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HOLLYBLOOG
cosa c'è in giro da vedere

a cura di Mauro Caron

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4/1/2019

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29a edizione del FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO, D'ASIA E AMERICA LATINA.
​Milano, Marzo 2019

Una serie di gravi problemi famigliari mi hanno impedito di seguire quest'anno il Festival del Cinema africano, d'Asia e d'America Latina come avrei voluto e come merita.
Il Festival è infatti uno dei miei preferiti, e lo ritengo uno dei più potenti antidoti al razzismo, all'intolleranza e alla xenofobia. La xenofobia si basa (anche etimologicamente) sulla paura del diverso, e la paura si basa a sua volta in buona parte sull'ignoranza del diverso, che ce lo fa appunto percepire tale. La conoscenza, la comunanza, la condivisione (reale o mediata) sono quindi gli antidoti che possono aiutarci a dissipare pregiudizi, stereotipi, paure (non c'è bisogno di dirlo, coccolate, alimentate, aizzate a scopo politico), permettendoci di ragionare su problemi veri e concreti al fine di trovare loro una migliore soluzione.
Finito con il pippotto, ma ci sta. Onore e merito ad Annamaria Gallone, ad Alessandra Speciale, al Coe e a tutti gli enti e gli individui di buona volontà che rendono possibile il festival.
Festival che è anche l'occasione per vedere cinema bello, nuovo, con facce, ambienti, modi di raccontare e storie differenti rispetto a quelli cui siamo abituati dai multisala o anche dagli schermi tv. Da quel poco che ho visto, quella 2019 mi è sembrata un'edizione di ottima qualità.
Dei film vincitore come miglior lungo e cortometraggio dirò poi diffusamente, mentre comincio a citare due film premiati che non ho visto: La gita di Salvatore Allocca vincitore del concorso Extr'a e Los silencios (Brasile/Colombia/Francia) di Beatriz Seigner, che ha avuto il premio del pubblico.

Ho trovato di una bellezza mozzafiato Ancora un giorno (Another Day of Life), di Raul de la Fuente e Damian Nenow (presentato nella sezione “Flash”). Bizzarra coproduzione (Polonia/Spagna/Germania/Belgio/Ungheria), il film è incentrato sul viaggio in Angola del reporter polacco Ryszard Kapuściński e sul relativo racconto che ne fece nel libro omonimo. Alla vigilia della dichiarazione dell'indipendenza, con i portoghesi che scappano cercando di portare via tutto quello che possono, nella confusão generale, infuria nel Paese sullo sfondo della Guerra Fredda un violento conflitto civile, tra la fazione socialista sostenuta dal blocco sovietico e quella sostenuta invece dagli Usa e dalla Cia. Nella confusione totale, Kapuściński intraprende un pericolosissimo viaggio verso il fronte del sud alla ricerca di notizie, di storie e di eroi. Ma mentre le grandi potenze manovrano tenendosi ai bordi dello scacchiere militare, nuove forze entrano nel conflitto: i Sudafricani teorici dell'apartheid e i cubani, in nome dell'internazionalismo socialista e del sostegno ai popoli in lotta contro il capitalismo e il neocolonialismo. Kapuściński è un reporter schierato - dalla parte degli oppressi - e oltre che cercare di schivare le pallottole e la morte sempre in agguato deve combattere con la propria coscienza, tra la devozione al proprio lavoro, che lo spinge talvolta a mettere a rischio non solo la propria vita ma anche quella dei compagni, e il senso di responsabilità; tra la deontologia professionale e l'etica politica e personale, quando dare o non dare una notizia può cambiare le sorti del conflitto in atto.
Oltre che ad essere uno spaccato storico di una vicenda poco conosciuta (anche se la guerra iniziata nel 1975 si è protratta sino al 2002), Ancora un giorno propone allo spettatore di schierarsi a propria volta in una partita apparentemente obsoleta nella sua dimensione storica (quella tra socialismo e capitalismo) ma che in quella ideale (il contrasto tra l'aspirazione alla libertà e alla giustizia da una parte, e la volontà di sfruttamento e di oppressione dall'altra) conserva ancora tutta la sua urticante attualità. Senza ingenuità, senza sconti e senza superficialità il film mette in gioco i temi dell'impegno e della responsabilità politica e personale, della fedeltà agli ideali e del loro tradimento, della passione professionale portata fino alle estreme conseguenze e di una superiore consapevolezza etica.
Ancora un giorno è essenzialmente un film di animazione, che ingloba e amalgama alla perfezione nel suo apparato visivo e narrativo materiali eterogenei quali le immagini di repertorio e le interviste fatte ai nostri giorni ai protagonisti sopravvissuti agli eventi raccontati. Nella dimensione animata, il film alterna e fa convivere a sua volta con grande armonia la precisione naturalistica e fotorealistica del racconto e le invenzioni immaginifiche e oniriche, di una bellezza che toglie il respiro, con un superlativo uso dell'illuminazione e dei “movimenti di macchina”.
Da vedere e da far vedere, magari ai propri studenti da parte degli insegnanti di storia, di cinema, di cinema d'animazione, di giornalismo.

Un altro film intenso e pregevole è Baby di Liu Jie, vincitore del premio della sezione principale del pubblico, “Finestre sul mondo” Jiang (Yang Mi, famosa in patria) è una diciottenne orfana con gravissimi problemi di salute alle spalle e che ora attraversa il momento critico in cui, per la legge sugli affidi, dovrebbe lasciare l'anziana donna cui era stata affidata bambina, e la casa in cui ha vissuto praticamente tutta la sua vita. Mentito sul proprio stato di salute e ottenuto un posto di inserviente in ospedale, si trova casualmente ad assistere alla scelta del padre di una neonata, nata con gravissimi problemi e probabilmente destinata a un destino infausto, che, come gli permette la patria potestà, rifiutare di autorizzare le cure mediche per lasciarla quindi spegnersi nel giro di pochi giorni. Jiang istintivamente, appassionatamente, si ribella: evidentemente vede in quella creaturina se stessa e non può rassegnarsi a lasciarla morire senza tentare di salvarla. Con la complicità di un riluttante amico coetaneo e muto, arriva a rapirla dall'ospizio per vecchi in cui la bambina è stata lasciata a morire. Con uno stile scarno e ruvido, applicando quelle dinamiche dell'ossessione narrativa che caratterizzano certo cinema orientale (ma per noi è impossibile non correre con la mente ai pedinamenti dei Dardenne, ai loro personaggi complessi e ostinati, ai loro rapporti tra genitori e enfants) Liu Jie affronta tematiche come quelle dei diritti dei minori, dello scontro tra individuo e società, tra legge e sentimento, facendo muovere la sua protagonista su uno sfondo sociale dove il concetto di giustizia legale si scontra spesso con le ragioni dell'umanità.

Buon cinema è anche quello proposto da Loveling (titolo originale Benzinho), la storia di una famiglia brasiliana colta in un momento di passaggio, messa in scena da Gustavo Pizzi. Il padre è un cartolibraio messo in crisi dall'evoluzione del commercio editoriale, la madre (la vera, onnipresente protagonista) si oppone alla vendita dell'amata casa di famiglia al mare, i due figli più piccoli sono due vispi gemelli (se la qualità di un film si valuta dalla naturalezza con cui si comportano e vengono rappresentati i bambini, questo è un film perfetto), il medio è un grassotello che suona il basso tuba nella banda del paese, ma è il più grande a provocare la crisi al centro del film: arruolata in una squadra di pallamano tedesca, si prepara a partire per la Germania: un'opportunità imperdibile, ma uno strazio per la madre. Intimo e nello stesso tempo corale, domestico e nello stesso tempo sociale, disordinato e nello stesso tempo coerente, ambientato in una casa simbolicamente fatiscente (dove la porta non funziona più e bisogna entrare e uscire dalle finestre) e minacciata dal degrado, Loveling è un ottimo film, con attori credibili (perno di tutto è la performance della moglie del regista, Karine Teles), dove si mescolano momenti di umorismo, di tenerezza e di malinconia.

Un'altra storia famigliare, dal risultato gradevole, è quella al centro di El abuelo, coproduzione peruviano-colombiana firmata dal giovane Gustavo Saavedra Calle. Un quartetto di personaggi maschili (ma anche i personaggi femminili, legati alle rispettive case, sono di fondamentale importanza) si mette in viaggio da Lima verso il nord del Paese, per accompagnare l'ottuagenario nonno del titolo a rivisitare i luoghi dell'infanzia e della giovinezza. Ad accompagnare il nonno sono il figlio, e due nipoti, un nevrotico e uno studente di cinema, evidente alter ego del regista. Il gruppo durante il tragitto raccoglie da una parte sorprese inaspettate che riscrivono via via il romanzo famigliare dato per acquisito, dall'altra perde via via membri dell'equipaggio, fino alla meta finale del viaggio. Umorismo e malinconia per un racconto famigliare che tira alla fine con nettezza la propria morale. L'anziano protagonista del film, Carlos J. Vega, un cantastorie colombiano al suo primo ruolo importante per il cinema, purtroppo non ha fatto in tempo a vedere il film nel suo montaggio definitivo.
Il film faceva parte della sezione “E tutti ridono”, dove figurano film che benché adottino toni più leggeri non avrebbero certo sfigurato in concorso. Temi importanti infatti vengono trattati in chiave di commedia in Induced Labor, di Khaled Diab. Una coppia di egiziani, lei ormai al termine della gravidanza, si vedono rifiutato per l'ennesima volta il visto per gli Stati Uniti. Per disperazione, decidono di far partorire la donna dentro l'ambasciata, in modo da far nascere gli attesi gemelli su suolo americano e fargli avere automaticamente l'agognata cittadinanza. Le cose precipitano già nei primi minuti, e presto il pacifico egiziano si trova a gestire armi in pugno un imprevisto sequestro di persona di massa. Tra ipocriti funzionari statunitensi, che discriminano le persone da salvare a secondo della nazionalità (americana-non americana), polizia e servizi di sicurezza egiziani che malgrado l'avvenuta rivoluzione antiregime continua ad utilizzare metodi violenti, cinici e brutali (ma entrambe le parti accomunate dall'attenzione a non far trapelare la notizia del sequestro all'esterno e ai media), e egiziani che per cercare di ottenere il visto si inventano qualsiasi sotterfugio (false professioni, conversioni fasulle, deviazioni sessuali inventate) la vicenda si dipana mantenendo alta la tensione e alternando i toni drammatici a quelli decisamente umoristici (anche se per noi spettatori italiani a volte è più difficile ridere, raggelati al pensiero di quello che la polizia e i servizi egiziani hanno fatto a Carlo Regeni), fino a una conclusione non consolatoria dove i destini dei (quattro) protagonisti vengono divisi dal destino. Il modello sembra essere quello del cinema della Nuova Hollywood, che con titoli come Quel pomeriggio di un giorno da cani o Sugarland Express inventò l'umanità dei criminali e la loro possibilità di assurgere allo status di (anti)eroi popolari, ma anche quello della commedia all'italiana, che sapeva divertire e accattivarsi le simpatie del pubblico trattando con umorismo temi molto delicati.

Esattamente l'effetto contrario ottenuto dal sudafricano Flatland, che gioca con i generi cinematografici per fare una sorta di Thelma e Louise africano, dove né ci si diverte né si riesce a prendere sul serio i temi trattati dal film (violenza domestica, emancipazione femminile, corruzione della polizia, ecc.). Coincidenze improbabili, indagini indagini approssimative, sceneggiatura sbandata, interpretazioni sotto soglia, e un uso delle pistole (utilizzate per minacciare mariti indelicati, per assassinare paraplegici, per far spogliare le ragazze gravidissime, per ottenere un caricabatterie per il cellulare, per far cambiare canale alla tv, ecc.) tra i più dissennati mai visti al cinema. La sua assenza dal concorso non avrebbe lasciato rimpianti, anzi.

Tra i cortometraggi spicca per intensità e bellezza Brotherhood, della tunisina (ma di formazione nordamericana) Meryam Joobeur: un colpo di fulmine che lasciava presagire l'assegnazione del premio per il miglior cortometraggio africano. Calato nella realtà attuale (il tema è quello dei tunisini andati a combattere in Siria con Daesh) ma ambientato in paesaggi rurali senza tempo, con attori con volti e presenza scenica formidabili (si tratta in realtà di interpreti non professionisti, pastori nella realtà così come nella finzione), affronta temi scottanti come quelli delle contraddizioni interne alla cultura mussulmana, degli orrori della guerra e della violenza della concezione del potere di Daesh e simili, e dei rapporti intergenerazionali (anche se il titolo farebbe pensare piuttosto ad un rapporto intragenerazionale). Umanistico e di grande bellezza visiva, un film breve ma importante.

Alcuni elementi in comune (l'origine tunisina, la firma al femminile, i fratelli, la spiaggia) si ritrovano in Omertà, di Mariam Al Ferjani e Mehdi Hamnane, un interessante apologo sul partire e il restare, sui legami e sulla difficoltà di vivere come si vorrebbe in una società dove una divisa della polizia continua a suscitare un riflesso condizionato di paura.

Visivamente interessanti ma dall'animazione minimale e brevità quasi ermetica i 4 minuti di #Je_suis_kamikaze dell'algerino Mohamed Touahria.
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FLASH, CORTI E HAHAHA

4/5/2018

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28° Festival del cinema africano, d'Asia e d'America Latina
Le sezioni Flash, E tutti ridono e Concorso cortometraggi africani:
ON THE BEACH AT NIGHT ALONE di Hong Sang-soo 
LEGEND OF THE DEMON CAT di Chen Kaige
SHEIKH JACKSON di Amr Salama
e altri

Il Festival è ormai terminato, ma dopo aver parlato del film di apertura, della premiazione e dei film del concorso lungometraggi volevo ancora aggiungere qualche parola su alcuni altri film visti.
La sezione “Flash” offriva le anteprime italiane di alcuni film di autori già affermati e già noti anche in Italia. Il sudcoreano Hong Sang-soo aveva già fatto capolino sui nostri schermi grazie alla partecipazione di un’attrice europea di fama internazionale, Isabelle Huppert, che nel 2012 era stata protagonista del suo In Another Country. Kim Min-hee, l’eroina di On the Beach at Night Alone (Bam-ui haebyeon-eseo honja), già presente in altri film del regista, ha qui inizialmente in comune con la Huppert dell’altro film una situazione di spaesamento: la troviamo infatti in Germania, dove si è recata anche per dimenticare una relazione finita male con un regista più anziano di lei. Tornata in Corea, la vediamo a tavola con amici e conoscenti in un paio di occasioni; ma poiché il regista ama i temi delle relazioni umane sottoposte ai giochi del caso, grazie a un sogno su una spiaggia invernale e forse a un po’ di alcol in eccesso la storia si sdoppia in una variante onirica, che vede l’incontro fortuito e il confronto tra i due ex-amanti. Per dare un’idea, è un cinema che ricorda un po’ un Rohmer alla coreana, ma che lascia a mio parere il tempo che trova.
Di tutt’altro respiro e misura il cinema di Chen Kaige, regista della cosiddetta “quinta generazione” cinese, che ha avuto un momento di splendore anche in Italia grazie ad un titolo molto fortunato come Addio mio concubina. Accantonato il cinema d’autore, si è dedicato negli ultimi anni a megaproduzioni di carattere popolare, di grandissimo successo in patria. Grandi incassi ottenuti anche con Legend of the Demon Cat (Kûkai): e non poteva essere altrimenti, visto che il film è l’esito di una costosissima e inedita produzione cino-giapponese, il cui budget colossale è stato speso soprattutto per la costruzione del fantasmagorico set che riproduce un palazzo imperiale della dinastia Tang (più o meno 600-900 d.C.) e che, terminate le riprese, pare diverrà un parco a tema aperto ai visitatori. La storia complessa (ma argutamente congegnata) e affollata di personaggi spazia tra tempi e luoghi, svariando dalla detective story ad atmosfere alla Il nome della rosa (il detective è un monaco), ai generi fantastico, storico, film di fantasmi; ma l’attrattiva principale è appunto costituita dalla ricostruzione degli spazi (in gran parte fisici, anche se gli effetti speciali e soprannaturali non mancano), particolarmente godibile nella prima parte che vede i due protagonisti muoversi in un set davvero mirabolante seguiti da macchine da presa mobili e sinuose, mentre nella seconda parte allo spettatore occidentale sarà facile smarrire un po’ il filo. Sontuoso.
La sezione “E tutti ridono”, è dedicata alla commedia, sempre rigorosamente non occidentale; presente quest’anno un solo titolo, riservato per la serata di premiazione. Lo spunto di Sheikh Jackson è davvero bizzarro: il protagonista è un giovane egiziano, affascinato dalla figura e dalla musica di Michael Jackson, nonché innamorato fin da bambino di una frizzante coetanea. Le circostanze della vita lo porteranno ad abbracciare la fede islamica, ma la notizia della morte della pop star (che apparirà diverse volte tra i fedeli radunati in moschea per la preghiera, con i prevedibili effetti stranianti) lo precipiterà in una crisi durante la quale sarà spinto a rimettere in dubbio le proprie scelte e a riesaminare la propria vita. Il regista Amr Salama evita di essere irrispettoso verso la religione, ma mostra chiaramente come la scelta religiosa del protagonista derivi direttamente dalla sua incapacità dall’emanciparsi da un complesso edipico verso i genitori e dall’incapacità di conseguire la propria maturità e di trovare il coraggio per essere se stesso. Inaspettatamente gradito al pubblico egiziano, il film usa toni buffi per non prendersi troppo sul serio, ma è troppo serio per essere comico. Un tentativo comunque curioso e interessante.
​Il concorso cortometraggi africani ha visto premiato Aya, firmato dalla tunisina Moufida Fedhila, che racconta di una bimba di sette anni che sogna di portare il velo come la madre è costretta a fare, e che una comunità bigotta e ricattatrice vorrebbe escludere dalla possibilità di istruirsi. Un’altra opera diretta da una regista, che tratta temi in parte simili e che parla di un’altra bimba è Behind the Wall, della marocchina Karama Zoubir, dove la cinquenne protagonista deve affrontare un pericoloso percorso per raggiungere la scuola.
Non tutti i film riescono a sfruttare il poco tempo a disposizione per un’opera compiuta, dando spesso luogo a frammenti inconcludenti o a mere metafore visive.
 Simpatici il kenyota Chebet, di Tony Koros, che racconta, tra il serio e lo scanzonato, di una donna africana che si destreggia tra un marito ubriacone, che finisce legato nel recinto delle vacche e dileggiato da due monelli, e le molestie del datore di lavoro, e la comunità senegalese che ricostruisce la pensilina distrutta dalle ruspe in cui Mama Bobo (di Ibrahima Seydi e Robin Andelfinger) andava ad aspettare e intrattenersi con il marito defunto. Malgrado la protagonista a pelle non ispiri simpatia, è godibile anche Bolbol, dove l’anziana protagonista, imbucandosi in vari matrimoni, ci offre sotto la guida dell’affascinante regista Khedija Lemkecher un gustoso spaccato della società tunisina odierna, tra buona borghesia, strati popolari ai limiti della legalità e fanatici integralisti religiosi.
 It Rains on Ouaga è forse uno dei racconti più compiuti, una commedia romantica in cui un giovane burkinabè in attesa di raggiungere in Europa la fidanzata francese - tra birre con gli amici e chiacchiere sulle delusioni politiche - troverà forse un motivo sentimentale in più per non lasciare la propria terra. Dirige Fabien Dao. Si torna a un bambino protagonista in Nightshade, di Shady El-Hamus, un bel film, dichiaratamente ispirato nel tema e nello stile al cinema-verità dei fratelli Dardenne (riecheggia il fulminante incipit de La promesse), ambientato in Olanda, dove un ragazzino di undici anni dà una mano in un traffico di immigrati clandestini e fa la sua precoce conoscenza con la morte.
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(NOVE) FINESTRE SUL MONDO

3/27/2018

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28° Festival del cinema africano, d'Asia e d'America latina:
Concorso "Finestre sul mondo":
KILLING JESUS (Colombia/Argentina) di Laura Mora Ortega 
SEVERINA (Brasile/Uruguay) di Felipe Hirsch 
THE NUMBER (Sudafrica) di Khalo Motabane 
NO BED OF ROSES (Bangladesh) di Mostafa Sarwar Farooki 
OF FATHERS AND SONS (Germania/Siria/Libano) di Talal Derki  
I AM NOT A WITCH (Francia/UK/Zambia) di Rungano Nyoni 
THE BOMB (Filippine) di Ralston Jover 
AZOUGUE NAZARETH (Brasile) di Tiago Melo 
THE SEEN AND UNSEEN (Indonesia/Olanda/Australia/Qatar) di Kamila Andini

Per una settimana, almeno a Milano e in un ambito ristretto ma prezioso, Africa, Asia e America Latina non sono state il teatro di guerre lontane ma non per questo meno terribili e cruente, o i concorrenti sleali delle nostre economie, o il remoto luogo di provenienza di immigrati stranieri, pericolosi e invasori, bensì terre ricche di racconti, di esperienze, di confronto.
Il Festival del Cinema africano, d'Asia e America Latina è quello che spesso manca e che se non ci fosse andrebbe inventato e moltiplicato: un'occasione di incontro, di conoscenza, di riconoscimento.
Dal 18 al 25 marzo, grazie al Coe e ai suoi numerosi partner istituzionali e privati, a Milano sono sfilati sugli schermi dei cinema San Fedele e Oberdan decine di film di diversi formati e di diversa provenienza.
Il festival (oltre ai riconoscimenti attribuiti da vari enti) ha assegnato i seguenti premi: Premio Comune di Milano - Miglior Lungometraggio Finestre sul Mondo a I Am Not a Witch di Rungano Nioni, (Francia/UK/Zambia, 2017); premio come miglior cortometraggio africano ad Aya di Moufida Fedhila (Tunisia/Francia/Qatar); Premio Extr’A a Babylonia mon amour di Pierpaolo Verdecchi (Italia/Spagna).
Io ho seguito in particolare il concorso dei lungometraggi “Finestre sul mondo”, con film provenienti dai tre continenti, e quello dedicato ai cortometraggi africani, oltre ad aver visto alcuni film fuori concorso di cui magari parlerò in separata sede.
Tra i lungometraggi in concorso, il migliore mi è sembrato senza alcuna ombra di dubbio (ma anche il pubblico del festival ha votato bene e lo ha decretato il suo film preferito) il colombiano Killing Jesus (Matar a Jesus) di Laura Mora Ortega. La regista racconta una storia dolorosa in parte autobiografica, anche se trasfigurata con elementi di finzione romanzesca. Siamo a Medellin, dove la protagonista, una studentessa che vive la sua vita come tante sue coetanee, tra amici, libri, spinelli e feste, vede il proprio padre ucciso per strada da due assassini in moto. Mentre la polizia trascina le indagini con inerzia e forse ignavia, la ragazza crede di riconoscere per caso uno degli assassini. Meditando vendetta, intraprende un percorso di avvicinamento al sospettato che avrà esiti, emotivi e morali oltre che narrativi, del tutto inaspettati. La regista, alla sua opera prima, racconta benissimo tutto, lo stordimento, il disorientamento, la rabbia, la fascinazione, la confusione, e gira tutto come va fatto, con un'empatia emotiva fortissima ma senza fronzoli e senza sottolineature retoriche. Le parole contano in effetti molto meno delle immagini in un racconto molto fisico e molto vicino ai personaggi, ma che diventa anche uno spaccato preciso di una società avvilita, violenta e derelitta. Molto efficaci i due giovani protagonisti, Natasha Jaramillo e Giovanny Rodríguez, entrambi non professionisti (la regista pensava ad un'attrice per la parte della ragazza, ma poi ha preferito la spontaneità di Natasha). Se mai ce ne fosse la possibilità, da vedere.
La giuria ha premiato invece I Am Not a Witch, di Rungano Nyoni. Siamo nel pieno dell'Africa nera, in epoca contemporanea, e il film affronta la tematica, grottesca se non fosse tragica, delle donne accusate di stregoneria. Si tratta di donne generalmente anziane e sole, con scarse o nulle possibilità di difesa, che, accusate di stregoneria, vengono emarginate: capri espiatori, manodopera a costo zero, vittime di macchinazioni famigliari o di malevolenza di quartiere o di villaggio, le “streghe” finiscono in una sorta di campo-lavoro governativo, legate con dei nastri a dei grossi rocchetti in modo che non possano prendere il volo per compiere i loro malefici. Con un linguaggio che adotta i toni del grottesco amaro e del fantastico, la regista racconta la storia di Shula, una bambina orfana involontaria streghetta utilizzata di volta come operaia nel campi, come procacciatrice magica di pioggia, o come individuatrice di colpevoli in pseudo-indagini poliziesche. Ci si sente un po' a disagio identificandosi con i turisti bianchi che vanno a fotografare le povere recluse.
A tradizioni ancestrali si richiama anche Azougue Nazareth (Azougue Nazaré), del brasiliano Tiago Melo, che propone l'opera più bizzarra del festival. Al centro del film il maracatù, una danza rituale importata dagli africani deportati come schiavi nel continente americano, e ancora oggi praticata in particolare nello stato di Pernambuco. Tra danze tribali, spiriti che vagano tra le canne da zucchero, gare di versi goliardici tra samberos, confronti di religione tra evangelici e pagani animisti ed episodi boccacceschi, si sviluppa un film che avrebbe potuto essere una commedia sociale, un horror rurale, un documento folklorico-antropologico, e che è un po' di tutto questo in una mistura dal sapore inclassificabile.
Ancora la cultura tradizionale è al centro di The Seen and Unseen (Sekala Niskala), dell'indonesiana Kamila Andini. In una zona rurale di Bali, una bambina decenne segue il fratello gemello ricoverato in ospedale, colpito da una malattia che lo priva di coscienza e sensibilità. Il film racconta con immagini limpide e sospese il rapporto tra i due bambini, che si dipana sul filo del ricordo o dell'immaginazione fantastica. Tramite di comunicazione tra le dimensioni del visibile e dell'invisibile, del reale e dell'onirico, si fanno arti tradizionali balinesi come il teatro delle ombre e la danza tradizionale. Alcune sequenze, come quella del combattimento dei due bambini-gallo sui letti dell'ospedale, sono di bellezza definitiva e autorevole, da antologia. Il film ha ritmi lenti e la situazione narrativa è priva di sviluppo, per cui bisogna prepararsi a lasciarsi stregare esercitando l'arte della pazienza.
Più direttamente impegnati nella rappresentazione del sociale sono invece il sudafricano The Number e il filippino The Bomb (Bomba). Nel primo Khalo Matabane impagina un racconto quasi monocromatico ambientato in una prigione del Sudafrica post-apartheid: il film racconta i rapporti di potere tribale che si sviluppano tra i detenuti, comunque tutti neri. Duro e torvo, il film riserva comunque una speranza di redenzione anche per i più compromessi.
Nel secondo Ralston Jover racconta una storia di amore e emarginazione ai bordi di Manila, dove un uomo, muto e impegnato in umili lavori, vive con la figlia adolescente. Il film descrive la possibilità di un mondo di affetti e la ricerca di una normalità quotidiana pur in una situazione minacciata dal degrado (i due vivono dignitosamente in una baracca ai margini di una discarica) e dalla violenza (amplificata anziché rintuzzata dalla politica indiscriminata di uccisioni extra-giudiziali praticata dalla polizia di Rodrigo Duterte nell'ambito di una pseudo-guerra alla droga). Un personaggio venuto dal passato getterà scompiglio e una luce nuova sul rapporto tra i protagonisti. Finale alla Taxi Driver; inaspettato o forse no, visto il titolo del film.
Ancora più spinto nei termini della rappresentazione della realtà è Of Fathers and Sons, girato in forma documentaria da Talal Derki nel nord della Siria dilaniata dalla guerra. Il regista, accettato come un fotografo simpatizzante, vive per alcuni mesi con una famiglia di jihadisti impegnati in una guerra parte motivata dal nazionalismo e parte dal fanatismo religioso. Le donne, come è intuibile (anche dal titolo) vengono lasciate fuori dalle inquadrature. E' una storia di uomini, che per scherzare in famiglia minacciano di morte i bambini, che si rallegrano perché il compleanno dei figli coincide con la strage delle Torri gemelle, che ascoltano canzoni guerrafondaie, che amano le proprie armi e intanto ripuliscono il terreno dalle mine dei nemici e guardano le bombe cadere in distanza. Dopo che il capofamiglia perde un piede durante un'operazione di sminamento, toccherà ai bambini essere inviati in un duro campo di addestramento militare, e poi alla morte, per proseguire una guerra senza soluzione di continuità, che si trasmette di padre in figlio. Una realtà molto difficile da comprendere e da accettare; il film dà qualche elemento di conoscenza in più, il che non vuol dire che aiuti a schiarirsi le idee.
Ci riportano a situazioni meno aliene gli altri due film visti nel concorso (mi è sfuggito solo l'egiziano Poisonous Roses, anche a causa di un ritardo nel programma di proiezione). Dal Bangladesh, fino a qualche decennio fa uno dei Paesi più poveri del mondo, arriva una storia di ambiente alto borghese, No Bed of Roses (Doob), in cui un regista (interpretato da Irrfan Khan,
già visto in film come The Millionaire, Lunchbox, Vita di Pi e in diversi blockbuster internazionali) abbandona moglie e figlia per intraprendere una relazione con una giovane attrice, amica di quest'ultima. Il regista Mostofa Sarwar Farooki aspira a dare una veste moderna al suo melodramma famigliare, ma ellissi narrative, salti repentini di spazio e di tempo, oltre che la somiglianza tra le due protagoniste femminili, non propiziano il godimento di un film che può dirsi complessivamente poco riuscito. Significativo il fatto che un gruppo di spettatori bengalesi, quando un personaggio all'interno del film rimprovera al regista la sua condotta immorale, scoppi a scena aperta in un applauso soddisfatto e liberatorio.
E' sicuramente più intrigante Severina, del brasiliano (ma il film è una coproduzione con l'Uruguay ed è parlato in spagnolo) Felipe Hirsch (cofondatore del gruppo di sperimentazione teatrale Ultraliricos), che racconta la storia di un libraio che si innamora di una sfuggente ladra di libri. Conoscerla meglio, e poi conviverci, non servirà minimamente a dissiparne il mistero. Severina, (che è il nome della protagonista, che non viene mai pronunciato nel film) è un noir basato su un amour fou, ma la sua particolarità deriva dalla letterarietà (Severina è un personaggio reale o non piuttosto un fantasma dell'invenzione letteraria?) e dai moventi dei personaggi, per i quali una donna può essere desiderabile quanto un libro, ed entrambi possono custodire misteri indecidibili. Forse un po' inconsistente la femme fatale interpretata da Carla Quevedo; nel ruolo di un ambiguo sedicente padre, e poi di un ingombrante cadavere, appare Raul Castro, attore feticcio di Pablo Larrain.

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WHAT A WONDERFUL WORLD!

3/10/2018

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28° FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO, D'ASIA E D'AMERICA LATINA
​Milano, 18-25 marzo 2018

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Il Festival del Cinema africano, d’Asia e d’America Latina è una manifestazione che seguo da quando era ancora in gestazione, prima della sua nascita, una trentina d’anni fa, quando si chiamava “Il lontano presente” e offriva all’Auditorium San Fedele visioni inedite di Paesi lontani e per lo più ignoti.
Di strada ne ha fatta tanta, è nato come festival del cinema africano, è cresciuto e maturato, ha accolto lungo la sua strada gli altri due continenti non “occidentali”, ha avuto le sue crisi (finanziarie, mai organizzative o artistiche), le ha superate o ha fatto di necessità virtù, approdando quest’anno alla sua 28° edizione, promossa, come sempre, dal Coe – Centro orientamento educativo – con una serie di partnership e di sponsorship.
L’edizione 2018 del festival, che si terrà a Milano dal 18 al 25 marzo, è stata presentata il 6 marzo, alla presenza, tra gli altri, delle inossidabili direttrici artistiche Annamaria Gallone e Alessandra Speciale e dell’assessore alla cultura del Comune di Milano Filippo Del Corno. Guest star era il celeberrimo compositore britannico Michael Nyman, alla quale è stata affidata la presidenza della giuria, che fin dall’inizio ha vestito di musica il cinema di Peter Greenaway e che ha conseguito fama universale con le Lezioni di piano di Jane Campion. Come ospite d’onore, Nyman è andato un po’ fuori bersaglio, parlando (poco o) nulla del festival e del suo significato, e molto (finché la Gallone l’ha gentilmente ma inflessibilmente stoppato) dei propri lavori cinematografici recentemente realizzati in Mexico.
Alessandra Speciale ci ha tenuto invece a ribadire, soprattutto visti i freschissimi risultati delle votazioni del 4 marzo, che hanno sancito il trionfo (benché azzoppato) di forze xenofobe, populiste, nazionaliste e territorialiste, il carattere eminentemente politico del festival, che serve ancora una volta a mettere a contatto mondi diversi, a renderli l’un l’altro meno stranieri, a facilitare la conoscenza reciproca e il reciproco riconoscimento. In giornate politicamente grigie è davvero una consolazione sapere che ci sono manifestazioni simili (simbolizzata da una zebra prismatica piena di differenti colori), e che centinaia di persone, tra le quali moltissimi giovani, chiedono di essere coinvolti per dare il  proprio volontario contributo all’organizzazione e all’ospitalità. Il festival infatti, ed è anche questo un risultato importante, permette a molti registi africani e degli altri continenti di arrivare a Milano, di confrontarsi con un pubblico europeo, di conoscersi tra loro e di stringere nuove relazioni.
Spiace che il Festival assuma quasi l’aspetto di un atto di doverosa resistenza verso una marea montante che sempre più dipinge lo straniero come il problema per eccellenza, e come un pericolo da rifiutare, da respingere e da chiudere oltre confine, anziché trasformarsi nel manifesto di una società moderna aperta, solidale, capace di adottare i giusti strumenti e di affrontare con senso di realtà e di responsabilità i problemi e le contraddizioni del mondo attuale.
Il programma del festival è come sempre molto articolato, ricco e stuzzicante, un mosaico composto da una sessantina film (selezionati tra un numero di opere visionate che è dieci volte tanto), con molte anteprime italiane, europee e mondiali e con film già segnalati e premiati in altri festival internazionali: si apre il 18 marzo con la proiezione in anteprima italiana del toccante Une saison en France, storia di emigrazione del regista ciadiano Mahamat Saleh Haroun (di cui mi propongo di parlare in seguito); dal 19 partono le tre sezioni competitive: 10 lungometraggi provenienti dai tre continenti, cortometraggi africani, sezione Extr’a, in cui registi italiani affrontano il confronto con altre culture, con premiazione domenica 25. Da non perdere anche la sezione Flash, con proiezioni speciali di film di autori affermati: il coreano Hong Sang-soo (alcuni suoi film sono stati distribuiti anche in Italia, come In Another Country e Right Now, Wrong Then), il cileno Raùl Ruiz (scomparso nel 2011, di cui viene presentata un’opera che aveva lasciata incompiuta), e il cinese Chen Kaige (famoso in Italia per Addio mia concubina), con un kolossal di enorme successo in patria intitolato The Legend of the Demon Cat. Completano il programma proiezioni speciali fuori concorso e un omaggio a Idrissa Ouédraogo, regista burkinabè scomparso solo un mese fa, di cui verrà riproposto Samba Traoré, premiato al Festival di Berlino nel 1995.
Lodevole la volontà di mantenere anche la sezione E tutti ridono..., che permette di confrontarsi con il concetto di comicità (non sempre coincidente con il nostro) di altri continenti: è significativo però il fatto che la sezione, nata qualche anno fa con una tripletta di titoli, sia ridotta ad un solo film, l’egiziano Sheik Jackson (con un imam che ha la vita umoristicamente sconvolta dalla morte di Michael Jackson), che fa pensare che con quello che succede nel mondo ci sia veramente poco da ridere...
Il festival tuttavia, pur trattando tematiche forti e contradditorie, drammatiche e talvolta tragiche, non vuole presentare una visione depressiva, pauperista e pietistica dei Paesi rappresentati, tutt’altro: lo dimostrano anche le iniziative collaterali come la tavola rotonda che fornisce il claim dell’edizione di quest’anno, intitolata “Africa Talks. WWW! What a Wonderful World. Come le nuove tecnologie stanno cambiando l’Africa” (in occasione della quale verrà anche presentato in anteprima nazionale il film Liyanna, di Aaron e Amanda Kopp, riflessione sulle forme di narrazione e sulla creatività nell’era digitale. Mostre fotografiche, incontri con gli autori, forum, presentazioni di libri, degustazioni, eventi per bambini e ragazzi completano il programma di un festival da non perdere.
Programma e informazioni logistiche e su biglietti e abbonamenti su http://www.festivalcinemaafricano.org/new/


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I MILLE COLORI DEL NOIR (parte seconda)

12/21/2017

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 NOIR IN FESTIVAL 2017:
OMICIDIO ALL'ITALIANA di Maccio Capatonda
LA RAGAZZA NELLA NEBBIA di Donato Carrisi
I FIGLI DELLA NOTTE di Andrea De Sica
​SICILIAN GHOST STORY di ​Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

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Satira e uso del grottesco sono alla base anche della commedia nera OMICIDIO ALL'ITALIANA, di Maccio Capatonda. Qui i bersagli sono prevalentemente due: una sedicente provincia italiana isolata e arretrata, invecchiata e ignorante, e il circo mediatico che costruisce i propri discutibili spettacoli sulle tragedie di cronaca nera (argomento sfiorato anche da Ammore e malavita nella scena dell'inclusive tour nel degrado di Scampia). Ma qui il risultato decisamente non funziona. Capatonda funzionerà sul web, ma un lungometraggio intero tenuto sempre su toni satirici così esasperatamente grotteschi non regge. Eppure lo spunto poteva offrire occasioni interessanti, e qualche volta si sorride, ma la grana che Capatonda decide di utilizzare è talmente grossa da risultare non digeribile. La Ferilli finisce per stonare nel contesto per professionalità, in mezzo a tanta sgangheratezza. Una gag come quella in cui il rozzo coprotagonista per abbordare una ragazza in una bar gli si rivolge dicendole “Puzzi meno di una capra” non è (solo) politicamente scorretta o volgare, è semplicemente molto brutta.

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Discutibile anche il risultato de LA RAGAZZA NELLA NEBBIA, un noir decisamente più tradizionale, con delitti e indagini, serial killer e false piste. Donato Carrisi (autore “totale” in una cinquina dalle molte regie collettive) dirige il suo primo lungometraggio traendolo dal proprio stesso romanzo (modestamente definito nei titoli di coda “bestseller internazionale”). Il titolo, l'ambientazione e la presenza di Servillo riecheggiano La ragazza del lago di Molaioli (ma la cornice narrativa richiama piuttosto Under Suspicion o il suo progenitore Guardato a vista), ma l'esito non ha la stessa finezza. Uno dei grossi problemi del film è la presenza dello stesso Servillo, che, se non è controllato da un direttore d'attori più che bravo, tende a gigioneggiare, illudendosi di lavorare su toni sommessi, in realtà tradendoli completamente. Qui l'istrione imperversa indisturbato, ma quel che è peggio su una sceneggiatura mal scritta e con notevoli buchi. Nessun senso del paesaggio, scene madri orecchiate altrove e maldestramente riprodotte, indagini abborracciate e attori (c'è anche Jean Reno, ma non è certo una garanzia) allo sbando. Forse l'unico personaggio e l'unico interprete a salvarsi, per esclusione, sono il prof. Martini e il suo interprete Alessio Boni.

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L'ambientazione de I FIGLI DELLA NOTTE (di Andrea De Sica) in un collegio tra le montagne e in un paesaggio invernale fa pensare all'Overlook Hotel, o anche a una versione maschile della scuola di danza di Suspiria. All'austero collegio, frequentato da figli della buona società che i genitori hanno per un motivo o per l'altro allontanato dalla famiglia, si contrappone visivamente e sonoramente lo spazio altro di un casino (sic), frequentato, malgrado l’asserito isolamento dei luoghi, da una folla di signori viziosi, signorine struscianti e studenti arrapati. De Sica ha una sua idea di regia minimalista, ellittica e formalistica, ma il film soffre di alcuni difetti fondamentali (oltre che di prove d’attore a volte immature). La sceneggiatura accumula temi e spunti (ci sono bulli con maschere terrificanti, fantasmi, omofilia, teorie del controllo, amour fou, romanzo di formazione, ecc.) che disperdono l’attenzione senza che un tema assuma una forza necessaria e sufficiente a reggere il racconto. Il finale amorale dovrebbe forse riscattare il tutto, ma arriva fuori tempo massimo. A ciò si aggiunga che ognuno dei tre protagonisti è portato a prendere delle decisioni fatali, nessuna delle quali sembra sufficientemente motivata in sede di scrittura del personaggio. Inoltre la regia non riesce mai a costruire una reale tensione; non bastano lunghe inquadrature di corridoi (ma al posto delle gemelline e delle ondate di sangue di Shining ci sono due adolescenti che fanno le corse con i carrelli), presenze fantasmatiche inerti o un sound design invadente a generare paura e tensione. Oltre ad Argento e Kubrick, a voler mirare alto, bisognerebbe ripassare Il regno di von Trier o un Lynch qualunque. Interessante, comunque, da aspettare ad una prova successiva in attesa di maturazione.

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Si ritorna invece, di nuovo, ad una bizzarra commistione di generi con SICILIAN GHOST STORY, già enunciato da un titolo che a mio parere è tuttavia fuorviante: non solo è del tutto ingiustificato l'uso dell'inglese, ma quel che è peggio il titolo induce ad aspettarsi una sorta di film di fantasmi cinesi in salsa sicula, un pastiche parodico alla Grosso guaio a Sicilytown. Assolutamente nulla di tutto questo: il film racconta di una tragedia reale, uno dei più agghiaccianti episodi di mafia mai occorsi, quello del rapimento del tredicenneenne Giuseppe Di Matteo (ad opera di una gang capeggiata da Giovanni Brusca; sono un centinaio i mafiosi condannati all'ergastolo in seguito ai fatti), colpevole di essere figlio di un pentito, tenuto in cattività per oltre due anni e poi strangolato, il cui cadavere fu dissolto nell'acido e poi gettato in mare. La terribile storia è raccontata dal punto di vista del personaggio di Luna (una giovanissima e determinata ragazza siculo-polacca, Julia Jedlikowska), una coetanea innamorata del ragazzo che non si rassegna alla sua scomparsa e al clima di indifferenza e di omertà che la circonda. Il film affronta però un rischio micidiale, non solo per la trasferta nel regno di una fiction di una vicenda atroce colma di tanta sofferenza, ma anche perché si permette di mescolare i toni realistici con quelli onirici e fantastici (riecheggiando volente o nolente il Salvatores – da Ammaniti – di Io non ho paura). I toni tragici e anche crudamente realistici si mescolano a quelli fiabeschi, arrivando quasi (ma per fortuna fermandosi un passo prima) a lambire il teen-movie fantasy. Fabio Grassadonia e Antonio Piazza (ancora una regia a due teste e quattro occhi e mani) fanno un gran lavoro sull'immagine e sul suono (tanto da attirarsi l'accusa di estetismo) e sono attenti alle qualità degli ambienti e del paesaggio (estetizzante ma emozionante la sequenza in cui l'ostaggio durante un trasferimento crede di trovarsi vicino al mare, viene fatto scendere dalla macchina, gli viene tolto il cappuccio e gli viene mostrato il paesaggio intorno chiuso tra aspri rilievi; dopodiché la macchina da presa, seguendo una farfalla, scollina fino a farci arrivare alla vicina costa di fronte ad un mare fosco e agitato). In definitiva, un progetto multirischio, una scommessa azzardata ma alla fin fine vincente, che ha prodotto un film anomalo e conturbante, complessivamente riuscito. A Cannes era piaciuto anche agli americani. Meriterebbe di tornare in sala, con un titolo più consono ai toni e ai contenuti.
Per la cronaca, gli altri due film in lizza (ma a questo punto ce ne siamo andati a Lione) erano Falchi di Toni D'Angelo e Monolith di Ivan Silvestrini.
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I MILLE COLORI DEL NOIR (parte prima)

12/21/2017

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NOIR IN FESTIVAL 2017:
​GATTA CENERENTOLA di Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone
AMMORE E MALAVITA dei Manetti Bros

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Il Noir in Festival mi ha dato l’occasione di vedere una cinquina di film italiani che avevo perso durante l’anno. Bisogna dire che il NoirFest (diretto di Giorgio Gosetti, Marina Fabbri e Gianni Canova) è una nuova bella conquista per Milano: dopo un quarto di secolo di vita vissuto in alta quota a Courmayeur, è disceso l’anno scorso nella nostra città, che lo condivide con Como, che ospita a sua volta una parte della manifestazione. Il festival spazia tra cinema e letteratura (e gli intrecci tra l’uno e l’altra), con vari concorsi e premiazioni, anteprime, retrospettive, proiezioni speciali, ecc.
Così averne.
A proposito di premi, il Black Panther per il miglior film quest’anno è andato al basco Handia di Jon Garaño e Aitor Arregi, la menzione speciale della giuria a Lynne Ramsay  per You were never really here e il Black Panther per la migliore interpretazione a Fares Fares in The Nile Hilton Incident di Tarik Saleh. Chissà se vedremo mai qualcuno di questi film in Italia. Premio alla carriera al nerissimo Abel Ferrara.
Sul fronte letterario, il Premio Scerbanenco 2017 è andato a Luca D’Andrea, per il suo nuovo thriller, Lissy la menzione speciale a Morchio per Un piede in due scarpe e il premio del pubblico a De Marco per L’uomo di casa. Il Premio Raymond Chandler, assegnato nelle sue prime edizioni a grandi scrittori come Graham Greene e Leonardo Sciascia, è stato assegnato a Margareth Atwood, terza donna ad essere insignita del premio dopo PD James e la Giménez Bartlett.
Io mi sono concentrato sul Premio Caligari, destinato ad un noir italiano già edito, con otto concorrenti in gara. Bisogna dire subito che la categoria del noir è stata interpretata in modo molto lato: c’erano quindi in concorso poliziotteschi e gialli, ma anche comico-grotteschi, sf d’animazione, sceneggiate napoletane, mafia-movie fantasmatici, ecc. Niente di male: complessivamente la selezione era piuttosto stimolante. Anzi, proprio dove i generi erano più mescolati, a volte anche in modo apparentemente azzardato ed incongruo, si sono avuti i risultati migliori e più convincenti. Bella anche la formula del concorso, che prevedeva la presentazione in sala prima della proiezione da parte di registi o altri personaggi legati al film (abbiamo incontrato i registi Rak, Capatonda, Carrisi, Marco e Antonio Manetti, ma anche il direttore della fotografia Luca Bigazzi e il produttore Massimo Cristaldi), e il dibattito in sala a film terminato (assenti i registi) tra la giuria popolare (in prevalenza studenti Iulm), condotto dai critici cinematografici Paola Casella e Fabio Ferzetti e dallo sceneggiatore (tra l’altro del Commissario Montalbano) Salvatore De Mola.

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Il premio è andato alla Gatta Cenerentola, firmato a otto mani da di Alessandro Rak (già autore dell’apprezzato L’arte della felicità), Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone.
Gli autori prendono la fiaba di Basile, saltano a piè pari tutte le rielaborazioni della favolistica successiva, dribblano Disney e tutti gli altri epigoni animati, e portano Cenerentola in un futuro prossimo e su una nave immobilizzata nel porto di Napoli. I sogni di progresso e di sviluppo economico e civile, che avrebbero dovuto fare di quella nave un museo ipertecnologico della memoria, sono svaniti. Ora Cenerentola è una ragazza muta e senza futuro, un po’ come la città sullo sfondo dal cui cielo piove costantemente cenere, e la nave, una specie di organismo vivente nel cui ventre si animano grazie a vecchi ologrammi fantasmi del passato e dell’inconscio - un po’ come accadeva ai cosmonauti di fronte al pianeta Solaris nel film di Tarkovskij - sta per diventare il regno di O’ Re, un boss malavitoso amante della canzone melodica partenopea. Fiaba e fantascienza, noir e canzoni, cinema d’animazione e riflessione filosofica, Napoli e la dimensione apocalittica: Gatta Cenerentola è un ibrido inedito e audace, frutto di un lungo e pazientissimo lavoro grazie al quale, dalla dimensione low cost dell’animazione italiana, scaturisce un film di grande fascino visivo (ragguardevole il lavoro fatto sulle luci), con qualche didascalismo di troppo in sede di scrittura, ma in grado di scaldare occhi cuore e cervello.

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Se possibile ancora più spericolato in una prospettiva di ibridazione di generi e temi AMMORE E MALAVITA, firmato a quattro mani dai Manetti Bros (Marco e Antonio). Seguendo la stessa linea di intuizione e ispirazione che aveva portato alla realizzazione di Song'e Napule, il duo realizza un ardito pastiche che tiene insieme cinema action mainstream (la situazione dei due ammanettati e braccati ricorda Senza pietà con Gere e la Basinger) e la variante hongkonghese alla John Woo, la sceneggiata napoletana e il musical, la love story e il film di truffa alla Jackie Brown. Non dissimile dal punto di vista strutturalistico da Gatta Cenerentola (l'ambientazione e i personaggi napoletani, il boss malavitoso, la donzella in pericolo di vita e l'uomo d'azione che la deve salvare, l'importanza della musica nella configurazione drammaturgica, ecc.), Ammore e malavita riesce nell'ardimentoso miracolo di tenere insieme storia e generi con la loro parodia interna, rendendoli entrambi credibili e godibili, e di ridere di se stesso mentre racconta la propria storia. Si ride dei turisti contenti di essere scippati durante il tour guidato alle vele di Scampia, ma si trepida anche per la sorte dei protagonisti; si accetta la burla se pazienti e personale medico si mette a ballare Flashdance nei corridoi notturni dell'ospedale, ma ci si immedesima anche nei tormenti (cantati!) di Rosario (interpretato con grande grinta e intensità da Raiz, voce degli Almamegretta) che non riesce a far prevalere il sentimento dell'amicizia sul radicato senso dell'onore; si capisce dalle strizzate d'occhio che i personaggi sono macchiette, eppure gli stessi hanno anche una loro dignità e uno spessore drammaturgico e gli interpreti sono adeguati (menzione per Buccirosso e per una divertita e grintosa Claudia Gerini in salsa partenopea). La sequenza di apertura, dove dalla piazza antistante la chiesa su cui si sta svolgendo il funerale la macchina da presa passa all'interno della bara dove il defunto inquadrato di profilo comincia a cantare la propria dubitosa storia è impagabile, e preannuncia il tono di quanto verrà dopo. Un piccolo (ma neanche tanto, chissà se all'estero lo capirebbero e lo apprezzerebbero) capolavoro.

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CINEMA D'ALTRI MONDI

3/29/2017

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Del film che ha aperto il festival, I Am Not Your Negro, ho già parlato in questo stesso sito. Raoul Peck, regista di origine haitiane, che ha trascorso parte della sua vita in Congo, ha acquisito i diritti di un saggio incompiuto dello scrittore e saggista James Baldwin e lo ha affidato alla voce di Samuel L. Jackson, costruendo con le immagini, in gran parte di repertorio, un poderoso testo audiovisivo che costituisce il più importante contributo cinematografico al dibattito sulla questione afroamericana in una stagione pure affollata di titoli. Le immagini diventano parte integrante di una critica analitica (fondata anche sulll'autobiografia) non solo dell'ideologia ma anche di un immaginario intimamente compromesso con essa.

I cortometraggi africani in concorso hanno offerto uno spaccato non solo di situazioni, tematiche (migrazioni, memorie e radici, metafore politiche, corruzione, condizione dell'infanzia, ecc.) e aree di produzione, ma anche di tecniche cinematografiche: fiction tradizionale ma anche cinema di animazione e found footage, per non dimenticare la sezione New Dimensions (fuori concorso) che ha proposto tre suggestivi esempi di film girati in realtà virtuale: grazie al visore e alle cuffie ci si ritrova immersi in un ambiente virtuale a 360°, di volta in volta in una sperimentazione videoartistica con danze e riprese subacquee (Nairobi Berries, Kenya), in una specie di videogioco in cui lo spettatore è la vittima sotto minaccia (Let This Be A Warning, Kenya) o in un festival d'arte all'aperto a Accra (Spirit Robot, Ghana).
Ha vinto il concorso per i cortometraggi Un enfant perdu (di Abdou Khadir Ndiaye, Senegal), che segue l'odissea di un bambino di famiglia borghese che si perde all'uscita di scuola e scopre un mondo per lui sconosciuto. Tra i film che ho visto, sempre in tema di condizione dell'infanzia, ho trovato toccante (anche se forse tecnicamente è il più debole) Une place pour moi di Marie Clémentine Dusa bejambo (Ruanda), su una bambina che al suo ingresso nel mondo della scuola scopre la discriminazione superstiziosa cui ancora oggi sono sottoposte in certe parti dell'Africa le persone albine. Una discriminazione dolorosa cui reagirà mettendo per iscritto le sue semplici parole di bambina in una lettera, che la maestra fotocopierà e distribuirà ai genitori dei suoi compagni di classe.

Passando al Concorso per lungometraggi “Finestre sul mondo”, mi è sfuggito purtroppo il film che si è aggiudicato il premio principale, House in the Fields (Marocco) di Tala Hadid, che racconta in forme semidocumentaristiche la vita e le tradizioni di una popolazione berbera dell'Atlante, concentrando la propria attenzione su due personaggi femminili.
Perfettamente adeguato invece il premio del pubblico “Città di Milano”, andato a quello che secondo me è il film migliore del festival, El Amparo, una produzione venezuelana-colombiana, del giovane regista Rober Calzadilla. Negli anni '80 una battuta di pesca si trasforma (fuori schermo) in un massacro: verso il confine colombiano l'esercito venezuelano uccide 14 pescatori inermi scambiandoli per guerriglieri. Gli unici due sopravvissuti verranno imprigionati e sottoposti a enormi pressioni perché confessino di far parte della guerriglia, per evitare all'esercito e al governo venezuelano la vergogna di un errore letale. Film di dignità e di resistenza umana, stupendamente calato in una realtà locale ben caratterizzata, che dà risalto ai caratteri principali (la storia, vera, si era tradotta dapprima in un'opera teatrale) ma senza mai dimenticare la dimensione corale, collettiva, politica della vicenda. Una regia fluida, tesa, a suo agio tanto nell'uso della camera a mano nelle movimentate riprese in spazi aperti che negli spazi claustrofobici della prigione del paese, e un cast di attori perfetti. Se proprio gli si vuole trovare un difetto, il film procede in anticlimax, poiché le scene più drammatiche sono concentrate nella prima parte; ma in ogni caso è un grande film.
In un'edizione del festival dove stranamente non si è parlato moltissimo, almeno in forma diretta, dei diritti delle donne, spicca A Day For Women (Yom Lel Setat), della regista egiziana Kamila Abu Zekri. In un quartiere popolare del Cairo apre una nuova piscina e, straordinariamente, la giornata della domenica viene riservata alle donne, altrimenti escluse dall'uso dell'impianto. La condizione collettiva, ludica, sensuale della piscina, che permette alle donne di stare insieme, un po' meno coperte del solito, a godere del sole, dell'acqua, della musica, della compagnia reciproca, avrà naturalmente un effetto benefico (salvo suscitare l'irritazione dei fondamentalisti, prontamente rintuzzati però dalla comunità), anche sulle tre protagoniste principali, una vedova inconsolabile che troverà una nuova ragione di vita, una modella per pittori che riuscirà a coronare un vecchio sogno d'amore e una ragazzina disinibita e considerata un po' pazza che a sua volta troverà qualcuno che la capisca e la apprezzi per quello che è. Un film non semplicisticamente propagandistico, ma capace di molte sfumature: la giovane regista si destreggia bene nel maneggiare diversi registri - il buffo, il patetico, il sentimentale, il drammatico – e chiude su una bella immagine subacquea di libertà.
Un forte ritratto femminile viene delineato anche nel senegalese Félicité, di Alain Gomis, già vincitore dell'Orso d'argento alla Berlinale: una donna fiera e orgogliosa, ma anche arrogante e presuntuosa, che si guadagna da vivere cantando nei locali, ritrova la sua vita sconvolta da un grave incidente motociclistico in cui rimane coinvolto il figlio adolescente. Molta bella la prima parte, con una tesa linearità iterativa (alla Dardenne, o come certo cinema iraniano), finché Félicité fa di tutto per mettere insieme i soldi che servono all'operazione del figlio; poi il film si disperde e ristagna prima di arrivare a una conclusione.
Non è facile in effetti trovare temi comuni tra i lungometraggi del concorso, se non genericamente l'emergere di storie individuali su contesti geopolitici, storici e socioeconomici sempre molto caratterizzati.
Un altro dei film più direttamente impegnato in una polemica politica è Santa y Andrés, del cubano Carlos Lechuga. Nella Cuba anni '80 una commissaria del popolo, donna solitaria e segaligna, viene incaricata di sorvegliare Andrés, confinato in un isolamento rurale, scrittore omosessuale e accusato di idee dissidenti. Ovviamente l'incontro tra due solitudini e la conoscenza reciproca porteranno a un ben differente rapporto umano tra i due protagonisti, in una sorta di versione caraibica di Una giornata particolare.
C'è il Bangladesh in preda a una crisi economica sociale invece sullo sfondo di Live from Dhaka di Abdullah Mohammad Saad. La situazione è bene impostata, la regia funziona e i due attori protagonisti, maschile e femminile, sono bravi; ma il film è afflitto da due problemi: una fotografia in un bianco e nero scialbo e poco contrastato (molte tra l'altro le scene notturne) e la sequela di sventure che colpisce il protagonista (è zoppo; sta perdendo tutti i suoi averi in speculazioni finanziarie; è perseguitato dai creditori; ha un fratello drogato – che gli ruba i soldi; che muore -; ha una fidanzata di cui è geloso – che rimane incinta; che ha bisogno di soldi per abortire; che non abortisce -; gli bruciano la macchina nei disordini; tenta di espatriare ma gli rubano i soldi, e via così, fino all'ultima sequenza e ben oltre) sono davvero troppe per un uomo solo.
Va ancora peggio alla donna di una certa età protagonista di Burning Birds (Davena Vihagun, Sri Lanka) di Sanjeewa Pushpakumara: le milizie paramilitari anticomuniste le trucidano l'incolpevole marito; avendo otto figli da mantenere passa dal lavoro massacrante in una cava di pietre a uno rivoltante in un mattatoio; viene picchiata e stuprata a più riprese e da vari personaggi (tra i quali l'assassino del marito rincontrato casualmente); è costretta a darsi alla prostituzione; i figli vengono scacciati da scuola; viene arrestata e via così fino a un finale di sangue. Il regista cerca la bellezza nella sofferenza con riferimenti estetici alla pittura europea (lui fa i nomi di Caravaggio e di Rembrandt), ma il film è talvolta e nell'insieme piuttosto insostenibile.
Molto funereo anche My Hindu Friend (Meu amigo hindu, evento speciale fuori concorso), girato da Hector Babenco (Il bacio della donna ragno, Giocando nei campi del Signore, Ironweed), già ammalato di cancro, che racconta se stesso facendosi impersonare da Willem Dafoe, che, prestigioso ospite d'onore alla proiezione, fa un'ottima figura, elegante, simpatico e cool. La prima metà si svolge prevalentemente in ospedale, in attesa e dopo un trapianto di midollo, ma tutto il film si rivela una cupa preparazione alla morte, anche quando sembra allontanarsene. Tra i molti film di registi che raccontano se stessi, i riferimenti più diretti sono all'All That Jazz di Bob Fosse, o a un altro film-testamento, il Radio America di Robert Altman, in cui la morte si aggirava tra le quinte in impermeabile. Personalmente non amo molto il registro del grottesco, e il film ne fa ampio uso, forse per esorcizzare i temi mortiferi, ma a mio parere con l'effetto di aggravare una situazione già difficilmente sostenibile. Un film decisamente poco riuscito, tra goffaggini di sceneggiatura e perfino di regia; la scena finale con la moglie (reale) di Babenco che balla nuda sotto la pioggia con l'accompagnamento (extradiegetico) di Dancing in the Rain mi ha imbarazzato.
Più “leggero”, benché ambientato anche questo in una situazione di disagio sociale, El soñador del peruviano Adrian Saba, che più degli altri guarda a modelli occidentali – sia pure da cinema indipendente -, tra flashforward e sequenze oniriche, nel raccontare la storia di un ombroso adolescente, “fabbro” in una pandilla di scassinatori, che vedrà cambiare la sua vita dopo l'incontro con la sorella di uno dei complici, da lui ferito in uno scontro.
E' un bizzarro oggetto cinematografico infine Honeygiver Among the Dogs (Munmo Tashi Khyidron), di Decher Roder. Tra le montagne boscose e nebbiose del Buthan e i suoi centri urbani si dipana un racconto che è di volta in volta road movie, commedia sentimentale, giallo (la trama si avvolge sul caso di una badessa scomparsa, forse assassinata, e sulle indagini di un giovane detective che si mette alle calcagna di un affascinante sospettata), il tutto spruzzato di misticismo buddista. Quindi paesaggi, schermaglie tra i due, femme fatale, visioni oniriche, indagini, colpo di scena, resa dei conti. Forse con un po' di stringatezza in più e nella mani di un regista più visionario avrebbe potuto diventare (a suo modo) un cult...

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UN ANNO DA DAVID (CONTRO GOLIA)

3/28/2017

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PREMI DAVID DI DONATELLO 2017

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Okay, è una proporzione un po’ Davide contro Golia (lo dice il nome stesso), ma anche noi abbiamo i nostri Oscar, e la statuetta tanto per cominciare è senz’altro più bella della loro. La cerimonia probabilmente no, ma tanto io non guardo nessuna delle due, quella americana perché di notte dormo, quella italiana per deprimenti esperienze passate.
Devo dire che forse mai come quest’anno la cinquina dei film candidati aveva la mia approvazione (lo dico subito così quelli dell’Accademia del Cinema che hanno assegnato i premi si sentiranno più tranquilli). Si tratta di cinque titoli a mio parere tutti validi, ovviamente con le dovute differenze. Veloce come il vento mi è parso un buon film di genere, come in Italia si stenta a farne, che raggiunge un buon equilibrio in quel mitico rapporto che sta la via Emilia e il West, cioè sull’adozione dei modelli, stilemi e anche stereotipi d’oltreoceano e paesaggi, ritmi e personaggi più intimi e nostrani. Tra le spacconate hollywoodiane insomma e l’understatement (anche se non si chiama così) all’italiana, quel modo di volare un po’ basso, di non prendersi mai sul serio fino in fondo, di mantenere un ironico senso delle proporzioni. L’anno scorso c’era stato lo splendido caso del sulfureo Lo chiamavano Jeeg Robot, quest’anno tocca al film di Rovere.
Fai bei sogni poi è un film d’autore nel senso che è bellocchiano fino al midollo (tanto che mi ero divertito a raccontarlo tramite i titoli dei film precedenti), forse la prova migliore dai tempi di Vincere!
Il film che ha vinto è forse il più classico, nel senso di più aderente all’eredità della commedia all’italiana, e di più tradizionale nella messa in scena (vince anche Virzì alla regia; i candidati registi corrispondevano senza molto fantasia ai film in lizza) e nell’uso degli attori. Non che sia un male: La pazza gioia è senza dubbio un bel film, che diverte e commuove.
Più innovativi erano forse gli altri due titoli. Fiore è un dramma carcerario con una protagonista femminile straordinaria, un film che raggiunge il lirismo attraverso un realismo duro e senza molte concessioni. Indivisibili è un film potente nella concezione e nella realizzazione, che mescola descrizione sociologica e afflato antropologico con una visionarietà e una portata simbolica fuori dal comune. De Angelis trova due interpreti efficaci (gemelle nella vita e siamesi nel film), omaggia il Ferreri de La donna scimmia e il Browning di Freaks, ed esprime una grande idea di cinema e un senso del paesaggio quasi garroniano.
Non mi piace dare stelline e fare graduatorie, ma avercene di annate così.
Forse anche tra le sceneggiature le mie preferenze sarebbero andate a Fiore (Giovannesi con Gravino e Lattanzi) e Indivisibili (De Angelis con Guaglianone – già coautore di Jeeg – e Petronio). Ha vinto invece la coppia Virzì-Archibugi sempre per La pazza gioia. Nulla da obiettare.
Per lo stesso film è stata premiata strameritatamente Valeria Bruni Tedeschi, per un’interpretazione che è forse la sua migliore di sempre, la summa di tutti i personaggi della sua carriera. Nevrotici, fragili, impulsivi, snob, autoironici. Peccato soprattutto per l’esordiente Daphne Scoccia, di straordinaria intensità in Fiore, e per la strana coppia delle altrettanto esordienti, e sorprendenti, sorelle Fontana. Qualche dubbio in più sulla statuetta come miglior protagonista maschile a Stefano Accorsi, sulle cui capacità interpretative nutro da sempre considerevoli perplessità. Qui è avvantaggiato perché il suo personaggio è un tossicodipendente un po’ fuori di testa, per cui la recitazione può stare tutta sopra le righe, e dalla cadenza emiliana che gli permette di giocare in casa. Ci può stare; personalmente avrei senz’altro preferito il Mastandrea di Fai bei sogni - per quanto in un personaggio un po’ monocorde, peraltro congeniale all’attore romano incline alla recitazione sommessa e sottotono -, che viene però comunque giustamente premiato come non protagonista per la bella parte del padre problematico in Fiore. Antonia Truppo infine si vede premiata per il secondo anno consecutivo, cosa insolita, ma con merito in entrambi i casi, come non protagonista: nel 2016 per Jeeg e nel 2017 per Indivisibili.
Indiscutibili anche due ulteriori premi andati a Indivisibili: uno ai produttori De Razza-Verga, per avere sostenuto un progetto insolito e audace, e un altro (anzi due, di cui uno per la miglior canzone) a Enzo Avitabile, per una colonna sonora perfettamente organica e integrata al film. Un altro premio per lo stesso film sarebbe forse potuto andare a Guarino per le scenografie etnografiche e inventive in una Castel Volturno magica e sinistra, ma gli è stato preferito lo Zera de La pazza gioia, mentre in un campo affine Cantini Parrini si aggiudica la statuetta per i costumi del film di De Angelis.
Veloce come il vento si aggiudica prevedibilmente anche i riconoscimenti più tecnici, come montaggio  (Vezzosi), suono e effetti speciali.
Tra i migliori film stranieri vince Animali notturni (cui io ho dedicato schizofrenicamente anche un Face/Off) su Captain Fantastic, Lion, Paterson, Sully. Tutti, ciascuno a suo modo, film degni di interesse.
Ma sacrosanto a mio parere è il premio andato a I, Daniel Blake di Ken Loach come miglior film dell’Unione europea. Un film umanista e politico, struggente e arrabbiante, decisamente superiore a tutti i suoi concorrenti (Florence, Julieta, Truman, Sing Street) o per lo meno ai tre che ho visto io.

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UNA FINESTRA SUL MONDO

3/27/2017

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27° FESTIVAL DEL CINEMA AFRICANO, D'ASIA E AMERICA LATINA di Milano

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Il Festival del Cinema d'Africa, Asia e America Latina, nato 27 anni fa a Milano per iniziativa del Coe (Centro orientamento educativo), sviluppandosi a partire da un'eroica rassegna ospitata al Cinema San Fedele, intitolata “Il lontano presente”, che portava nella nostra città, nel cuore dei rampanti anni '80, cinematografie di cui non sospettavamo neppure l'esistenza, è da sempre un'occasione tra le più preziose per gettare lo sguardo non solo al di là degli steccati della produzione statunitense ed europea, ma anche per aprire delle vere e proprie finestre sul mondo, per ampliare e approfondire la conoscenza di altri mondi, altre culture, altri uomini, donne e bambini che, ci piaccia o no, vivono sul nostro stesso pianeta.
Frequentare il Festival non è una vacanza esotica all inclusive; lo spettatore non rimane rinchiuso nei recinti ben protetti dei villaggi globali, ma viene lasciato e spinto a vagare tra terre sconosciute, mondi ignoti, pieni di contraddizioni, di problemi drammatici e a volte tragici, ma abitati da persone che meritano comprensione e rispetto, basilarmente pervasi spesso dai nostri sentimenti, spinti dagli stessi nostri desideri di fondo.
E' un viaggio se volete anche impegnativo, da cui si ritorna con molti ricordi e a volte anche con qualche amarezza in più (quest'anno, tanto per dire, non è stata realizzata la piccola sezione di commedie, che negli ultimi anni aveva un pochino alleggerito il programma del festival, tanto per dare un'idea di come vanno le cose nel mondo), ma che vale indubbiamente la pena di fare.
I sapori talvolta sono forti, non sempre gradevoli per il nostro gusto, ma almeno non sono la solita minestra riscaldata in chiave hollywoodiana, o i cibi esotici normalizzati e addomesticati per i nostri palati abitudinari.
Seguo con grande piacere e interesse il Festival da molti anni e anche quest'anno non mi sono sottratto, concentrandomi soprattutto sui due concorsi principali, vedendo una decina di lungometraggi (prevalentemente dalla sezione intitolata, appunto, “Finestre sul mondo”) e altrettanti cortometraggi (Concorso cortometraggi africani), 3 film in realtà virtuale a 360° provenienti da Kenya e Ghana, per un totale di 17 Paesi di provenienza (senza contare le coproduzioni), un paio di mostre fotografiche, una mezza dozzina di incontri con registi (tra cui Raoul Peck) e con la star hollywoodiana Willem Dafoe (un attore che non si tira indietro davanti a sfide anche ardite, uno che ha recitato con Scorsese, Stone, Friedkin, Ferrara, solo per fare qualche nome), ospite d'onore (piacevolissimo, elegante e spiritoso) in quanto protagonista dell'ultimo film del regista Hector Babenco, che, già malato di cancro, ha lasciato il suo testamento cinematografico con My Hindu Friend. Ah, e una degustazione di piatti e bevande africane, last but not least.
Da molti anni, circondate da uno stuolo di collaboratori e di giovani e volonterosi volontari, sono le instancabili animatrici di questa bellissima iniziativa (è il festival di cinema più bello di Milano? direi proprio di sì), Anna Maria Gallone e Alessandra Speciale, che riescono a infondere il loro prezioso entusiasmo a chiunque stia loro di fronte o a fianco, superando con lo slancio della loro passione anche le difficoltà economiche che di anno in anno rendono sempre più impervia l'organizzazione di una manifestazione internazionale, che ogni anno porta a Milano oltre che i film registi, attori e rappresentanti culturali dei Paesi di origine. Seduta a un tavolino della Casa del Pane, il Festival Center situato nel Casello Ovest di Porta Venezia, Anna Maria ci ha raccontato che per la selezione di quest'anno ha visionato 581 film; i prescelti sono poi distribuiti poi nelle varie sezioni che oltre alle due già citate comprendono anche il Concorso Extr'A – Il razzismo brutta storia (film italiani sui temi delle migrazioni e dei razzismi), Where Future Beats, oltre ai Flash, agli omaggi e alle iniziative speciali.
E per chi non si accontenta, non c'è solo il cinema: completano il programma serate musicali, presentazioni di libri, conversazioni e incontri, workshop per adulti e per bambini.
Sì, ve lo dovevo dire prima; sarà per la prossima volta.
Se volete sapere chi ha vinto il Festival, potete andare sul sito ufficiale.
Se invece volete leggere la recensione di I Am Not Your Negro, il film cui è spettato l'onore di aprire il festival, uno dei più stimolanti contributi cinematografici al dibattito della situazione afroamericana, diretto dal regista haitiano Raoul Peck sulla base di un testo di James Balwin, la trovate già su questo sito.
Dopodiché, nel prossimo post, se siete interessati vi racconto i film che ho visto io.

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LUNA BATTE STELLE 3 A 6: AND THE WINNER IS: MOONLIGHT

2/27/2017

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Gli Oscar 2017

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E così non ha vinto La la land. Ossia, ha vinto solo 6 statuette. 6 statuette (dopo il record delle 14 nomination il risultato si ferma ben al di sotto dei film più premiati) che sembrano dire che è il miglior film del 2016. E invece no. O forse sì, così come annunciano smarriti nel pasticcio delle buste Warren Beatty e Faye Dunaway. E invece no, proprio no. Il miglior film è Moonlight. Alla fine la luna splende più delle stelle.
La figuraccia è come minimo interplanetaria, ammesso che la cerimonia non venga seguita anche da altri mondi, e stupisce che non sia stata fatta in Italia, dove siamo abituati alla guittaggine e alla cialtroneria, e dove le cerimonie delle premiazioni cinematografiche ci hanno da sempre abituati all’improvvisazione e all’approssimazione, bensì a Hollywood, la capitale mondiale del cinema, là dove il cinema è una cosa serissima, e prima di tutto un’industria fortissimamente strutturata, fatta da tostissimi professionisti e dove non si può sbagliare un colpo.
Ma forse l’erronea proclamazione di La la land è un clamoroso caso di lapsus freudiano in diretta mondiale, l’inconscio della società dello spettacolo che sceglie libidicamente il piacere e il godimento delle canzoni e delle danze tra le stelle (anche a costo di imparare che i sogni hanno un salatissimo prezzo) mentre il Super Io aveva deciso di autopunirsi imponendosi la scelta di un film dove si intrecciano profondamente le problematiche di razza, di genere sessuale e di emarginazione sociale.
E’ un dato statistico di fatto che il cinema cosiddetto “leggero”, spesso più difficile da realizzare ad alti livelli rispetto a quello drammatico, viene discriminato quando si tratta di festival e premi. Così La la land ha brillato ai Golden Globe, dove i film comedy godono di una categoria protetta rispetto all’ingombro dei drama, ma è andato sotto agli Oscar, dove alla leggerezza del musical è stata schiacciata dal peso specifico dell’impegno, tanto più necessario (e praticato) dopo le polemiche sugli Oscar troppo wasp dell’anno scorso e vista la temperie politica dell’incipiente era Trump, di cui si agognava la fine ancora prima che iniziasse. Ma paradossalmente, nel momento in cui non si fa altro che parlare di fake news, le false notizie sono uscite direttamente da una busta dell’Academy, con il Dolby Theatre di Los Angeles trasformato in un teatro dell’assurdo.
Devo ammettere subito (forse dovevo farlo ancora prima) che al momento attuale non ho ancora visto Moonlight, e quindi non posso fare paragoni ragionati. Per quello che ho visto, La la land poteva meritare il massimo riconoscimento, per l’insieme delle sue componenti e per il risultato complessivo, che è soffuso di una grazia rara. Ne ho avuto prove (anche indirette) sui social, dove ho letto dibattiti accesi (spesso incentrati sulla domanda capziosa, ma significativa, che suona come: La la land è o non è un capolavoro?), ho trovato molti che hanno visto il film più volte nel giro di pochi giorni (non credo succeda più molto spesso), e molti altri che sono rimasti sconvolti (non è un termine eccessivo) dall’unhappy end. Ma il finale non sarebbe stato così scioccante se Chazelle, oltre che farci innamorare dei suoi personaggi, non ci avesse emotivamente travolto con l’artificio della storia rinarrata in maniera alternativa nel sottofinale, trasportata dall’onda irresistibile della musica e impaginata con immagini fantastiche. Questo, indubbiamente, è cinema, nella sua forma migliore e al meglio della sua forza di fascinazione.
Per fortuna dalla contesa è uscita vincitrice Emma Stone; anche qui, non sono in grado di fare paragoni con tutte le sue concorrenti (mi spiace già in anticipo per la Portman in quello che poteva essere il ruolo della sua vita; sono un fan della Huppert che sicuramente sarà stata perfetta in Elle; e Meryl Streep resta una delle attrici più mirabolanti, che ha vinto tutto), ma guardate la Stone nella scena del provino. Guardate come entra ed esce nel personaggio del suo personaggio, come in pochissimo tempo, sul suo volto in primo piano, si alternano emozioni differenti. Arriva al provino con la tensione della candidata messa alla prova, entra nel personaggio iniziando la finta telefonata ridendo e scherzando, poi si fa seria, e quindi è travolta da una tristezza struggente; poi il provino viene interrotto da un evento esterno e la Stone rimane sospesa tra Mia e il personaggio che Mia sta interpretando; sul suo viso permane il turbamento che l’ha sconvolta, che lascia gradualmente il posto allo sgomento, alla rabbia incredula. Se La la land è puro cinema, la Stone (senza nulla togliere a Gosling forse in una delle sue interpretazioni migliori, alle prese con un personaggio comunque credibile e non banale, e che ha dovuto imparare, oltre che a ballare e cantare come la sua partner, pure a suonare il pianoforte) è la sua profetessa.
Meritate anche le statuette per scenografia, fotografia (i concorrenti erano in gran parte in gara con atmosfere fosche e cineree), e ovviamente colonna sonora (di grande coerenza interna oltre che fascino) e canzone (City of Stars).
Casey Affleck vince per Manchester by the Sea con un personaggio introverso e sommesso, con un’interpretazione tutta in sottrazione, che però il partito preso del regista spinge sin sulla soglia del rischio di manierismo. Il film vince anche l’Oscar per la migliore sceneggiatura. Che è bella, a volte secondo me superiore alla regia, dello stesso Lonergan, con una grande attenzione ai rapporti tra i personaggi e con un’attenzione inconsueta per le figure secondarie (anche la Williams meritava forse per l’intensità regalata a una delle scene migliori del film, in cui la mdp si tiene a rispettosa distanza proprio quando le regole del melodramma avrebbero spinto a sfondare le distanze e a infierire con i primi piani); ma ha, a mio parere, una pecca imperdonabile: il lungo flashback in cui Lee rivive tutta la sua tragedia, seduto in silenzio davanti all’avvocato che sta tentando di affidargli la tutela del nipote. Il flashback racconta tutto - il preambolo, lo svolgimento, l’acme, il dopo -, con un’ansia di spiegare tutto (ebbene sì: uno “spiegone”, direbbero quelli di Gazebo), che nel resto del film non è mai così pesante e invadente. Il fatto che poi il regista decida di accompagnare il tutto (presente e passato, uniti dalla solennità della malinconia) con lo scontatissimo, abusatissimo cosiddetto Adagio di Albinoni, non fa che esaltare e sottolineare quello che secondo me è un vero e proprio errore di sceneggiatura.
Non conosco neppure i concorrenti al miglior film straniero (tranne l’ineffabile Toni Erdmann), ma non posso che essere d’accordo con il premio all’iraniano Il cliente. Fahradi fa un cinema personale, complesso (ma comprensibile a tutti), profondamente umanista ma tutt’altro che consolatorio, con la capacità di conferire a quelle che potrebbero sembrare storie ordinarie la tensione e il pathos che li rende dei feroci e ineludibili thriller dell’anima. Il regista ha festeggiato a Londra, in forte e clamorosa polemica con la politica trumpiana; ma battendolo sul tempo la prima a dichiarare che non avrebbe messo piedi nella patria di Capelli arancioni era stata la sua attrice, Taraneh Alidoosti.
Un film che ha decisamente perso è Arrival, del canadese Villeneuve, pluricandidato che rimane praticamente a mani vuote. E’ in effetti un film involuto, che sembra e forse è ripiegato su stesso, che manca della grandiosità del film di fantascienza e che, per perseguire un effetto di spiazzante rovesciamento narrativo finale, non riesce a guadagnare un’intima necessità. Sul nostro sito c’è chi l’ha trovato profondo, e chi l’ha trovato pretenzioso. Tra i film d’animazione, l’europeo La mia vita da zucchina ha scontato forse l’eccessiva depressività dei toni, già messa in evidenza sul nostro sito dal contributo di Oruam Norac nel suo Face/Off.
Tra gli esclusi ovviamente ci interessava in particolare la sorte di Fuocoammare, che concorreva come miglior documentario: ma si trattava anche in questo caso di un film difficile pur nella semplicità del suo messaggio, con uno iato non sanato tra le sue diverse componenti. Al contrario, il monumentale (dura più di sette ore) documentario sulla vicenda Simpson O.J. è, come recita il sottotitolo, Made in America, con quell’impasto tra sport e spettacolo, violenza e avvocati, tragedia privata e evento pubblico che ne faceva anche nei pronostici il vincitore naturale e predestinato.


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    Mauro Caron

    Appassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione.

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