IL VOLTO DI MILANO di Massimo ZanichelliMassimo Zanichelli è docente di cinema, saggista, wine writer, documentarista. Le sue due grandi passioni e competenze, cinema e vino, si sono virtuosamente riunite nei suoi film documentari precedenti, dedicati all’esplorazione di alcune zone vinicole italiane. Ora si cimenta con una produzione totalmente indipendente (firmata dalla DDL video di Davide Di Lernia) e autofinanziata, dedicata ambiziosamente a delineare Il volto di Milano. Per tentare di dipingere un ritratto della città che sta vivendo un momento decisamente positivo dopo il grande cimento dell’Expo, Zanichelli si affida, oltre che alle immagini, alle voci e ai visi (ripresi con una vicinanza che sembra quasi cercare un’identificazione tra i volti delle persone e quelli possibili di Milano) di quattro testimoni: sono quattro voci “colte” e creative – Giorgio Fontana scrittore, Gianni Mura giornalista, Maia Sambonet artista visuale, Marina Spada regista - che raccontano la città da diverse distanze anagrafiche, determinanti nello stabilire il tenore dei giudizi sulla Milano di oggi: dalla visione nostalgica di Mura, insofferente verso la Milano di oggi “che scambia la frenesia per efficienza” a quella pragmatica della Spada, a quelle più positive, anche se in vario grado problematiche, dei “giovani” Fontana e Sambonet. Dall’altra parte, Zanichelli, con una troupe minimale e uno scooter per gli spostamenti, esplora per immagini la città muovendosi lungo diversi assi; oltre a quello “anagrafico” di cui si è detto, e a quello storico, che accosta le vestigie romane e romaniche alle costruzioni futuribili della nuova Isola o di CityLife, la perlustrazione spaziale avviene sia in orizzontale (spostandosi verso le varie zone, dal Naviglio Martesana al centro, dalla Bicocca alla Darsena) che in senso verticale, dal sottosuolo della metropolitana alle numerose panoramiche dall’alto, con la sorpresa (per chi non conosce bene la città) delle montagne all’orizzonte. La stessa camera si fa di volta in volta affascinare da movimenti orizzontali, seguendo il traffico o il flusso dei pedoni, che verticali, dal basso verso i nuovi palazzi o le guglie del Duomo, o viceversa, dalla sommità dei grattacieli verso la città all’intorno ai loro piedi. Quello che emerge è un ritratto molto articolato e sfaccettato, certamente molto più interessante da quello fornito da altri film documentari anche recenti, e con firme a vario titolo illustri, che dà conto di una città certamente ricca di contraddizioni, al primo impatto non facile da vivere e da apprezzare, ma affascinante, viva e vitale. Zanichelli regala d’altra parte a Milano quello che sembra un atto d’amore: la città che dipinge è sempre solare, limpida, benedetta nella maggior parte delle immagini da un cielo azzurro e limpido, che rievoca (anche nelle parole della Spada) quel manzoniano “cielo di Lombardia, così bello quand’è bello”. Pur essendo stato girato nell’arco di due anni, l’autore sembra infatti aver cancellato le brutte stagioni, i cieli grigi, le nuvole, le nebbie e le foschie, la pioggia o la neve, che pure fanno parte costituente dell’immaginario della città. Sembra quasi che, innamorato della qualità tecnica ed estetica delle immagini (in 4K, riprese con videocamera e telefonino ad alta definizione), Zanichelli abbia rimosso, dalle immagini e dall’inconscio del film, tutto quello che (agenti atmosferici, buio notturno) avrebbe potuto attenuare od offuscare lo splendore di un’immagine nitida, cristallina, luminosa. Molto curato anche il sound design del film, che alterna alle voci dei testimoni le musiche, i rumori del traffico, il rombo di sottofondo delle grandi città, i silenzi, riuscendo a restituire, oltre che il volto, anche il respiro acustico-sonoro di Milano. Per chi non volesse perdersi Il volto di Milano, una data sicura è il 6 febbraio: il film (dalla durata di 55 minuti) verrà proiettato alle ore 20 al Cinema Rondinella di Sesto San Giovanni, prima del film Sully di Clint Eastwood, programmato per le ore 21.15.
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I, DANIEL BLAKE di Ken LoachVi chiederete se vale la pena di andare a vedere l'ennesimo Ken Loach. Avete visto l'ultimo Jimmy's Hall, e ve ne siete pentiti, un altro film così poco necessario, poco sentito e in certo grado retorico non ve la sentite di sopportarlo. In fondo sapete già cosa aspettarvi. Cinema sociale, stile realistico, periferie inglesi, gente comune, polemica contro il capitalismo e le destre, al massimo un po' di umorismo salace per sdrammatizzare e dimostrare che la gente semplice è capace anche di ridersela anche in mezzo alle disgrazie e malgrado i malvagi sfruttatori (come il contadino di Ho visto un re di Fo-Jannacci). E avete torto. Cioè, in parte avete ragione, però avete anche torto. Perché è tutta quella roba lì, cinema sociale, stile realistico, periferie inglesi, gente comune, polemica contro il capitalismo e le destre, umorismo salace, ma è anche un film necessario, sentito, senza retorica. Perché racconta il nostro tempo, perché racconta quello e quelli che gli altri film non ritengono degno di essere raccontato. Tipo un carpentiere che ha dovuto smettere di lavorare perché malato di cuore, che si trova invischiato in un mostruoso (ma credibilissimo, accidenti quanto credibilissimo) gorgo burocratico in cui una funzionaria (senza competenza medica) gli nega l'indennità di malattia in contraddizione con tutta la documentazione specialistica, altri burocrati gli impediscono di fare ricorso fino a che non sia terminato un iter senza fine (certa), e altri burocrati ancora gli negano l'indennità di disoccupazione se non dimostra di cercare un lavoro - che comunque non potrebbe accettare, per ragioni di salute e perché accettandolo perderebbe la possibilità di ottenere l'indennità per malattia che gli spetta. Un uomo che sa usare una pialla, ma si trova a disagio davanti alla tastiera di un pc, in una società dove essere moderni significa essere digitali, anche se magari ci si dimentica di essere umani; un uomo capace di aiutare gli altri ma che potrebbe perdere la fiducia in se stesso e in chiunque. O tipo una ragazza madre che si toglie il pane di bocca (letteralmente) e ruba per dar da mangiare ai figli, e per la quale l'unico mestiere disponibile sul mercato degli uomini e delle donne mercificati sembra essere la prostituzione. O tipo due bambini cresciuti nell'unica stanza di un ostello per i poveri. Gente poco trendy, vero? E' sì che sono bianchi, anglosassoni, protestanti, insomma sembrerebbero avere tutto in regola, però di sicuro si preferirebbe non averci niente a che fare. Eppure più o meno al loro posto potrebbe esserci chiunque, io, voi, adesso o nel futuro, in una società liquida che lascia indietro, abbandona e soffoca chiunque non riesca, per qualsiasi motivo e anche solo per un momento, a seguire la corrente. Una società che ci vuole tutti clienti, consumatori, numeri in balia di una giostra burocratica che anziché perseguire il bene delle persone sembra concepita per dominarle, neutralizzarle, ridurle al silenzio e all'impotenza quando non siano funzionali al sistema. Fate bene se decidete di non andare a vederlo, perché è difficile rimanere ad occhi asciutti davanti a scene come quella della Banca del cibo (molto intensa l'ammirevole performance di Hayley Squires), e in diverse altre occasioni. E quelle che salgono agli occhi sono lacrime di compassione, di empatia, ma anche di rabbia e di indignazione. Scusate se sono stato un po' retorico, Loach ha fatto di tutto per non esserlo. Ha vinto una sacrosanta palma d'oro a Cannes, ma qualcuno, ancora una volta, l'ha definito un po' anacronistico. Ma se essere anacronistici vuole dire avere ancora a cuore la sorte dei nostri simili, evviva l'anacronismo. E anzi, anacronistici di tutto il mondo, cercate di unirvi. E per prima cosa andate a vedere la storia di uno che cerca di tenere la testa alta nonostante tutto e di continuare a proclamare nel suo piccolo la propria umanità, la propria identità, i propri diritti, I, Daniel Blake. NERUDA di Pablo LarrainNeruda non è un film su Neruda. O non solamente. O forse sì. Ma forse no. Il titolo, perlomeno, nella sua didascalica apodittica eponimia, è sicuramente ingannevole. Pablo Neruda, premio Nobel per la letteratura – esatto, come Bob Dylan – fu poeta, diplomatico, ambasciatore, viaggiatore, militante comunista, politico, parlamentare, polemista, esiliato, marito, donnaiolo impenitente. Morì in un ospedale - dopo aver visto cadere il governo di Allende che aveva sostenuto - per tumore alla prostata, o forse assassinato dai sicari di Pinochet. Quanto di questo ricchissimo materiale biografico umano, politico, esistenziale si ritrova nel film di Larrain (attivissimo: quest’anno prima di Neruda si è visto El club e si già attende Jackie, presentato alla Mostra di Venezia)? Una buona parte. Non tutto, ma una buona parte. Ma, soprattutto, non solo. Perché in Neruda, a scombinare le carte di un biopic “ben fatto” c’è Oscar Peluchonneau. Chi è Oscar Peluchonneau? Difficile dirlo. E’ sicuramente l’ispettore di polizia incaricato di rintracciare Neruda dopo che il partito comunista è stato dichiarato fuorilegge nel 1948 dal governo Vileda. Ma non solo. E’ anche e prima di tutto il narratore della storia: sua, capiamo dopo un po’, è la sprezzante ma lirica voce fuori campo che (dall’aldilà?) racconta la vicenda. E’ suo quindi (tenete conto che è un personaggio di fantasia) il punto di vista con cui Larrain guarda a Neruda? Certamente non è solo un poliziotto (lavoro che probabilmente fa, più o meno consapevolmente e intenzionalmente, molto male), benché sia senz’altro un “perseguidor” (cito qui il titolo di un racconto lungo in cui Julio Cortazar attraverso il suo alter ego letterario insegue la rovina di un sassofonista jazz che assomigli molto a Charlie Parker); il suo inseguimento sembra, man mano che il film avanza, sempre meno un dovere e una missione professionale, e sempre più un viaggio spirituale e poetico verso un’identificazione con l’ombra del poeta, la caccia ad un fantasma amoroso e lirico nel tentativo di diventare un doppio di Neruda stesso, un antagonista a distanza (i due nel film non si incontrano mai), un oppositore sul piano dell’esistenza e della poesia piuttosto che su quello ideologico e funzionale. Se alla fine Peluchonneau ruba letteralmente la scena al personaggio eponimo, facendo propria tutta l’ultima parte del film, risulta comunque difficile trovargli un definitivo statuto ontologico e narratologico. E’ una proiezione della mente di Neruda, la creazione poetica di un avversario che ne espliciti le contraddizioni, come a volte dal film stesso è malignamente suggerito? O piuttosto il Neruda che vediamo sullo schermo è un’invenzione di Peluchonneau? Se il paragone non offende nessuno, Peluchonneau mi ha ricordato perfino il Rick Deckard di Blade Runner (da Neruda a Philip Dick! multiplo salto mortale) il cacciatore inadeguato che combatte contro avversari spiritualmente superiori a lui, lungo un percorso disseminato di indizi intenzionali (gli origami nel film di Scott, i romanzi polizieschi in quello di Larrain), che seminano dubbi sulle identità invece di risolverli (per giocare la similitudine fino in fondo: Peluchonneau è un "replicante"?). Neruda insomma non è un film semplice. E’ un labirinto di sole due stanze (o, per dirla alla Lynch, una lost highway), in cui si entra con i panni di Neruda e si esce (di scena) con quelli di Peluchonneau. Con quelli di uno sconfitto, che forse la propria sconfitta ha voluto e cercato. E, devo dire, dopo aver tanto cercato Neruda, un po’ della sua frustrazione è anche la nostra. AL DI LA' DELLE MONTAGNE di Jia Zhang-KeIn una città mineraria nell'immensa provincia cinese, alle soglie del nuovo millennio (siamo alla fine del 1999), Tao è corteggiata da due uomini, il minatore Liangzi e l'intraprendente Zhang. Tao alla fine sceglie Zhang, talmente ricco da comprarsi le miniere. Liangzi abbandona la città, mentre Tao ha un figlio che Zhang chiama Dollar, come la valuta statunitense. Nel 2014 Liangzi torna a morire nella sua città natale, ammalato di tumore dopo una vita nelle miniere. Zhang ha divorziato da Tao, si è arricchito, vive con un'altra donna lontano dalla sua città natale. Dollar raggiunge Tao in occasione della morte del nonno, padre di quest'ultima. Dopo le prime incomprensioni si riavvicineranno grazie ad una canzone e a un piatto di ravioli, che per Tao sono legati al ricordo di Zhang e di Liangzi. Nel 2025 Zhang vive in Australia, in un esilio forzato. Dollar non parla più cinese, non riesce a comunicare con un padre cui peraltro non ha nulla da dire, nega di avere mai avuto una madre, ma poi cerca una figura materna in una relazione con un'insegnante più anziana di lui. Una canzone, un piatto resuscitano in lui confusi fantasmi del passato. Tao, sola, danza sotto la neve una canzone della sua giovinezza. A volte (non sempre, forse di rado) la poetica di un film traspare dalla sua fabula. E' il caso di Al di là delle montagne, con cui Jia Zhangke impagina un melodramma raffreddato ed elegiaco, in cui i personaggi si rendono conto che bisogna soffrire per essere consapevoli di amare, e che si può fare solo una parte del cammino con chi ci sta accanto, prima che le rispettive strade si allontanino per sempre. Massime esistenziali che forse possono applicarsi anche al rapporto dell'autore con la Cina, raccontata nel film in un'epoca di trapasso che la allontana sempre più dai valori tradizionali (ai quali sono più vicini Liangzi, che pure muore a causa delle forme rudimentali di un sistema comunque orientato alla produzione e al profitto) e da Tao (che vivrà una vita di sostanziale solitudine) verso quelli dell'economia di mercato, incarnati dal personaggio di Zhang, pur perdente, e simboleggiati dal nome Dollar, ben presto desueto. Jia Zhangke ha il pregio di saper raccontare le storie dei fallimenti e delle disillusione dei suoi personaggi attraverso un'abile triangolazione spaziale, temporale e formale. Paradossalmente, il formato della proiezione (un mutamento durante il film che sarebbe stato impensabile nell'epoca della pellicola) si ingrandisce man mano che la storia si allontana nel tempo e nello spazio, e lo schermo si espande in maniera inversamente proporzionale al richiudersi delle illusioni e delle speranze dei suoi protagonisti. Si parte con il quasi quadrato dei 4:3 nel passato, l'epoca della giovinezza vissuta nel paese natale (il paese d'origine del regista che vi ha ambientato gran parte dei suoi film), quando ancora tutto sembra possibile e le scelte ancora aperte, per allargarsi al panoramico nel presente del 2014, quando alcuni dei personaggi si sono allontanati nello spazio e quando le speranze dei protagonisti si sono già dimostrate fallaci, per espandersi ulteriormente in un formato cinemascope nel futuro del 2025, in gran parte ambientato in un altro continente, in cui i personaggi superstiti devono fare i conti con un palese fallimento, o con la perdita di radici, di memoria e d'identità delle nuove generazioni. L'imperativo Go West cantato dai Pet Shop Boys si è rivelato ironicamente ingannevole, e il dollaro non è più il simbolo di un futuro, almeno economicamente, di benessere e sicurezza. Non resta che sognare una madre assente, o cercare in un sapore o in una vecchia canzone la speranza rimasta indietro nel passato, mentre il buio e la neve nascondono un paesaggio che non è più quello che si era desiderato. Come on, come on, come on, come on - (Together) We will go our way - (Together) We will leave someday - (Together) Your hand in my hand - (Together) We will make our plans (Together) We will fly so high - (Together) Tell all our friends good-bye - (Together) We will start life new - (Together) This is what we'll do... CAFFE' di Cristiano BortoneCaffè è un film ambizioso. E' un'inedita coproduzione Italia-Cina-Belgio, è girato nei tre Paesi con attori e troupe di diverse nazionalità, affronta temi importanti come la crisi economica, le tensioni razziali in Europa, lo sviluppo eticamente sostenibile, ed intreccia tre storie dense di personaggi, non legate tra loro che dalla presenza del caffè in varie declinazioni (il cognome del regista tra l'altro, lo dico anche se non c'entra nulla, è quasi identico a quello di una nota marca della bevanda aromatica). Il modello alto di riferimento è Babel (c’è pure un’antica caffettiera a farsi carico di legare pretestuosamente gli episodi, così come faceva un fucile che viaggiava tra i continenti in Babel), ma purtroppo Bortone non è Iñarritu e, ancora peggio, lui e i suoi sceneggiatori non possiedono l'abilità di scrittura di Guillermo Arriaga. Il caffè come filo conduttore si rivela del tutto risibile, la metafora dei tre sapori (aspro, amaro, profumato), che dovrebbe conferire un differente aroma narrativo a ciascuna delle tre storie è leziosa e gratuita, la direzione degli attori lascia a desiderare così come (di conseguenza?) le loro performance, la sceneggiatura è debole e la scrittura dei dialoghi inadeguata, oscillando tra didascalismi, massime cinesi citate fuori luogo, e altrettanto inopportune esplosioni verbali, al punto da rischiare in più occasioni l’imbarazzo dello spettatore o il ridicolo involontario. Dovrei rendere onore almeno al coraggio di aver affrontato temi così scottanti, ma la carne al fuoco, o si dovrebbe dire il caffè nella caffettiera, è decisamente troppa per tutti, realizzatori e spettatori. E la miscela, spiace dirlo, stavolta è proprio venuta male. FRANTZ di Francois OzonFrantz è un bel film elegante, raffinato, ben raccontato. ecc. e affronta temi importanti come i danni della guerra, l'elaborazione del lutto, l'accettazione del diverso, il peso dello status sociale nelle relazioni interpersonali e sentimentali, ecc. La cosa che più mi ha colpito però, vedendo il film, è la persistenza nel cinema mondiale della memoria di un film archetipico, che malgrado la sua fabula eccentrica e bizzarra torna periodicamente ad affacciarsi agli schermi, a varie latitudini e con le vesti più diverse. C'è una persona morta, A, e un'altra persona dello stesso sesso, B, implicata direttamente nella scomparsa dell'"originale", che si presenta ad una persona di sesso opposto, C, innamorata di A. Ovviamente B non può confessare a C di essere coinvolto nella morte di A, e pertanto il loro incontro avviene nel segno della menzogna. Ma poi, con buona fede ed intenzioni sincere, tenta più o meno consapevolmente di prendere il posto di A nel cuore di C. Dopo svelamenti, inseguimenti, confronti drammatici i due si separano di nuovo, per sempre. Detto così, con una descrizione parastrutturalista, capisco che sarete un po' confusi e state rapidamente perdendo interesse alla questione. Ma se aggiungiamo l'immagine insistita di una donna in un museo, ripresa seduta, di spalle, mentre fissa un quadro alla parete? Non vi ricorda qualcosa? Una sensazione vertiginosa di dejavu? Mmh, non so se la pensiamo allo stesso modo, ma a me Frantz è sembrato l'ennesima incarnazione di una dei film più conturbanti della storia del cinema (ma con alle spalle un libro strabiliante come D'entre les morts, del geniale duo Boileau-Narcejac), La donna che visse due volte (Vertigo nel titolo originale) di Alfred Hitchcok. In realtà Frantz deriva da un romanzo di Rostand già filmato da Lubitsch (il tutto negli anni '30), eppure le somiglianze con la trama hitchcockiana sono suggestive: Adrien torna e prende il posto di Frantz, che ha ucciso, nel cuore di Ana, proprio come Judy, complice della morte di Madeleine, torna per prendere il posto della morta nel cuore di Scottie. Come Madeleine, Ana cerca nell'acqua la morte per annegamento e ne viene salvata. Ana - come Scottie cercava Madeleine - cerca Adrien attraverso le strade della città e nei cimiteri, e tutti ad un certo punto si ritrovano a più riprese a cercare la soluzione della vita e della morte, dell'amore e della perdita davanti ad un quadro enigmatico appeso in un museo... E via, vertiginosamente. Lunga vita alle donne e agli uomini che vissero n volte. FIORE di Claudio GiovannesiGiovannesi travasa i personaggi dai suoi documentari alla realtà (l'aveva fatto letteralmente nel passaggio da Fratelli d'Italia a Alì ha gli occhi azzurri); ma non è tanto un passaggio dalla realtà alla finzione, dal vero al romanzesco. Sembra anzi che per Giovannesi l'approdo alla fiction sia un modo per passare dal vero al più vero ancora, per entrare ancor più nel mondo e nell'anima dei personaggi che gli interessano e che ama, per mostrare quell'intimità che tra un intervistatore e un intervistato, anche per rispetto del primo e per pudore dell'altro, non può essere rivelata. Anche perché in Fiore il tema in gioco è quello del desiderio, selvatico, tenero, brutale, incoercibile, puro, ineffabile. E' il desiderio di una ragazza in fiore, Dafne (straordinaria l'adesione al ruolo della giovane e non professionista Daphne Scoccia), priva di famiglia e di affetti (altrettanto encomiabile la credibilità e la precisione di Mastandrea, così come la sua generosità nell'aderire e sostenere progetti non facili), rinchiusa in quella struttura coercitiva che per eccellenza il desiderio reprime e punisce, il carcere. La cosa stupenda è come Giovannesi riesca ad utilizzare il massimo del realismo (con la rinuncia a qualsiasi retorica, qualsiasi sensazionalismo, qualsiasi forzatura drammaturgica) per conferire al film una carica lirica ed emotiva fortissima. Si veda ad esempio come sono trattate le sequenze oniriche del film. Di Dafne ci vengono mostrati due sogni: nel primo la mano del padre assente le carezza la testa mentre dorme; nel secondo lei si inoltra di notte nel reparto maschile alla ricerca dell'amato Joshua. Nulla ci segnala che si tratti di sogni, lo stile del racconto non si discosta dal realismo con cui si viene raccontato tutto il resto. E con lo stesso convinto realismo Giovannesi ci conduce verso l'esito del film; eppure le stesse vicende potrebbero essere raccontate come un sogno: ho sognato che venivo a Milano, telefonavo ad una tua amica che mi dava il tuo indirizzo, poi prendevamo il treno per andare al mare, ma non avevamo il biglietto e ci scoprivano; i poliziotti ci correvano dietro ma noi scappavamo e saltavamo su un treno e scappavamo ancora, solo che non sapevamo dove quel treno andava... Raramente al cinema si vede tanto amore e tanta pietas verso un personaggio da parte del proprio narratore. E anche noi abbiamo amato Dafne, come avevamo amato Antoine Doinel e la sua futile fuga verso il mare, nel finale de I 400 colpi... |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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