da cui tentare di riemergere. Castellitto si impegna a filmare una storia popolare (e quindi: romanesco, periferie, immigrati cinesi un po’ loschi, personaggi borderline e caciaroni, canottiere sudate e così via) con un piglio registico veemente e vicino ai personaggi, soprattutto a quello della protagonista che deve suscitare le simpatie e l’empatia anche da parte di un pubblico borghese e benestante non immediatamente portato a identificarsi con lei. Solo raramente la cinepresa prende le distanze, inquadra dall’alto, o da lontano, quasi volesse prendere un attimo di respiro. Non si tratta certo comunque di cinema-verità, bensì di un cinema professionale, costruito, articolato secondo procedimenti drammaturgici collaudati, attento a sfruttare secondo retoriche consolidate attori e musiche (un po’ di Antony and the Johnsons, un “Vivere” di Vasco Rossi a chiudere e a tirare la morale). Gli attori, peraltro, assecondano bene il progetto: Jasmine Trinca si dibatte in un ruolo di quelli che lasciano il segno nella carriera di un’attrice (anche se confessa un certo imbarazzo nell’essersi dovuta calare in un personaggio non immediatamente nelle sue corde); Accorsi porta a casa un ruolo soggetto a rischiose oscillazioni (il medico assennato, l’amante impetuoso, l’uomo intimorito); Edoardo Pesce regge molto bene la tensione di un personaggio incattivito e incline alla violenza, e Alessandro Borghi recita il suo tossico con gli occhi lucidi e febbrili adeguati al ruolo. Fino a un certo punto l’enfasi non tracima oltre il livello di guardia. Ma il problema riemerge mano a mano che ci si avvicina al finale: e il problema si chiama il troppo. Tenendo conto che si parte da una situazione in cui si annoverano disagio socio-economico, malattie senili degenerative, nevrosi infantili, tossicodipendenza, violenza domestica e così via, e passi, a un certo punto nel film ci si trova, nel giro di pochi minuti, ad affrontare: un matricidio; un parricidio; un uxoricidio; un infanticidio tramite suicidio; e, come se non bastasse, anche una schedina del lotto da jackpot milionario. Riusciti o no, questo sta a voi scoprirlo se decidete di andare a vedere il film. Ma è un accumulo eccessivo, frutto di una scrittura che non si fida della propria capacità di raccontare e rendere letterariamente (e poi cinematograficamente) interessante una tragedia o due, ma si sente in dovere di ammucchiarne un po’, sperando che l’una o l’altra vada a segno nel cuore dello spettatore (o della spettatrice: nella sala dove ho visto il film tre quarti del pubblico era femminile). Fastidioso il tentativo di nobilitare la materia volgare del romanzo popolare con il richiamo al sublime della tragedia greca, con i ripetuti inutili appelli all’”Antigone”. Affidati oltretutto a un’imbolsita Hanna Schygulla (nella finzione grande-attrice-tragica-tedesca-malata-di-Alzheimer-che-vive-nella-periferia-romana-assistita- da-un-figlio-tossico-soprannominato-Chicano), alla quale vengono messe in bocca pochissime battute, tra le quali spiccano “meglio la fregna” o “Creonte stronzo! Creonte stronzo! Creonte stronzo!”, che mette addosso una tristezza che non avremmo assolutamente voluto provare. ARRIVAL di Denise Villeneuve Denis Villeneuve è a mio parere uno dei migliori registi della sua generazione (anche migliore dei film che firma), per la capacità di immergere lo spettatore dentro storie involute e complesse, grazie a un uso magistrale delle immagini e dei suoni (che sono gli elementi costitutivi del cinema) con cui costruisce atmosfere suggestive e coinvolgenti. Bisognerà quindi cominciare a interrogarsi sul suo percorso d'autore, operazione troppo complessa da affrontare qui: dal romanzo d'appendice contemporaneo de La donna che canta, al thriller psicologico di Prisoners, al poliziesco di Sicario fino alla fantascienza di Arrival; e, oltre, fino alla curiosità (o alla spasmodica attesa) suscitata dai preannunci del suo seguito all'epocale Blade Runner di Ridley Scott. A parte i titoli composti da una sola parola (La donna che canta in originale si intitola Incendies), i punti in comune da cui partire sarebbero forse il gusto per le storie involute (questa è tratta da un racconto contenuto nella raccolta Storie della tua vita, scritta da Ted Chiang, di cui puoi leggere la mia recensione in Blog Notes), all'interno delle quali si celano misteri e segreti; la predilezione per luoghi chiusi e claustrofobici (le prigioni de La donna e di Prisoners, i tunnel di Sicario e di Arrival) e i paradossi narrativi (anche La donna come Arrival, e in parte come Sicario, nasconde nel finale un twist che scombina le carte narrative). Arrival presenta poi con il film precedente di Villeneuve una medesima situazione di partenza: una donna sola in un universo di maschi. La separatezza di Louise è sottolineata: all'arrivo degli alieni non si avvicina agli schermi tv in università, esce da sola, è sola in casa. Nella base militare dà l'impressione di essere l'unica donna presente. Louise è colei che porta sulle proprie spalle l'onore e l'onere della femminilità. E' un universo che aspetta di venire riempito. Ed essendo Arrival un film che mette in scena una metafora della maternità, la cosa evidentemente non è irrilevante. L'arrivo non è un'invasione, è un'annunciazione, il preannuncio di un lieto evento. Vi state chiedendo cosa c'entra la maternità? Eppure le astronavi sono come gigantesche uova, il tunnel di accesso è come un canale vaginale, la stanza centrale come un utero, gli scienziati come uno sciame di spermatozoi, che accedono al condotto - dove la gravità abituale è sovvertita - da una gru fallica che li conduce all'ingresso. Ma chi feconda chi? E' certo che l'incontro con gli alieni porta, come “dono” di questi ultimi, a una nuova concordia delle nazioni sulla terra, ma anche al futuro concepimento da parte di Louise di una bambina. Ma oltre alla metafora della maternità c'è, nello stesso luogo del testo, una metafora-specchio: l'interno dell'astronave è oltre che un utero un cinema, dove gli alieni e i loro segni si mettono letteralmente in scena su un grande schermo illuminato in una sala buia, a sottolineare che la fecondazione avviene non solo tramite il linguaggio, ma anche attraverso la necessità di una sua decodificazione (analoga a quella che deve esercitare uno spettatore che assiste a un film). Chi ne ha voglia e occasione può approfondire queste tematiche del film nel mio intervento sul prossimo numero 204 di Segnocinema, in uscita a marzo. Comunque è certo che Arrival, sotto le spoglie di un film minimalista (apparentemente la maggior parte del film si svolge in unità di tempo, luogo e azione), cupo (tra notti, interni e nuvole praticamente non si vede mai un raggio di sole) e anche un po' punitivo (neppure le visioni di Lousie, provenienti da un futuro “salvificato”, sono liete, ma al contrario concitate e indirizzate verso la morte di una persona cara), nasconde una ricca stratificazione di significati. Si veda la simbologia geometrica che collega alieni, maternità, linguaggio e concezione della struttura del tempo attraverso la catena di significanti astronavi-uova-ovuli-scrittura circolare-anelli-loop temporali, o il rettangolo vuoto della porta-finestra di casa di Louise che rima internamente con quello animato (letteralmente: nell'edizione italiana gli alieni eptapodi sono ribattezzati con nomi di personaggi dei cartoon) dello schermo dentro l'astronave. Ma si pensi anche al risvolto politico della parabola messianica di Arrival, che si interroga anche sull'accettazione e sul rifiuto del diverso; e che, mentre Trump muove i primi pesanti, inquietanti e rimbombanti passi dentro e fuori la Casa Bianca, mette sul campo un esercito praticamente disarmato, il defatigante lavoro della comunicazione come mezzo di risoluzione dei conflitti (in luogo delle tentazioni guerrafondaie e isolazioniste) e la necessità di una cooperazione mondiale globale per affrontare il futuro che ci aspetta. Futile ma inevitabile domandarsi come avrebbe reagito the Donald all'arrivo di questi nuovi ingombranti immigrati. La critica ha evidenziato gli aspetti più esteriori degli ascendenti di Arrival (le astronavi come il monolite di 2001 Odissea nello spazio, gli alieni buoni come in Incontri ravvicinati del terzo tipo); ma se la tematica della gravidanza e della rinascita lo accomuna a un altro grande film di sf recente, Gravity, di Alfonso Cuaron (seguendo il link sul titolo potete leggere un mio intervento sul tema già pubblicato su Segnocinema n. 184), è la radicalità della rappresentazione dell'alienità che rimanda piuttosto all'indecifrabilità di 2001, o (soprattutto sul versante sonoro) a L'ignoto spazio profondo di Herzog. La pensi diversamente? vedi se ti soddisfano di più le stupidate di Oruam Norac nel suo Face/Off Non so se li becco tutti io o se c’è un significato socio-antropologico da approfondire, ma anche La mia vita da zucchina è un film della linea Bambi, cioè un film senza madri (o forse una c’è, come dirò in seguito, ma del film e non nel film). In questa stagione mi sono già occupato di opere come Fai bei sogni o Captain Fantastic, accomunati dal fatto che la madre muore (suicida!) giusto a inizio film, ma anche nell’animazione il tema non è nuovo, da Bambi, appunto, fino a Alla ricerca di Nemo passando per i molti orfanelli e orfanelle delle storia del cinema animato. Qualche domanda rispetto a questo immaginario sull’assenza (talvolta come si è visto volontaria) della maternità forse bisognerebbe farsela. Icare infatti, 9 anni, vive solo con la madre, abbrutita da birra e televisione. Il padre non c’è più: correva dietro alle pollastrelle, come dice la mamma, e nei disegni il bambino lo disegna come un supereroe mascherato che vola in mezzo alle galline. Quando Icare provoca involontariamente la morte della madre, viene mandato in un istituto, in mezzo ad altri bambini sfortunati, figli di molestatori, di delinquenti, di tossicodipendenti, e così via. Per tutti lui sarà Zucchina (Courgette), come lo chiamava la sua infelice mamma. Nel film di mamme vere e proprie, spero di essere preciso, se ne vedono quattro: una è la madre disgraziata di Zucchina; la seconda è una bisbetica guardata dai bambini in gita con gli occhi del desiderio; la terza è la madre di una delle bambine dell’istituto, che l’attende da sempre ma che trovandosela di fronte preferisce rimanere con i suoi sfortunati amici; e l’ultima è la giovane maestra dell’istituto, che appena avuto il suo neonato si trova a discutere con i suoi piccoli alunni sui motivi per cui potrebbe essere indotta ad abbandonarlo. Già dalle premesse descritte sopra, si capisce come La mia vita da Zucchina sia un film di animazione diverso dalla maggior parte degli altri, segnato immediatamente dalla presenza della morte – di cui il bambino è addirittura, per quanto incidentalmente, responsabile – e di un’infelicità molto realistica e legata ai malesseri della società contemporanea. Poco adatto al pubblico dei più piccoli, e forse apprezzabile di più dal pubblico adulto. Anche se i tocchi umoristici non mancano, ma in misura qualitativa e quantitativa inferiore alle aspettative, a dominare sono i toni profondamente malinconici. Eppure Zucchina nell’istituto non se la passa malissimo. I bambini solidarizzano tra loro, il bullo Simon si rivela molto meno cattivo di quanto potesse sembrare, tutto il personale dell’istituto è benevolo e sensibile, arriva una nuova bambina che suscita nuove emozioni nel cuore di Zucchina, e perfino il poliziotto che si è occupato del suo caso possiede un cuore tenerissimo. Ma anche se tutto sembra destinato a finire nel migliore dei modi, almeno viste le premesse, la malinconia stende la sua ala fino ai titoli di coda, con uno dei lieto fine più tristi mai visti. Che anche dagli eventi peggiori possano nascere nuove speranze, e che in tutte gioie possa nascondersi l’ombra del dolore, è forse una verità difficile da accettare, ma con un suo profondo fondamento. Il film è diretto da Claude Barras, ma non a torto la sua paternità (o meglio, maternità) può essere attribuita a Céline Sciamma, che ne firma la sceneggiatura e a cui si devono alcune delle più intriganti storie sull’adolescenza del cinema degli ultimi anni, come Tomboy o Diamante nero (regie) o Quando hai 17 anni (sceneggiatura per la regia di Téchiné). Il film dura poco più di un’ora, ma è girato con la tecnica del passo uno (in cui eccellevano soprattutto gli animatori dell’Est Europa, ma che conta capolavori anche nel cinema occidentale, da quelli firmati da Lord e Park – quelli di Wallace & Gromit, Galline in fuga o Shaun, vita da pecora – fino a Tim Burton, e utilizzata anche dai creatori di effetti speciali): protagonisti del film sono dei pupazzi che sono stati mossi in pose diverse e fotografati ogni volta, in modo che la proiezione dei singoli fotogrammi dia l’impressione di un movimento fluido. Se contate che per ogni secondo di proiezione occorrono 24 fotogrammi, e che in ciascun fotogramma tutti i personaggi in movimento devono ogni volta essere riposizionati e fotografati, potete avere un’idea dell’immane fatica che occorre per realizzare un film di questo genere... Leggi il Face/Off: Troppa tristezza, Icare! LA VITA POSSIBILE di Ivano De MatteoDiciamo che De Matteo, e la sua sceneggiatrice Valentina Ferlan, avevano fatto di meglio. Qui parte da un titolo programmatico e tira il film fino ad arrivare ad una canzone altrettanto programmatica ed enfatica, La vita (Più bello della vita non c'è niente - E forse tanta gente non lo sa, non lo sa, non lo sa - Ah, la vita - Che cosa di più bello esiste al mondo - E non ce ne accorgiamo quasi mai, quasi mai, quasi mai). In mezzo ci mette il tema della violenza sulle donne (in effetti io ho visto il film in una rassegna legata alla ricorrenza del 25 novembre), con una Margherita Buy presa a pugni nello stomaco dal marito (come si fa a picchiare la Buy?! e poi adesso ha anche una certa età...), ma la sua attenzione principale è dedicata alla figura del figlio dodicenne, che si trova a subire le conseguenze della fuga da casa insieme alla madre, dell'insediamento in un'altra casa e in un'altra città e delle prove esistenziali che lo porteranno, se va bene, a crescere e a superare una fase cruciale della sua vita. Intenti condivisibili, ma qualcosa non funziona. La sceneggiatura, innanzitutto. I titoli precedenti di De Matteo/Ferlan (Gli equilibristi, La bella gente, I nostri ragazzi) ci avevano ben abituato a drammaturgie impeccabili, a script dove la lo svolgimento delle vicende e l'evoluzione psicologica dei personaggi aveva una tale naturalistica credibilità da venire percepiti in chiave di necessità. Non è così ne La vita possibile, dove la storia ondeggia incerta puntando a un finale consolatorio pregiudiziale; dove il personaggio della Buy, privo di retroterra e di motivazioni, stenta ad acquisire profondità e quello della Golino viene relegato a un ruolo ancillare; dove il focus si concentra (forse troppo) sulle peregrinazioni di un ragazzino solitario che tampina una prostituta dell'Est, salvo rimanere scioccato quando la sorprende in azione, e dove anche il personaggio interpretato da Todeschini - un ex-calciatore famoso-poi assassino colposo-ora ristoratore torinese -, per quanto comprensibile esempio di una vita ripossibilizzata, non brilla certo per autenticità. E se De Matteo nei film precedenti si era rivelato e confermato come un eccellente direttore di attori, anche sotto questo aspetto il nuovo film non mi sembra all'altezza: confinate la Buy nei toni sommessi che le sono congeniali e la Golino a quelli di una simpatica caratterista, il peso maggiore viene caricato sulle spalle del giovanissimo Andrea Pittorino, che pure se la cava onorevolmente. Riassumendo: se non li avete visti andate a ripescare i De Matteo precedenti; siate indulgenti con questo e disponiamoci ad aspettare speranzosi il prossimo. IN HER PLACE di Albert Shin |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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