NUEVO ORDEN di Michel FrancoQuasi tutti i commentatori hanno parlato della violenza di Nuevo orden, rimproverandola, respingendola e definendola intollerabile o quasi intollerabile. Eppure, a ben guardare, il film di Franco non presenta molte immagini splatter o gore; le uccisioni avvengono tutte per arma da fuoco e, considerato il contesto e le vicende raccontate, perfino l'uso del sangue può definirsi parsimonioso. Franco si spinge talvolta sull'orlo dell'inguardabile (la carrellata iniziale sui cadaveri, la violenza sessuale, la tortura) ma trattenendosi sempre senza mai cadere al di là. Eppure la sensazione di disagio e di disturbo che provoca la visione del film è innegabile. I fatti sono spiacevoli. La festa di nozze della giovane Marianne offre un ritratto acido dell'alta borghesia messicana, barricata dietro muri, autisti e guardie del corpo a parlare di mazzette e di affari non tutti leciti, ad amoreggiare, ad ubriacarsi e a farsi con tutte le droghe che i ricchi possono permettersi. L'anziano domestico che si presenta a chiedere soldi per l'operazione alla moglie malata riceve una manciata di banconote e viene messo alla porta. Ma le cose stanno per cambiare. Dal rubinetto esce acqua verde, una coppia di invitati arriva inzaccherata di vernice dello stesso colore. Nel prologo si è vista un'irruzione in un ospedale, figure indistinte e inquietanti, un liquame verde che ruscella lungo una scala in un interno, un tappeto di cadaveri insanguinati sui quali risuona il suono di un allarme ossessivo. La radio trasmette bollettini di guerriglia urbana e saccheggi, gli elicotteri sorvolano la città. Presto gli invasori valicano i muri, le guardie sono dalla parte dei rivoltosi, i domestici approfittano per arraffare tutto quello che possono mentre i loro padroni vengono terrorizzati e sparati. Marianne scampa alla mattanza scortata da due poliziotti, solo per trovarsi imprigionata in un lager gestito da militari che torturano e umiliano i prigionieri per chiedere riscatti alle famiglie superstiti. Intanto nel caos, un nuovo ordine sta avanzando: ma non è detto che sia meglio di quello vecchio, e neppure del disordine totale. Ma a disturbare maggiormente, più della storia, che in un blockbuster hollywoodiano non ci avrebbe turbato più di tanto, è probabilmente lo sguardo adottato da Franco. Il regista, pur utilizzando tutte le inquadrature e i piani possibili, dai primi piani e dai dettagli ai campi lunghi e alle riprese dall'alto, mantiene costantemente il distacco dai suoi personaggi. La sua camera osserva, impassibile, incurante del disagio dello spettatore che spesso invece vorrebbe distogliere gli occhi. La freddezza emotiva con cui osserva le violenze, le esecuzioni, il terrore delle vittime, è simile a quella di Haneke in un altro terribile film di violazione e di invasione dello spazio domestico, Funny Games. Franco riesce ad istillare la stessa angoscia claustrofobica anche se rispetto agli interni del film austriaco gli ambienti sono più variati, passando dalla villa lussuosa (che rivelerà a posteriori l'astrattezza geometrica della sua architettura) allo squallore cupo e terrorizzante del lager dei militari, passando per i luminosi esterni di una Città del Messico solare, colorata, e totalmente in preda al caos e alla devastazione. Il regista non spinge all'immedesimazione con le vittime di questo incubo (non poi così) distopico: siamo loro vicine, ma gli rimaniamo distanti, con il regista determinato a non permetterci di empatizzare più di tanto con loro; non siamo loro, ma il punto è che potremmo essere loro. Per lo spettatore occidentale si insinua un altro sentimento, altrettanto sgradevole: i rivoltosi sono i più poveri e più emarginati dalle élite socio-economiche, in massima parte di etnia indigena, mentre le vittime al contrario sono per la maggior parte bianche. Le orde del disordine sociale sono quasi senza personalità, quasi degli zombi, e come gli zombi sono affamati; non di carne umana, non di giustizia, bensì di beni, di quei materiali e concreti beni di consumi lussuosi che loro non potrebbero mai permettersi e che arraffano avidamente, con cieca e febbrile bramosia. Inconsciamente, lo spettatore è portato quindi a identificarsi con le vittime bianche, che non sempre hanno la coscienza pulita, con un misto di sentimento di paura, di umiliazione e di senso di colpa. E' questa forse la violenza maggiore che infastidisce e disgusta lo spettatore occidentale, quella di essere resa vittima senza tuttavia essere riconosciuta incolpevole, senza che neppure il regista e la macchina da presa ci dimostrino un po' di pietà, di compassione e di empatia. Ma non finisce qui. L'ordine che viene ristabilito è quello che rimette al potere i potenti, che spazza via insieme alla rivolta anche i più innocenti, i più deboli e inermi. E' un ordine senza giustizia, senza libertà né uguaglianza e tanto meno fratellanza. I lavoratori ritornano al loro status di schiavi, i capri espiatori vengono sacrificati, gli inutili innocenti eliminati. Alla violenza del caos si sostituisce quella dell'ordine: alla mattanza sciatta e indiscriminata si sostituiscono le organizzate esecuzioni in serie, con i cadaveri cancellati dal fuoco; le messa in scena che coprono le menzogne dei potenti; lo spettacolo della morte con le impiccagioni ben allestite davanti al pubblico compiaciuto e vendicativo dei potentati militari e civili, mentre sulle strade tornano a sventolare arroganti le bandiere nazionali. Non arriva primo in queste stagioni Nuevo orden a raccontarci di una violenza virale (vedere il film nella nostra epoca minata dall'incertezza e dal senso di morte e di claustrofobia provocati dalla pandemia rende lo spettatore ancora più vulnerabile di fronte alla sfrontata e autoritaria brutalità del film), che non è lotta di classe - con quanto di consapevole, organizzato e finalizzato il termine comporta nella sua accezione marxiana - ma una rivolta nichilista e acefala, un incontrollabile ribollire di malcontento alimentato dall'ingiustizia e dalla diseguaglianza economica sociale che porta ad una ribellione luddista senza scopo e senza obiettivo. Ce l'ha raccontato Parasite, dove però il conflitto di classe veniva mediato da un gioco con i generi cinematografici che comprendeva anche i toni del grottesco e della commedia; ce l'ha raccontato Joker, che attenuava il proprio impatto collocandosi all'interno (per quanto in posizione estremamente eccentrica) di un universo stilizzato e fumettistico. Il fatto che tutti e tre i film abbiano ricevuto importanti premi negli ultimi grandi festival internazionali la dice lunga su quanto abbia intercettato la sensibilità degli intellettuali e delle personalità del mondo del cinema chiamati a giudicarli. Ma Nuevo orden (non lo si legga come un giudizio di valore) non attenua, non media, non fa sconti allo spettatore. Le sue immagini richiamano quelle degli scontri di piazza che vediamo ai telegiornali, provenienti da molte parti del mondo in fiamme, anche a noi assai vicine; e rievocano la memoria delle atrocità naziste o di quelle delle tante feroci dittature che hanno umiliato, devastato e insanguinato i Paesi dell'America latina in decenni molto più recenti. Nuevo orden è un viaggio disturbante in un allucinante incubo. La paura che incute è quella di svegliarci e di accorgerci che non stavamo sognando.
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LE STRADE DEL MALE (The Devil All the Time) di Antonio CamposNel presentare Knockemstiff, uno dei paesini sperduti dove si svolge gran parte del film, il narratore dice che si tratta di un paese di circa 400 anime, tutte più o meno imparentate tra loro (vuoi per lussuria, per necessità o semplicemente per ignoranza). Quello al cui interno corrono Le strade del male è quindi un microcosmo chiuso, asfittico, tarato, dove le strade riconducono sempre più o meno allo stesso posto (o nel migliore dei casi oscillano tra i due poli geograficamente equivalenti di Knockemstiff e Coal River). Il piccolo mondo antico è un pozzo nero dove i liquami convergono per defluire verso l'inferno. Nessuno se ne allontana veramente, gli automobilisti come Sandy e Carl si muovono in circoli (letteralmente) viziosi e anche gli autostoppisti che chiedono un passaggio lungo la strada non vanno in nessun altro posto che non sia un boschetto in riva al lago, dall'apparenza idilliaca, che è in realtà un teatro dell'orrore. L'unica dimensione alternativa, collocata alle rispettive estremità dell'arco temporale lungo il quale si svolge la vicenda, l'unico altrove, è quello della guerra, (la Seconda Mondiale, dal quale Willard torna dopo aver sparato alla testa di un commilitone scuoiato e crocifisso dai Giapponesi; e quella del Vietnam che incombe per succhiare altro sangue fresco da un'America già intrisa di violenza): e cioè un altro esotico scenario di morte e di orrore che, come dice un giovane reduce guardando il paesaggio circostante dal finestrino della macchina, in fondo assomiglia a quello di casa. E se il titolo italiano dà una dimensione spaziale alla presenza del male, quello originale, The Devil All the Time, le conferisce invece una dimensione temporale. Il male, la malattia, il destino di morte, la vocazione o la necessità alla violenza, sono completamente pervasive, attraversano le generazioni, si trasmettono dai padri ai figli come una malattia ereditaria, come tare genetiche. Incendi, malattie, turbe psichiche, paranoie, sacrifici cruenti, suicidi, perversioni sessuali, bullismo, ossessioni religiose, omicidi seriali e occasionali, corruzione, lussuria: Le strade del male risparmia ben pochi mezzi per dipingere un bucolico ma nerissimo regno del male e della follia, dove le immagini più truculente sono mostrate attraverso il negativo di una pellicola fotografica. Tra cani crocifissi, teste enfiate dalle punture di ragno, mogli uccise con un cacciavite in gola, ragazze incinta impiccate per sbaglio, giovani evirati e uccisi per un lascivo divertimento, le vicende narrate in questa mostra delle atrocità (che evita però il gore visivo) sono ambientate in paesaggi bucolici, accompagnate dalle allegre canzonette dell'epoca, agite o subite da un gruppo di attori glamour (Holland, Skarsgard, la Keough, la Wasikowska, Pattinson) e soprattutto profondamente, pervicacemente impregnate di un pervertito sentimento religioso, che tenta inutilmente di porre un argine al sentimento del male, all'ignoranza, al senso di impotenza di una vita povera materialmente e spiritualmente, e che invece spesso finisce per essere la maschera o addirittura l'esca per il divampare del maligno. Se sulla terra perfino i tutori della legge e i pastori di anime sono corrotti e corruttori, non sorge nemmeno un dubbio che in cielo possa esserci davvero un Dio ad ascoltare i lamenti, le richieste e le preghiere di quegli uomini e quelle donne abbandonati alla loro vita, terribile quanto il loro destino. Le strade del male è la versione nera dell'elegia hillbilly (dove gli hillbillies sono i campagnoli e montanari della provincia profonda, segnata appunto dalla povertà, dall'alcolismo, dalla miseria morale) che dava il titolo ad un'altra saga americane della scorsa stagione; vicina alla tradizione della letteratura del south gothic di Faulkner o della O'Connor, e epigono di una serie di titoli appartenenti alla migliore storia del cinema americano che hanno indagato i lati oscuri della religiosità e del misticismo americani, come La morte corre sul fiume di Laughton, Il figlio di Giuda di Brooks, o La saggezza nel sangue di Huston. Ma la pervasività del male, la perversione nascosta dietro la bellezza, l'alone malsano, i paesaggi tra i boschi, il peccato e il mistero nascosti nel retro di un bar e celati dietro la tenda, fanno pensare anche al torbido universo di Twin Peaks. Tuttavia Le strade del male non è solo una raccolta di citazioni possibili, né un saggio antropologico sul misticismo e la violenza della provincia profonda americana, e nemmeno un apologo (a)morale e apocalittico. In realtà i narratori (lo scrittore Donald Ray Pollock, cui appartiene la voce fuori campo del narratore onnisciente e ironico, e il regista Antonio Campos, statunitense di origini italo-brasiliane) instaurano una sorta di gioco narrativo con lo spettatore, che sembra sminuire l'autorevolezza del racconto e dell'apologo con un gioco combinatorio che a molti sarà parso eccessivo e stucchevole. Il meccanismo si rivela da subito, nel bar dove il protagonista iniziale, Willard, incontra la donna della sua vita: ma il narratore con la complicità delle immagini ci inganna da subito, indirizzando l'attenzione su una bella ragazza che incontra sì il suo uomo, che però non è Willard; e la voce narrante anticipa già che quella che si sta formando è formata dall'Esca e dal Cacciatore, che semineranno vittime lungo le strade del male. Nel microcosmo asfittico del film, dove, ricordiamolo, tutti (tranne il protagonista Arvin), sono imparentati con tutti, tutti finiscono per incontrare tutti, i carnefici diventano vittime, le vittime volenti o nolenti diventano carnefici, percorrendo un labirinto dai sentieri incrociati dove, ad ogni crocevia, come nelle grandi parabole noir sull'ironia crudele del caso disegnate dai fratelli Coen, la morte è in attesa o (come fossimo in Blood Simple), carica a salve la pistola dell'assassina. Eppure l'artificiosità che emerge gradualmente dall'impianto narrativo non fa in fondo che rafforzare la visione del mondo espressa dal film aggiungendole in sovrappiù un ghigno ironico, aggiungendo alle dimensioni del tempo e dello spazio quella delle relazioni umane. I personaggi si agitano in un gorgo che li sprofonda verso la morte, in circoli viziosi senza via d'uscita. O forse non proprio: uno dei pochi personaggi sopravvissuti alla fine sembra potersi allontanare dal teatro di tanta violenza. Distrutto dalla stanchezza, dalle emozioni, stravolto dagli sbadigli, tenta disperatamente di non addormentarsi, mentre una macchina guidata da uno sconosciuto lo porta (o almeno lo speriamo) lontano. SOUL di Pete Docter e Kemp PowersSoul è brutto. Si può dirlo? So che parlare male di un film Pixar è come bestemmiare. E che si potrebbe dirla in un altro modo. Però “brutto” è più brutale, più diretto, dice più le cose come stanno, le sfumature eventualmente possono venire dopo. Prima di tutto: sarei curioso di sentire un bambino (di qualunque età) che mi racconti Soul dopo averlo visto. Cosa ci avrà capito? Di anime perdute e mai nate, di oltremondi e antemondi, di ectoplasmi tutti con lo stesso nome e Io-seminari, di giovani anime femmine in corpi di maschi adulti, di anime di uomini adulti dentro gatti, di passioni che diventano ossessioni, di scintille che si accendono e si spengono, di pass e di jazz? Mah, forse non è un film per bambini, mi si dirà. I suoi temi esistenziali e filosofici lo dimostrano. E allora? E' un film per adulti? E poi c'è la poetica di Peter Docter, ormai purtroppo direttore artistico della Pixar dopo le dimissioni di John Lasseter. Così legata al tema della morte. In Up (2009) la protagonista femminile, sterile, dopo un prologo vertiginoso che riassume tutta una vita in lampeggianti frammenti, si ammala e muore senza aver mai realizzato il suo desiderio. Sono passati pochi minuti dall'inizio del film e nessun personaggio femminile prenderà il suo posto. In Inside Out (2015) la lezione da imparare per la piccola protagonista (in cui albergano tre emozioni negative, Rabbia, Disgusto e Tristezza e una sola positiva, Gioia), è che deve far morire dentro di sé la dimensione e i ricordi dell'infanzia, così come muore per permetterle di salvarsi l'amico Bing Bong. In Soul, Joe, frustrato insegnante di musica alle scuole medie e aspirante pianista jazz, nel giorno più felice della sua vita, dopo aver superato un'audizione con il suo idolo, una sassofonista dalla voce roca, al colmo della gioia cade in un tombino e muore. E' vero, le morali finali capovolgono o almeno virano in positivo le situazioni di partenza: in Up il vecchio ormai celibatario Carl trova una nuova ragione di vita nell'amicizia paterna con il giovane Russell; in Inside Out Riley trova nel distacco dal passato la forza per crescere; in Soul Joe trova grazie al rapporto paterno che instaura con l'anima 22 la gioia, il senso e il piacere del vivere; in sé, e cioè indipendentemente dai successi, dalle gratificazioni delle proprie passioni o dal raggiungimento di obiettivi (ma si noti che questo è possibile solo grazie all'improbabile concessione di una seconda chance di vita dopo la morte). Ma in realtà non è neppure questo il problema (anche se il costante ritorno di personaggi celibi segnati da un destino di morte in film destinati – continuo a presumerlo – all'infanzia, non è questione da poco): è che in Soul non c'è avventura, non c'è divertimento, non c'è commozione. Le vicende che si susseguono sono episodi piuttosto statici, dove il brivido della velocità, del rischio, della scoperta – insomma dell'avventura – è singolarmente assente. Anzi, una buona (e a mio parere eccessiva) parte della vicenda è ambientata in un Oltremondo di paesaggi indefiniti ed evanescenti, solcato da galeoni rosa con le vele arcobaleno che sembrano usciti direttamente dal corteo di un gay pride e popolato da silhouette senza carattere (infatti si chiamano tutti allo stesso modo) e da anime potenziali ancor più senza carattere (per statuto) che assomigliano notevolmente alle cellule della nota pubblicità di un'acqua minerale. L'umorismo e la comicità latitano in maniera grave; neppure la temporanea presenza dell'animale buffo, consueta spalla comica nei film di animazione, riesce a portare un po' di buonumore, senza contare che il gatto di Soul è uno dei più brutti felini della storia dell'animazione mainstream, in grado di rivaleggiare perfino con l'antipatico Lucifero di Cenerentola. Stesso discorso per l'emozione e la commozione (strano per un autore che aveva tematizzato le emozioni fino al punto da personificarle in Inside Out), che non scatta mai. L'aprirsi della mano di Joe, che lascia necessariamente andare 22 verso il suo destino e la sua vita futura, dovrebbe essere il climax emotivo, ma non riesce nemmeno a sfiorare la commozione suscitata dalle mani che in Toys 3 si serrano invece per tenersi vicine le persone amate, di fronte ad un incombente e apparentemente ineluttabile pericolo di morte. E in definitiva, Soul manca di personaggi. Il “corpo” e la figura centrali sono quelli di Joe Garner (un adulto nero, frustrato, celibe e morto precocemente), abitati però da due personalità differenti. Intorno al questo perno cosa troviamo? Una cellula senza forma dal carattere riottoso (designata non con un nome ma con un numero), un gattaccio temporaneamente posseduto dall'anima di Joe, qualche ectoplasma (tutti di nome Jerry), qualche personaggio di contorno - che hanno funzioni più di esemplificazione morale che narrative (la rude ma talentuosa sassofonista; la madre prima castrante poi finalmente fiduciosa nelle capacità del figlio; un barbiere incarnazione della possibilità di trovare appagamento pur avendo tradito la propria vocazione), e poco altro. Figure funzionali al messaggio, in un film (per bambini?) che mette al primo posto un percorso spirituale e morale a scapito di quello narrativo. Più che scaturire dalle vicende drammaturgiche, il messaggio ne prende il posto, e questo non mi è mai sembrato sano in un'opera di narrazione. Contrariamente alla loffiaggine della rappresentazione dell'Oltremondo, l'ambientazione urbana è realistica e ben riuscita, ma anch'essa sembra relegata in secondo piano, in scorci veloci. A ritmo di jazz? Ah già, perché c'è anche la musica, con le composizioni di Jon Batiste e gli omaggi ai grandi del jazz frammisti alle atmosfere prevedibilmente new age evocate da Trent Reznor e Atticus Ross per l'Oltremondo. Probabilmente un Oscar alla colonna sonora da mettere nel carniere, oltre a quello come miglior film di animazione. Ma ormai io vi ho detto come la penso. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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