IL COLIBRI' di Francesca Archibugirancesca Archibugi, fin dal suo primo film, Mignon è partita, datato 1988, ha sempre cercato, a volte partendo da soggetti originali, a volte da spunti letterari, di raccontare storie famigliari, di borghesie medie, tra gioie, dolori, amori e disamori coniugali, bambini e bambine preferibilmente con qualche problema di salute. Tutto ritorna ne Il colibrì, tratto dal libro di Sandro Veronesi: gente comune (benché molto benestante), le cose della vita (Les chose de la vie era il titolo di un film del 1970 firmato da Claude Sautet, che di queste cose se ne intendeva), un gruppo di personaggi che gira intorno al protagonista e alla sua famiglia, una bambina che pensa ci sia un filo che la tiene legata ai muri costringendola a preoccuparsi di non fare inciampare quelli che gli stanno intorno. Ha colpito molto la spiegazione che giustifica il titolo, che designa il protagonista, non solo perché era piccolo da bambino, ma anche perché si dice sia un uomo che impiega tutte le sue energie a rimanere fermo. Ma non mi sembra del tutto vero: in fondo Marco non è un conservatore che si sforza di rimanere immobile, ma un uomo comune intorno a cui accadono molte delle cose che nella vita possono accadere a tutti: occasioni che non si realizzano e amori che non si consumano; una bella carriera; una moglie (insoddisfatta) e una figlia (inquieta); la perdita delle persone care; le amicizie perse e ritrovate, quelle tradite e quelle che nascono. In più Marco è un ultrabenestante, con una meravigliosa casa sulla costa toscana. E' lì che si consuma un evento luttuoso, una delle scene primarie che dà una svolta fatale alla vita del giovane Marco, della sua innamorata, di suo fratello, e a cascata di molti altri personaggi che entrano nella vicenda. Da lì in poi non sono poche le sventure che toccano la vicenda dell'uomo comune protagonista, tra suicidi, disastri aerei, incidenti in montagna, bambine problematiche, disagio psicologico, diversi cancri, tradimenti coniugali e non. Il libro di Veronesi procede per schegge eterogenee (narrazioni, dialoghi, lettere, mail, chat, inventari, ecc.), rimescolandone inoltre il naturale ordine cronologico. Espedienti entrambi non nuovi (mi vengono in mente esempi rispettivamente di Stoker, di Camilleri o di Coe), che servono però a rivelare la storia pezzo per pezzo, come un puzzle di cui vengono fornite alla rinfusa le tessere di forma e colori differenti. La Archibugi e i suoi sceneggiatori riprendono la frammentazione cronologica, rendendo a loro volta il film un enigma narrativo che si svela a poco a poco. Il procedimento è suggestivo anche se alla fine non tutto torna e non tutto è chiarissimo. Minimalista da una parte (tutto ruota intorno ad un nucleo di personaggi legati tra loro), massimalista dall'altro (Marco viene seguito per tutto il corso della sua vita, dall'infanzia alla morte, con diversi attori ad interpretarlo da bambino e da ragazzo e Favino truccato per cercare di renderlo credibile sia come uomo maturo che come anziano), il racconto si ricostruisce a posteriori così ricomponendo l'ordine delle sequenze. E' strano che quando tutto sembra ricomposto e la storia avviata alla conclusione, si inserisca un nuovo episodio non “preannunciato”, quello di una partita a carte dall'altissima posta, che spezza il climax e la tensione emotiva che dovrebbero accompagnare lo spettatore verso il finale. L'Archibugi regista sembra più a suo agio con le scene intime o con pochi personaggi, mentre diventa subito più teatrale nelle scene più articolate, impressione aggravata quando interviene il trucco posticcio ad invecchiare attori e personaggi. Mi ha un po' colpito anche notare il diverso comportamento etico-sessuale attribuito ai personaggi maschili e femminili (da Veronesi prima e dall'Archibugi poi): se il protagonista è un uomo tranquillo, fedele alla moglie (anche quando il rapporto sta mostrando crepe preoccupanti), amante extraconiugale ma votato ad una rigorosa castità, ben diverso appare l'attitudine di tutti i principali personaggi femminili: una madre probabilmente adultera; una moglie che tradisce il marito a destra e a manca con uomini e donne; un'amante apparentemente pura e ideale, da amor cortese, capace però a sua volta di tradirlo perfino con il fratello; una figlia che rimane incinta non si saprà mai di chi, salvo partorire una creaturina di colore inaspettato. Forse lo dico male, ma in questo caso sì, il protagonista sembra sempre lì fermo come un colibrì, impegnato con tutte le sue energie a mantenere la posizione, mentre le donne della sua vita sembrano tutte molto più dinamiche, impegnate e in movimento a cogliere nettari differenti fior da fiore...
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CRIMES OF THE FUTURE di David CronenbergLa trama è delle più improbabili. In un futuro prossimo, il corpo di Saul Tenser genera continuamente nuovi organi disfunzionali, in pratica delle forme tumorali che vengono mappate, tatuate e poi estirpate dalla body artist Caprice nel corso di pubbliche performance. Intorno ai due protagonisti ruotano una serie di altre strane figure, come il capo di una setta di plastic eaters, plasticofagi che stanno sviluppando un nuovo apparato digerente in grado di assorbire la plastica; sua moglie, detenuta dopo aver assassinato il figlio mutante, il cui cadavere conservato in freezer ora il padre vorrebbe far sottoporre ad uno show autoptico per finalità politiche; due strani burocrati ossessivi che vorrebbero realizzare un catalogo nazionale dei nuovi organi; gli ambigui organizzatori di un concorso per la Bellezza interiore dedicato agli organi mutanti; un detective che indaga sulle attività sovversive legate alle mutazioni; le tecniche incaricate della manutenzione delle macchine biomorfe che agevolano l’alimentazione, il sonno e le amputazioni cui si sottopone Tenser; e poi una serie di personaggi dediti alla chirurgia da strada, o a pratiche sessuali e a performance artistiche entrambe basate sull’automutilazione. La materia sporca, malata e calda di cui si nutre il cinema di Cronenberg è trattata con estrema freddezza - con le pinze di un anatomopatologo, si direbbe -: gli ambienti sono freddi, squallidi, disadorni (se possedevano una grandeur, l'hanno perduta nella decadenza); i costumi tendono al minimalista (Tenser, intabarrato in un mantello nero con cappuccio, sembra un personaggio medioevale, un po’ penitente, un po’ monaco, un po’ lebbroso); la fotografia (di Douglas Koch, che sostituisce questa volta il fedelissimo Suschitzky) è scialba e desaturata; la drammaturgia è statica e inerte, praticamente priva di azione. Solo la febbre estenuante ed estenuata che anima i personaggi segnala una forma di vita e di esistenza, che è quella di una mutazione inarrestabile e di un desiderio insopprimibile. Malgrado le immagini forti (è evidente che non sia un film per tutti i gusti e gli stomaci), la tensione del film è quasi esclusivamente intellettuale e corre attraverso i dialoghi ancora più che nelle visioni di interventi chirurgici, autopsie, autolacerazioni. Quello che interessa a Cronenberg sono l'evoluzione dell'umanità e dei corpi verso nuove forme di esistenza e di conformazione; la ricerca di un'inedita bellezza nascosta all'interno dei corpi (dopo che quella esteriore è stata esplorata in tutte le sue forme dall'arte prima e dai media di massa poi); l'esplorazione di nuove forme di sessualità in cui il dolore diventa la principale porta per l'ingresso del piacere; i confini dell'arte dove il corpo è contemporaneamente la tela dell'artista e il bisturi che la lacera... Continuerò a parlare di CRIMES OF THE FUTURE nell'articolo CRIMES OF THE PAST sul numero di novembre di SegnoCinema. BLONDE di Andrew DominikL’intento di Dominik appare chiaro fin dai primi minuti. La madre toglie una bimba dal letto, la prende in braccio, attraversa i corridoi invasi da un pulviscolo di piccoli fiocchi bianchi. Esce all’aperto e si avvia verso la macchina e la luce rosata del cielo, tra i fiocchi che vorticano nell’aria. Ma non si tratta di neve, e non è la luce del mattino quella che occhieggia all’orizzonte. I boschi vicino alla città sono in fiamme e arrossano, e quella che rotea nell’aria è cenere. La madre guida nervosamente verso le colline, verso il cuore dell’incendio, con a fianco la bambina sempre più terrorizzata. All'improvviso vuole che la figlia conosca il padre sconosciuto, che abita in cima alla collina. Un poliziotto ferma la macchina che corre sulla strada in mezzo alle fiamme e la rimanda indietro. La madre frenetica riporta la bambina a casa, la fa spogliare e le prepara un bagno, poi cerca di annegarla nella vasca. Non riesce, e stramazza al suolo. La bimba, Norma Jeane, esce dalla vasca e nuda e bagnata va dai vicini a cercare aiuto, mentre intorno balenano i bagliori dell’incendio non così lontano. E’ un incipit agghiacciante e ipnotico, che pone subito le basi sia tematiche che estetiche di Blonde, tratto non dalla biografia (o dalle varie biografie) di Marilyn Monroe, bensì dall’omonimo libro (di oltre mille pagine) in cui la scrittrice Joyce Carrol Oates ne reinventa la vita e la storia. Norma Jeane è collocata in un inferno, che ha i connotati visivi (e sonori) dell’inferno, abitato da creature tormentate e infernali. E' un partito preso da cui Dominik non derogherà mai, nel corso dei 167 minuti del film. Qualunque cosa accada, chiunque incontri, qualunque dolore o qualsiasi inimmaginabile successo tocchi la vita di Norma Jeane/Marilyn, la sua e la nostra percezione rimangono quelle di un incubo continuo, senza requie e senza consolazione. I coniugi vicini di casa che l'anno accolta, mentre la madre viene ricoverata in un'ospedale psichiatrico, l'abbandonano ben presto disperata e piangente in un orfanotrofio; il produttore cui si presenta quando decide di tentare la carriera cinematografica, la sbatte a faccia in giù su un tavolo e la violenta; i suoi tentativi di diventare madre falliscono uno dopo l'altro; la sua ascesa nel mondo del cinema è avviene dei panni della dumb blonde, l'oca bionda tutta corpo e senza cervello; la madre ricoverata in clinica non è più in grado neppure di conoscerla e suo padre le rimarrà per sempre ignoto; le relazioni e i matrimoni (con giovani figli di celebrità, con campioni dello sport, con grandi intellettuali, con sommi uomini politici – i nomi di Joe Di Maggio, di Arthur Miller, di JF Kennedy non vengono mai esplicitamente nominati nel film) vanno regolarmente in rovina, minati dalla sua fragilità e da uomini di volta in volta cinici, maneschi, egocentrici, ciecamente fallocrati. Dominik ci conduce a seguire Marilyn (raramente vediamo le cose attraverso gli occhi della protagonista) in un mondo distorto, allucinato, deformato da una percezione sempre precaria e compromessa, ben prima che gli psicofarmaci diventassero indispensabili per tappare le falle della coscienza della diva o per aiutarla a togliersi dall'impiccio di una vita troppo pesante per le sue spalle candide e tornite. E' un partito preso che può trovare o non trovare d'accordo (ma la biografia della Monroe, che da una parte tocca un successo dopo l'altro fino a renderla la diva più amata, ammirata, desiderata, idolatrata, riprodotta in immagini fino a renderla eterna e indimenticata, dall'altra è una specie di monumento all'insoddisfazione e all'inquietudine, all'insicurezza e alla frustrazione), e che può rispecchiare o meno la reale personalità della protagonista. La raffigurazione della Monroe come una pura vittima dei propri fantasmi e del brutale desiderio delle masse maschili, agnello sacrificale del nascente voyeurismo di massa, non rende forse onore al suo carattere, che pure ebbe la forza di portare un'orfana indigente ad intraprendere con determinazione una carriera che malgrado mille difficoltà ed ostacoli la portò al culmine del successo (in campo cinematografico, teatrale e musicale), e anche a fondare una propria casa di produzione, nel tentativo di riprendere il controllo della propria immagine e del proprio lavoro. Ma una volta adottato il proprio punto di vista, Dominik lo persegue con ostinata coerenza, imprigionando la sua protagonista in una serie di scatole visive e sonore (le musiche di Nick Cave e Warren Ellis riempiono di echi inquietanti qualsiasi situazione del film), utilizzando lenti deformanti, inquadrature impossibili, spiazzando continuamente le immagini dal bianco e nero al colore e viceversa, avvicinando l'esperienza di Blonde a quella della Hollywood tragica ed espansa dell'Inland Empire lynchiano o ancora prima, alle miserie e alle velleità, e infine all'isteria violenta e orgiastica de Il giorno della locusta di West e poi di Schlesinger. Sono impressionanti per fluidità e senso di spiazzamento le sequenze in cui Marilyn passa da una situazione reale ad una onirica, o da un ambiente spaziotemporale all'altro, in brevi ma geniali piani-sequenza, intesi a volte a passare dalla dimensione intima e privata della donna a quella pubblica e artificiosa della diva, come quando una Norma Jeane affranta e in lacrime nel suo camerino si trasforma, solo con il voltarsi verso lo specchio illuminato, nella diva perfetta dal sorriso sfolgorante e ammaliatore. Norma Jeane ha raggiunto una delle due cose che desiderava di più al mondo - la notorietà e il successo - trasformandosi in altro, nel proprio doppio Marilyn, nell'emblema, astratto e carnale insieme della femminilità secondo l'immaginario maschile; l'altro suo desiderio, quello di essere riconosciuta e amata per quello che era veramente e intimamente, non si avvererà mai. Come Kane nel Quarto potere di Welles, altro personaggio consumato dall'esposizione pubblica, ma irrisolto fino alla fine nella dimensione privata, Marilyn ritroverà prima della fine un oggetto della propria infanzia, quell'orsacchiotto che si stringeva al petto mentre la madre impazzita cercava di sbarazzarsi di una bambina che nessuno desiderava. Il film ricostruisce in maniera perfetta e perfezionistica, quasi feticistica, i set, le pose, gli ambienti dell'epoca, fino alle facce delle comparse nelle scene di massa. Ma soprattutto nel film ricorrono continuamente le riproduzioni in vivo, che sfiorano la perfezione, di quei fermo- immagine iconici che formano l'inesauribile galleria che l'immaginario collettivo ha raccolto e custodisce gelosamente in una sorta di profano (e profanabile) santuario virtuale; solo che tutte, regolarmente, ci mostrano intorno un contesto precario, instabile, si sporcano di insoddisfazione, di dolore, di frustrazione, mentre situazioni cinematografiche e parole delle canzoni che hanno scritto per lei sembrano spesso alludere in maniera involontaria e inconsapevole ma - a posteriori - non meno struggente e vertiginoso, alla sua condizione di solitudine e di infelicità. Se Mailyn Monroe/Norma Jeane Baker sono il doppio l'una dell'altra, la prima il riflesso disincarnato dell'emblema della carnalità, il riflesso sovrailluminato, dove l'eccesso di trucco e di luce (le prime immagini, prima ancora del comparire del titolo, mostrano il gigantesco riflettore dalla luce abbagliante che illuminerà Marilyn, ferma su una grata del marciapiede, la candida ruota del vestito sollevata dall'aria) e sono capaci di coprire e spazzare via tutte le imperfezioni, le fragilità, le insicurezze e i difetti della seconda, il personaggio si frantuma in altre dimensioni grazie alla stupefacente interpretazione di Ana De Armas, a volte talmente perfetta da confondersi icasticamente con il personaggio che deve interpretare, a volte distante in modo straniante, con la faccia arrotondata e quasi gonfia, le patetiche sopracciglia sbiancate per diventare fino all'ultimo pelo la blonde che tutti i maschi vorrebbero avere nuda, nel letto, come l'hanno già vista e desiderata nelle fotografie patinate delle riviste. Marilyn li accontenterà ancora un'ultima volta, distesa nuda tra le lenzuola, con la cornetta del telefono in mano e un flacone di barbiturici a fianco, morta e immortale, decisa a farla finita, e a non finire mai. Ma non tutti hanno amato Blonde: clicca qui per leggere in Face Off la controrecensione del perfido Oruam Norac... LA RAGAZZA DELLA PALUDE (Where the Crawdads sing) di Olivia NewmanLa ragazza della palude non è un film per tutti. Non è un film per uomini, non è un film per adulti consapevoli, non è un film per gli amanti del buon cinema. Sostanzialmente si direbbe sia un film per ragazzine. Forse. Ammesso che ci siano ancora ragazzine che si appassionano a storie d'amore che parlano di altre ragazzine acqua e sapone vessate dalla sorte, come cenerentole dell'epoca moderna (siamo nei più rassicuranti anni '60), raccontate con stile piano e tono tranquillizzante, nonostante le traversie attraversate dalla protagonista. Visto senza saperne nulla in anticipo e senza aver letto il best seller di Delia Owens da cui è tratto (ma se la qualità è la stessa del film sono felice di non averlo fatto), mi sono bastati pochi minuti per precostituirmi un giudizio del film. L'elegiaca voce fuori campo, i gamberetti che cantano (vedi titolo originale), i poetici voli degli uccelli, le patinate immagini della palude, la musica romantica, sono il preludio di quello che seguirà, ovvero una specie di imbarazzante Harmony audiovisivo fuori dal tempo. Kya viene abbandonata da bambina nella casa nella palude - prima dalla mamma maltrattata, poi da fratelli e sorelle in fulminea sequenza, infine dal padre manesco – e sopravvive lontano dal consesso umano, senza parenti e senza amici, sopravvivendo grazie al commercio delle cozze che raccoglie nelle acque paludose. Considerata una selvaggia, conosce tuttavia l'amore con un dolcissimo coetaneo, ma – indovinate? – verrà abbandonata anche dal suo ragazzo e poi per soprammercato accusata dell'assassinio del suo secondo e meno raccomandabile amante. Ci sono quindi la fiaba alla Cenerentola, il racconto romantico, il melodramma, un pizzico di giallo, e infine il dramma processuale, poiché tutto viene raccontato in flashback mentre la trepidante Kya è imputata dell'omicidio di un giovane precipitato in piena notte dall'alto di una torre nella palude, fino ad un risibile colpo di scena finale di cui non mette conto parlare - e non solo per evitare spoiler. Avete presente l'immaginario legato alle paludi del sud-est degli Stati Uniti, quello legato ai film di Hooper o ai romanzi di Landsale? Bene, dimenticatelo. La palude in questo caso è un luogo privo di pericoli o di pensieri malsani, percorribile come un normale parco pubblico, nei pressi di una spiaggia da cartolina. Così come da cartolina o da rivista d'arredamento country – o meglio shabby chic – è la casa nella palude dove vive la pescatrice di cozze, tutta linda, ordinata e dotata si direbbe di ogni confort. Come da cartolina o da rivista di moda anni '60 è la ragazza “selvaggia” - chissà perché rifiutata dagli altri -, sempre perfettamente in ordine, pulita, pettinata, ordinata, elegante con semplicità, in grado di esprimersi con grazia e proprietà malgrado la mancanza di educazione scolastica, e raffinata disegnatrice. Inutile continuare, è tutto così, in un racconto molto più rosa che giallo intriso di romanticismo cheap, con baci romantici, casti amplessi, senza scene di violenza, sesso o turpiloquio. Le signorine sognanti e bene educate godranno forse di questo racconto edulcorato, patinato, senza scossoni e senza inquietudini - con una sceneggiatura mal scritta recitata con niente più che scolastico zelo - e si identificheranno forse con questa povera ragazza che sogna l'amore e una vita serena e felice ed è invece perseguitata a causa della cattiveria del mondo maschile. Però - che so? - uno schizzo di fango, un po' di febbre, un alligatore affamato... E invece niente. GLI ORSI NON ESISTONO (Khers nist) di Jafar PanahiDa molti anni la valutazione dei film di Jafar Panahi è inscindibile dalla considerazione della sua vicenda umana, politica e giudiziaria. Considerato un nemico dal regime iraniano (dopo aver portato in Iran i più prestigiosi premi cinematografici dai festival del cinema di Cannes, Venezia, Berlino), nel 2011 è stato condannato a non poter più scrivere né girare film, né lasciare il paese né concedere interviste per vent’anni. Dopodiché, nonostante le proibizioni, mitemente e caparbiamente, ha continuato a scrivere e girare film, come e dove ha potuto, e ad inviarli, a volte con escamotage romanzeschi, ai più grandi festival, dove ha continuato a riscuotere riconoscimenti. Si tratta ovviamente di film poveri, girati clandestinamente e con pochi mezzi, dentro appartamenti e ascensori (This Is Not a Film), o l’abitacolo di una macchina (l’intero Taxi Teheran), o paesi remoti (Tre volti), prendendo spesso a soggetto ed oggetto della propria narrazione la propria condizione di artista recluso e mettendosi forzosamente in gioco come attore delle proprie storie. Gli orsi non esistono somiglia sotto diversi aspetti alla sua opera precedente, il già citato Tre volti: Panahi è ancora in scena nella parte di se stesso, l’ambientazione è di nuovo in un lontano villaggio iraniano, stavolta ai confini con la Turchia, e la sua condizione umana e professionale lo porta di nuovo ad affrontare un discorso insieme politico e cinematografico. Quelle che racconta sono storie d’amore, di cinema nel suo farsi o nel suo non potersi fare, di confini, di voglia di fuga e di caparbietà nel rimanere. Vediamo una coppia di innamorati che sta progettando di scappare dall’Iran per cercare un futuro migliore. Ma è solo (?) un film che si sta girando in Turchia, e che Panahi sta dirigendo a distanza, sorvegliando le riprese via pc, autorecluso in una dimessa casupola in un villaggio iraniano poco oltre la frontiera. Quando il suo ospite lo porta sino alla linea di confine, dove i contrabbandieri fanno espatriare i clandestini, lui esita e torna indietro. Ma, inizialmente ben accolto, Panahi viene presto individuato come un corpo estraneo, diverso per cultura e mentalità dalla comunità che lo ospita. Il pretesto è una fotografia che, forse, avrebbe involontariamente scattato a due amanti clandestini, e che ne proverebbe il tradimento. La ragazza è stata promessa ad un altro maschio del villaggio fin dal momento delle rispettive nascite, e il suo amore per un altro è una trasgressione inammissibile: lo stesso Panahi si troverà a testimoniare secondo tradizioni ancestrali in una sorta di grottesco processo. Anche il finale è analogo al precedente Tre volti, con Panahi in automobile si allontana dai villaggi in cui sono ambientate le relative vicende. Ma se nel film precedente era ancora possibile, con molta immaginazione e buona volontà, intravedere nell’ultima immagine un barlume di speranza, ora il regista lascia dietro di sé solo violenza (nel villaggio) e disperazione (nel film che sta realizzando, dove realtà e finzione sono difficilmente distinguibili). Quello di Panahi è un cinema resistente e resiliente, clandestino, ostinato nella volontà di rappresentare la realtà del suo Paese schiacciato dall’oppressione e dall’oscurantismo e nello stesso tempo condannato alla prudenza e alla reticenza. Sembrerà fuori tema la parafrasi carveriana che ho utilizzato come titolo per questo articolo; ma di qualsiasi cosa parli, di se stesso, di amanti, di cinema, di confini, di riti e tradizioni, il cinema di Panahi parla di politica. Lo capisce anche il regime: l’11 luglio, recatosi negli uffici della polizia per informarsi sulla situazione dei registi Mostafa Al-Ahmad e Mohammad Rasoulof (Orso d’Oro 2022 a Berlino per Il male non esiste), già detenuti, il 62enne Panahi è stato di nuovo arrestato; pochissimi giorni dopo si è saputo che, revocata la libertà condizionata, dovrà scontare sei anni di carcere (e non escludo che se riuscisse ad impadronirsi di una telecamera continuerebbe a girare film anche in prigione). A proposito di titoli, quello del film allude agli spauracchi usati dal potere per tenere le popolazioni soggiogate e succubi; ma mentre intorno alle prigioni dove l'Iran tiene rinchiusi i propria artisti migliori il Paese è incendiato dalle proteste di chi chiede più libertà, il regime non sa fare altro che tentare di reprimerle nel sangue. SICCITA' di Paolo VirzìSe Virzì si è accreditato come il più ortodosso seguace della tradizione della commedia all’italiana, stavolta sceglie di cimentarsi con uno dei suoi filoni più bizzarri, quello socio-apocalittico che annovera titoli come Il giudizio universale (1961) diretto da De Sica su sceneggiatura di Zavattini o L’ingorgo (1979), di Luigi Comencini. Quelle erano grandi produzioni, anzi, coproduzioni, con cast italiani e internazionali pazzeschi e oggi inimmaginabili, in cui si partiva da uno spunto apocalittico surreale e paradossale per raccontare i problemi, le piccolezze, la miseria morale e l’ipocrisia dell’Italia di allora e forse di sempre. Qui il cast è meno altisonante (ma ci sono Mastandrea e Orlando, Belluci e Pandolfi, e tanti altri bravi attori e attrici), in compenso ci sono gli effetti speciali digitali a rendere vera e visibile una Roma spaventosa e paradossale, afflitta da un anno intero di siccità, con il Tevere completamente in secca diventato un arido e sporco fossato che solca la città eterna come una vena aperta e disseccata in cui non scorre più un filo d’acqua. Concepito (e scritto a quattro mani da Virzì, Archibugi, Giordano e Piccolo) durante la pandemia, Siccità però più che per il richiamo al passato stupisce per la sua sconcertante contemporaneità, per la sua capacità quasi profetica di prevedere gli avvenimenti e di estrarne in un distillato lo spirito dei tempi. Al film tocca uscire in un periodo in cui la pandemia globale non è stata definitivamente debellata e suscita ancora preoccupazione, in cui una siccità mai vista ha messo in ginocchio l’agricoltura e la produzione di energia, in cui il cambiamento climatico sta manifestando in maniera plateale quali potranno essere i prossimi spaventosi effetti, in cui il malcontento sociale dilaga con risultati che saranno drasticamente plastici dopo le prossime elezioni, in cui si parla di razionamento dell’energia, di contrazione della crescita, di impoverimento materiale e della qualità della vita. Se la realtà nei mesi di ideazione e di realizzazione del film ha assunto toni se possibile ancora più sinistri a causa della guerra in Europa, la rappresentazione di Virzì è puntuale e, nell'apparente disordine dei diversi racconti, piuttosto precisa (perfino più acuta e penetrante della divertita satira dell’apocalisse di Don’t Look Up). Anche davanti alla catastrofe in atto, a tenere il tono è la commedia italiana (ma nella dimensione in cui il genere cinematografico attinge un’universalità che lo eleva a commedia umana), con le piccole vite di ciascuno che continuano più o meno come sempre: si nasce e si muore, si sorride e si piange, si commettono errori e ci si pente, si desidera e si teme, ci si ama e ci si disama, si tradisce e ci si macera nella sofferenza, ci si fa trascinare dall’ambizione personale e ci si arrende, si fanno progetti per il futuro e si cade in rovina, si vedono i fantasmi del passato e a volte non si vedono le persone che ci stanno di fronte. Se ad un personaggio del film una troupe televisiva concede “30 secondi, anche meno” per parlare delle sue paure, desideri, speranze, Virzì si prende un paio d’ore per seguire diversi personaggi che si aggirano disorientati tra timori, rimorsi, ambizioni, smarrimenti, in una Roma inaridita e invasa dagli scarafaggi. Alle vicende dei personaggi fa da sfondo una città che già i Romani avevano dotato di efficienti acquedotti e dove ora ci si contende una tanica d’acqua, multietnica ma africanizzata dal clima e dalla luce arida (la fotografia è di Luca Bigazzi), tra un centro storico privato della linfa vitale e desertificate periferie, accomunati dai disordini e dal malcontento. Alle urla dei manifestanti, che protestano contro le istituzioni e assediano le ultime oasi di privilegio (come il centro termale di lusso che spreca l’acqua per le piscine dei ricchi) e alle invettive nichiliste di giovani che si vedono privati del presente ancora prima che del futuro, si sovrappone il chiacchiericcio assordante e pervasivo dei mezzi d’informazione; i reporter frettolosi, i conduttori e redattori tv cinici e indifferenti, la virtualità dei social in cui si alternano messaggi di speranza e di odio, le chat sugli smartphone che riempiono i vuoti delle esistenze con simulacri di relazioni. Ad un prosciugamento e ad una sete che hanno una dimensione reale e metaforica, si aggiunge nel racconto l’epidemia di una malattia (probabilmente portata dagli insetti che proliferano a seguito della distruzione della fauna ittica che era il loro antagonista) altrettanto simbolica, che induce astenia e sonnolenza: da una parte la debolezza di fronte ad eventi totalmente al di fuori del nostro controllo, dall’altra il sonno della ragione che chiude gli occhi davanti all’entropia del reale e al dilagare dell’irrazionalità. Alla fine di quella che Virzì descrive come una “preghiera laica” (ma che culmina nel momento forse più sorrentiniano del film in una cerimonia propiziatoria alla presenza del Santo Padre), finalmente cade una pioggia torrenziale. Se sarà solo una pausa per la gola riarsa della città e dei suoi abitanti; se laverà i peccati e i vizi della Città eterna; se sia un segnale di speranza e di rinascita; se salverà una civiltà che sta scivolando nell’abisso, o se scorrerà via lasciando tutto come prima, è ancora tutto da vedere. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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