Anche quest'anno Milano (in gemellaggio con Como) ha ospitato il Noir in Festival, che propone proiezioni cinematografiche (concentrate nel grande, accogliente auditorium dello Iulm, dotato di un impianto audio fantastico), tra concorso internazionale e concorso del noir italiano, omaggi e anteprime, oltre ad una nutrita e per nulla secondaria sezione dedicata alla letteratura di genere. Un festival bellissimo che meriterebbe un pubblico immensamente maggiore: pur giocando in casa in un'università come lo Iulm che offre ad esempio corsi in cinema, televisione e nuovi media, e con ingresso libero alle proiezioni, l'enorme auditorium era talvolta desolantemente semivuoto. Per il premio intitolato a Claudio Caligari (autore di tre soli ma incisivi lungometraggi, Amore tossico, L'odore della notte e Non essere cattivo) è stato proiettato come evento speciale Il traditore, di Bellocchio, mentre erano in lizza per il concorso La paranza dei bambini di Giovannesi, Lo spietato di De Maria, 5 è il numero perfetto di Igort, Gli uomini d'oro di Alfieri, L'uomo del labirinto di Carrisi, e Il ladro di giorni di Lombardi. Li ho visti tutti (cliccate sui rispettivi link per leggere le recensioni disponibili su Into the Wonderland), tranne l'ultimo. A vincere, con uno statisticamente improbabile ex-aequo, sono il neo-neorealistico La paranza dei bambini e Lo spietato, decisamente più pop, che viste le accoglienze non proprio entusiastiche partiva decisamente sfavorito. La selezione era comunque decisamente buona e il risultato tutt'altro che scontato, tra l'esercizio di stile alla Frank Miller di Igort, la rivisitazione glocal del genere di rapina firmato da Alfieri e il tentativo (non ancora risolto sul piano drammaturgico e narrativo) di internazionalizzazione di Carrisi. Scamarcio e Servillo si affermano come attori noir dell'anno, protagonisti di due opere ciascuno (Lo spietato e Il ladro di giorni il primo, 5 è il numero perfetto e L'uomo del labirinto – che vede la partecipazione anche di Dustin Hoffman - il secondo). Il più curioso dal punto di vista del casting è però decisamente Uomini d'oro, che schiera in ruoli drammatici delle maschere da commedia come Leo, Morelli e, addirittura, Fabio De Luigi, che aveva rifiutato il ruolo, pur avendo apprezzato il copione, per timore di rovinare il film; così racconta Alfieri nell'introdurre la proiezione, ma alla prova dei fatti De Luigi non sfigura. Sulla strada aperta da Lo chiamavano Jeeg Robot, un nuovo dignitoso tentativo di resuscitare il cinema di genere in Italia. Anche il concorso internazionale era molto stuzzicante, tra rivelazioni cinesi, il remake coreano di un classico del polar come Quai des orfevres 36, proposte scandinave e diverse opere provenienti dall'America latina. Purtroppo sono riuscito a vedere solo due film, appunto sudamericani, tra i quali però c'era il vincitore del concorso. 4X4 è un film argentino a budget contenuto, il tipico film scommessa giocato su un ristrettissimo ambiente concentrazionario. Un ladruncolo si infila in un auto parcheggiata in una tranquilla stradina di Buenos Aires. E' il 4x4 del titolo, che si chiama non a caso Predator, e che si rivela una trappola letale. Se entrare è stato facile, uscire da veicolo, blindato, insonorizzato e con i vetri oscurati, risulterà impossibile. Gran parte del film si svolge quindi interamente nell'abitacolo dell'automobile, con un unico attore (che comunica con il telefono di bordo unicamente con il proprietario del veicolo) e qualche comparsa oltre i vetri dell'auto. A tre quarti il film svolta: si presenta il proprietario dell'auto, che vuole vendicarsi di una città violenta sul casuale ladruncolo (anche assassino in passato, in effetti, veniamo a sapere). La situazione precipita, e l'ultimo segmento di film vede sostituirsi al protagonista unico due nuovi personaggi, il padrone dell'auto e il mediatore in pensione mandato dalla polizia, che intavolano un dibattito pubblico (a far da coro la gente esasperata radunata per strada) su criminalità, proporzionalità delle punizioni, colpe del singolo e responsabilità sociali. In parte già visto, ma la tensione funziona e i tre attori sono adeguati ai ruoli.
Il film che si aggiudica il Black Panther viene invece dal Brasile. Siamo nel paese di Bacurau, che dà il titolo al film, nello stato nel Pernambuco, che i turisti conoscono per le località costiere di Recife e Olinda. Ma qui siamo nell'interno rurale, in un paese talmente sperduto da poter sparire da un giorno all'altro dalle mappe satellitari, perdere il segnale dei cellulari e rimanere tagliata fuori dalle strade di comunicazione e dall'approviggionamento idrico. Bacurau è uno strano oggetto filmico, dove convivono dischi volanti vintage (malgrado l'apparente arretratezza dell'ambientazione, viene da chiedersi se non ci si trovi in un film di fantascienza, la didascalia iniziale ci dice che il film è ambientato tra qualche anno) e anziani giardinieri nudi, vaccini trasportati in ghiaccio e misteriosi motociclisti in tenute variopinte, discendenti dai banditi cangaçeiro legati alla comunità e americani dagli occhi di ghiaccio, musei pieni di armi ancora funzionanti e dighe abbandonate in cui si arroccano i reietti della società, riprese dal drone e bizzarre goffaggini narrative, il tutto in una narrazione corale e comunitaria frequente nel cinema latinoamericano ma quasi sconosciuta a quello occidentale. Per metà film non si capisce assolutamente dove il film possa andare a parare, né comprendere il motivo per cui è stato inserito in un festival noir. Poi il film svolta, rivela un inaspettato versante di ficcante metafora sociopolitica ma, anziché farsi più astratto, si trasforma in un thriller sociale di scioccante violenza e percorso da una tensione non convenzionale. Udo Kier ci mette i suoi occhi gelidi da assassino, ma i suoi cacciatori di uomini scopriranno che le vittime designate nascondono un passato ferino e niente affatto docile o remissivo. Commedia di paese, falsa fantascienza, fiaba nerissima, pamphlet atroce sulle diseguaglianze tra mondo ricco e mondo povero, satira politica, western alla I magnifici sette, tocchi horror, thriller dalle allucinate cadenze dilatate. Non so se fosse il film migliore del concorso, ma sicuramente è un ufo (oggetto filmico non identificato), bizzarro ma efficace, non a caso già vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes. Dirigono a quattro mani Juliano Dornelles, Kleber Mendonça Filho, già scenografo e regista di Aquarius, arrivato anche in Italia per la presenza carismatica di Sonia Braga. A chiusura del festival è stato proiettato in anteprima Il mistero Henry Pick. Siamo un po' fuori tema, col noir non c'entra nulla e il mistero del titolo è un mistero letterario, incentrato sull'apparizione di un romanzo che ottiene un clamoroso successo, firmato da un pizzaiolo bretone deceduto che nessuno, famigliari compresi, ha mai visto leggere un libro o scrivere un rigo. Un critico letterario (star di una trasmissione televisiva letteraria come in Francia hanno sempre fatto e in Italia mai) scettico e incredulo sacrifica matrimonio e carriera pur di indagare sul caso, sconvolgendo la vita di alcune delle persone coinvolte, prime tra tutti la figlia del sedicente scrittore. Il film appartiene infatti a quel filone del cinema francese intellettualistico, libresco, con personaggi legati al mondo dell'editoria, decisamente rivolto ad un pubblico non più giovane, che ha prodotto nelle ultime stagioni titoli pregevolissimi come Il gioco delle coppie o Belle epoque. Carina l'dea della biblioteca dei libri rifiutati (anche se sprecata subito un po' in farsa), ma stavolta il risultato è molto più modesto, l'interesse e la curiosità si mantengono flebili e molto sa di dejavu, a cominciare da Fabrice Luchini, ormai piuttosto logorato dai ruoli di intellettuale misantropo e un po' arrogante (cui alla fine naturalmente ci si deve affezionare grazie alla rivelazione del suo lato umano), e che pedala sulle strade di provincia come già faceva in Moliere in bicicletta.
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Satira e uso del grottesco sono alla base anche della commedia nera OMICIDIO ALL'ITALIANA, di Maccio Capatonda. Qui i bersagli sono prevalentemente due: una sedicente provincia italiana isolata e arretrata, invecchiata e ignorante, e il circo mediatico che costruisce i propri discutibili spettacoli sulle tragedie di cronaca nera (argomento sfiorato anche da Ammore e malavita nella scena dell'inclusive tour nel degrado di Scampia). Ma qui il risultato decisamente non funziona. Capatonda funzionerà sul web, ma un lungometraggio intero tenuto sempre su toni satirici così esasperatamente grotteschi non regge. Eppure lo spunto poteva offrire occasioni interessanti, e qualche volta si sorride, ma la grana che Capatonda decide di utilizzare è talmente grossa da risultare non digeribile. La Ferilli finisce per stonare nel contesto per professionalità, in mezzo a tanta sgangheratezza. Una gag come quella in cui il rozzo coprotagonista per abbordare una ragazza in una bar gli si rivolge dicendole “Puzzi meno di una capra” non è (solo) politicamente scorretta o volgare, è semplicemente molto brutta. Discutibile anche il risultato de LA RAGAZZA NELLA NEBBIA, un noir decisamente più tradizionale, con delitti e indagini, serial killer e false piste. Donato Carrisi (autore “totale” in una cinquina dalle molte regie collettive) dirige il suo primo lungometraggio traendolo dal proprio stesso romanzo (modestamente definito nei titoli di coda “bestseller internazionale”). Il titolo, l'ambientazione e la presenza di Servillo riecheggiano La ragazza del lago di Molaioli (ma la cornice narrativa richiama piuttosto Under Suspicion o il suo progenitore Guardato a vista), ma l'esito non ha la stessa finezza. Uno dei grossi problemi del film è la presenza dello stesso Servillo, che, se non è controllato da un direttore d'attori più che bravo, tende a gigioneggiare, illudendosi di lavorare su toni sommessi, in realtà tradendoli completamente. Qui l'istrione imperversa indisturbato, ma quel che è peggio su una sceneggiatura mal scritta e con notevoli buchi. Nessun senso del paesaggio, scene madri orecchiate altrove e maldestramente riprodotte, indagini abborracciate e attori (c'è anche Jean Reno, ma non è certo una garanzia) allo sbando. Forse l'unico personaggio e l'unico interprete a salvarsi, per esclusione, sono il prof. Martini e il suo interprete Alessio Boni. L'ambientazione de I FIGLI DELLA NOTTE (di Andrea De Sica) in un collegio tra le montagne e in un paesaggio invernale fa pensare all'Overlook Hotel, o anche a una versione maschile della scuola di danza di Suspiria. All'austero collegio, frequentato da figli della buona società che i genitori hanno per un motivo o per l'altro allontanato dalla famiglia, si contrappone visivamente e sonoramente lo spazio altro di un casino (sic), frequentato, malgrado l’asserito isolamento dei luoghi, da una folla di signori viziosi, signorine struscianti e studenti arrapati. De Sica ha una sua idea di regia minimalista, ellittica e formalistica, ma il film soffre di alcuni difetti fondamentali (oltre che di prove d’attore a volte immature). La sceneggiatura accumula temi e spunti (ci sono bulli con maschere terrificanti, fantasmi, omofilia, teorie del controllo, amour fou, romanzo di formazione, ecc.) che disperdono l’attenzione senza che un tema assuma una forza necessaria e sufficiente a reggere il racconto. Il finale amorale dovrebbe forse riscattare il tutto, ma arriva fuori tempo massimo. A ciò si aggiunga che ognuno dei tre protagonisti è portato a prendere delle decisioni fatali, nessuna delle quali sembra sufficientemente motivata in sede di scrittura del personaggio. Inoltre la regia non riesce mai a costruire una reale tensione; non bastano lunghe inquadrature di corridoi (ma al posto delle gemelline e delle ondate di sangue di Shining ci sono due adolescenti che fanno le corse con i carrelli), presenze fantasmatiche inerti o un sound design invadente a generare paura e tensione. Oltre ad Argento e Kubrick, a voler mirare alto, bisognerebbe ripassare Il regno di von Trier o un Lynch qualunque. Interessante, comunque, da aspettare ad una prova successiva in attesa di maturazione. Si ritorna invece, di nuovo, ad una bizzarra commistione di generi con SICILIAN GHOST STORY, già enunciato da un titolo che a mio parere è tuttavia fuorviante: non solo è del tutto ingiustificato l'uso dell'inglese, ma quel che è peggio il titolo induce ad aspettarsi una sorta di film di fantasmi cinesi in salsa sicula, un pastiche parodico alla Grosso guaio a Sicilytown. Assolutamente nulla di tutto questo: il film racconta di una tragedia reale, uno dei più agghiaccianti episodi di mafia mai occorsi, quello del rapimento del tredicenneenne Giuseppe Di Matteo (ad opera di una gang capeggiata da Giovanni Brusca; sono un centinaio i mafiosi condannati all'ergastolo in seguito ai fatti), colpevole di essere figlio di un pentito, tenuto in cattività per oltre due anni e poi strangolato, il cui cadavere fu dissolto nell'acido e poi gettato in mare. La terribile storia è raccontata dal punto di vista del personaggio di Luna (una giovanissima e determinata ragazza siculo-polacca, Julia Jedlikowska), una coetanea innamorata del ragazzo che non si rassegna alla sua scomparsa e al clima di indifferenza e di omertà che la circonda. Il film affronta però un rischio micidiale, non solo per la trasferta nel regno di una fiction di una vicenda atroce colma di tanta sofferenza, ma anche perché si permette di mescolare i toni realistici con quelli onirici e fantastici (riecheggiando volente o nolente il Salvatores – da Ammaniti – di Io non ho paura). I toni tragici e anche crudamente realistici si mescolano a quelli fiabeschi, arrivando quasi (ma per fortuna fermandosi un passo prima) a lambire il teen-movie fantasy. Fabio Grassadonia e Antonio Piazza (ancora una regia a due teste e quattro occhi e mani) fanno un gran lavoro sull'immagine e sul suono (tanto da attirarsi l'accusa di estetismo) e sono attenti alle qualità degli ambienti e del paesaggio (estetizzante ma emozionante la sequenza in cui l'ostaggio durante un trasferimento crede di trovarsi vicino al mare, viene fatto scendere dalla macchina, gli viene tolto il cappuccio e gli viene mostrato il paesaggio intorno chiuso tra aspri rilievi; dopodiché la macchina da presa, seguendo una farfalla, scollina fino a farci arrivare alla vicina costa di fronte ad un mare fosco e agitato). In definitiva, un progetto multirischio, una scommessa azzardata ma alla fin fine vincente, che ha prodotto un film anomalo e conturbante, complessivamente riuscito. A Cannes era piaciuto anche agli americani. Meriterebbe di tornare in sala, con un titolo più consono ai toni e ai contenuti. Per la cronaca, gli altri due film in lizza (ma a questo punto ce ne siamo andati a Lione) erano Falchi di Toni D'Angelo e Monolith di Ivan Silvestrini. NOIR IN FESTIVAL 2017: |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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