L'INGANNO PERFETTO (The Good Liar) di Bill CondonSe non siete ancora andati a vedere il film e volete mettervi alla prova, meglio che rimandiate la lettura di questo articolo a dopo averlo visto. Non vi dirò come va a finire, ma le cose che dirò potrebbero facilmente mettervi sulla buona strada per intuirlo. D'altra parte, i titoli del film, sia quello italiano, L'inganno perfetto, che quello originale, The Good Liar (il buon mentitore, ma l'inglese non fa distinzioni di genere), mettono già sulla buona strada e regista e sceneggiatore fanno ben poco per nascondere le loro intenzioni. Il film parla per l'appunto di mentitori e di inganni. Il protagonista maschile, chiamiamolo Roy, interpretato dall'ottantenne Ian McKellen, si rivela quasi subito come un truffatore di professione. Il meccanismo della truffa in sé (c'è poi tutto il lavoro per occultarlo e per costruire uno scenario credibile) è semplice: con l'esca di investimenti super-redditizi si convincono le vittime a mettere ingenti somme di denaro su un conto comune, unendole a quelle versate a sua volta, a garanzia di onestà e di partecipazione al rischio, da parte dal tentatore; che, ovviamente provvede poi a ripulire il conto appropriandosi di tutto il denaro versato. Roy (ma i suoi nomi nel corso del film sono molteplici) lo mette in pratica insieme ai suoi complici ai danni di ingenui investitori, ma progetta ora di applicare il suo piano anche ai danni di una vedova piacente e facoltosa, Betty, conosciuta tramite una chat in Internet. Malgrado le diffidenze del nipote, che via via scopre sempre nuove ombre nel presente e nel passato del simpatico anziano, Roy si istalla a casa di Betty e instaura con lei una relazione fatta di complicità e confidenza (anche se gli approcci più fisici sono regolarmente destinati ad essere respinti), ma al solo fine di spogliare completamente la donna di tutti i suoi averi. Roy comincia ad essere combattuto tra la volontà ossessiva e luciferina di portare a termine il suo piano e un'incipiente pietà, forse affetto, o addirittura amore (per quanto da buon britannico non osi pronunciare questa parola così impegnativa) per questa donna che, pur a rispettosa distanza, gli accorda tutta la sua fiducia, mentre porzioni sempre più inquietanti del suo passato (che ha radici negli anni durante e immediatamente successivi la seconda guerra mondiale) affiorano nel presente, e complici ed ex-vittime gli complicano la vita. Riuscirà Roy a portare a termine il suo spietato progetto criminale? O qualcosa, dentro o fuori di lui, riuscirà ad ostacolarlo? Essendo un film di truffe e di inganni, è chiaro da subito che non tutto è così semplice e che il finale debba riservare delle sorprese. Ho visto il film in una sala gremita di critici cinematografici, quindi spettatori decisamente smaliziati, e mi ha stupito che quelli con cui mi sono confrontato non abbiano intuito almeno a grandi linee la soluzione finale. Perché, come dicevo all'inizio, lo sceneggiatore Jeffrey Hatcher (già collaboratore del regista per il suo Sherlock Holmes, che cosceneggia insieme all'autore del romanzo da cui il film è tratto, Nicholas Searle, e che nella sua filmografia ha spesso posto al centro dei suoi script storici eroine femminili protofemministe) e il regista Bill Condon non si preoccupano di disseminare fin dalle primissime sequenze indizi rivelatori. Mentre chattano al computer sui titoli di testa, in una sorta di reciproco catfishing, vediamo mentire sia Roy che Betty; subito dopo, al loro primo incontro, apprendiamo che entrambi hanno usato un nome falso; al cinema vanno addirittura a vedere Unglorious Basterds, un film che racconta una storia alternativa; e la stessa truffa che vediamo Roy mettere in opera nella prima parte del film ha per vittime quelli che credevamo complici e viceversa. In questi casi, intuire prima quella che può essere la sorpresa finale destinata a ribaltare la situazione compromette decisamente il piacere di seguire la narrazione (anche se rimane la curiosità sui moventi dei personaggi e sulla meccanica della soluzione). Bill Condon dirige con eleganza, girando spesso in interni sullo sfondo di una Londra contemporanea, e creando la giusta atmosfera per suggerire l'intimità quasi domestica che si viene a stabilire tra i due protagonisti, senza però trascurare un ammiccamento metalinguistico (i personaggi spesso recitano una parte, all'interno di set creati appositamente per suscitare la credulità e la confidenza dell'avversario, hanno nomi d'arte, ricoprono diversi ruoli). E, a proposito di recitazione, Condon, regista che ha portato spesso i propri attori a vincere i premi più prestigiosi, sa di potersi completamente affidare a due leoni della scena e dello schermo come Helen Mirren (già premio Oscar per The Queen) e, soprattutto, in questo caso, Ian McKellen (già con Condon in Demoni e dei, per il quale fu candidato ai Golden Globes e agli Oscar, e poi per un apocrifo Sherlock Holmes – Il mistero del caso irrisolto), che ha a disposizione un ruolo più ricco di risvolti e sfumature. L'inganno perfetto è quindi un efficace intrattenimento, bastevolmente intrigante e stuzzicante soprattutto (ma non solo) per un pubblico âgé, che troverà sullo schermo una coppia di anziani per nulla rassegnati all'inerzia della terza età.
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Parasite (Gisaengchung, 기생충, Corea del Sud) di Bong Joon-ho Bong Joon-ho è uno degli autori più interessanti, anche se non molto prolifico, della new wave coreana (un'onda lunga, che dura ormai da una ventina d'anni mantenendo una sua inesausta vitalità). In Parasite - Palma d'Oro al Festival di Cannes 2019 che doppia quella attribuita l'anno scorso a Un affare di famiglia di Kore-eda, un'altra storia dall'Oriente di affetti famigliari e di impostura - sembrano confluire tematiche presenti in due delle sue opere precedenti: il ritratto di una famiglia in strenua lotta per la sopravvivenza, come in The Host, dove una famiglia di marginali si trova a combattere eroicamente contro un enorme mostro uscito dal fiume; e la rappresentazione di una società divisa in ricchi e poveri, come in Snowpiercer, dove un treno in corsa perenne tra paesaggi glaciali del futuro è la rappresentazione icastica di una società rigidamente divisa in classi. Parasite riprende dal primo la vivacità narrativa, la commistione dei generi, uno straniato umanismo nella rappresentazione di personaggi che nascono come cinici e grotteschi, riuscendo nello stesso tempo ad evitare la schematicità e la seriosità del secondo, la cui tematica viene calata in un contesto realistico e contemporaneo, benché intelligentemente stilizzato. Se The Host ibridava abilmente e con originalità commedia, dramma, family, avventura, horror, satira politica e sociale, analogamente Parasite a sua volta mescola commedia e dramma, humor e horror, metafora politica e sociale, o, per dirla con le efficaci parole del regista stesso, “dramma realistico, crime, commedia, triste dramma sociale, thriller terrificante”. Rispetto a Snowpiercer, la metafora cambia, per così dire, di asse: da quello lineare e orizzontale del treno ai volumi abitativi stratificato verticalmente di Parasite: che non solo colloca la famiglia ricca nei quartieri alti della città, nelle vicinanze delle montagne, e quella povera nei bassifondi, in un seminterrato dove arrivano gli insetti e i fumi delle disinfestazioni, l'orina degli ubriachi e i liquami traboccanti delle inondazioni, ma scagliona a sua volta la casa dei ricchi su una serie di piani; in alto ci sono le stanze “leggere” dei figli, al pian terreno gli ambienti freddi ed eleganti degli spazi comuni famigliari, nel seminterrato gli spazi servili e più in basso ancora, in un bunker nascosto sottoterra come una tana di animali, lo spazio ulteriormente parassitario. Quando il piccolo rampollo intravede in casa l'intruso che vive nascosto nello scantinato, resta traumatizzato; non ha visto solo una sorta di fantasma, come ritengono in famiglia: peggio, ha visto un povero, una visione dalla quale avrebbe dovuto essere invece ben protetto. Nell'attenta strategia della narrazione e degli spazi, il film si può considerare diviso in tre parti, ambientate nella ricca casa Park, con alcuni intermezzi nella derelitta casa dei Kim, disoccupati che vivono di lavoretti e di espedienti. Nella prima assistiamo all'infiltrazione dei Kim (il pater familias è interpretato da Song Kang-ho, uno degli attori coreani più familiari anche agli spettatori occidentali, essendo una presenza costante in diversi film sia di Bong Joon-ho che di Park Chan-wook) nella casa dei Park. Dopo che il figlio, grazie ad una raccomandazione, è stato assunto in casa Park come insegnante d'inglese della figlia maggiore, inizia una cinica spietata strategia per scalzare da casa i diversi collaboratori domestici (l'autista, l'amata domestica) per soppiantarli con gli altri membri della famiglia, fino alla saturazione. Una spietata arrampicata sociale narrata con toni da black comedy, dove la vetta da raggiungere è quella di una posizione redditizia ma comunque servile. Nella seconda, che assume cadenze thriller, assistiamo invece alla guerra tra poveri, letteralmente senza esclusione di colpi, che si scatena all'interno della casa, tra nuovi e vecchi servitori e tra diversi livelli di parassitismo. Dopo che tutti i poveri sono temporaneamente ripiombati nei rispettivi inferi (il bunker, il seminterrato), la terza parte, una sorta di finale quasi horror alla luce del sole del lussuoso giardino dei Park, vede infine l'incontro catastrofico tra i tre gruppi famigliari, dove la lotta dei poveri con i poveri e dei poveri con i ricchi arriverà ad un climax apocalittico. Paradossalmente, più il film vira verso il genere e verso il grottesco, più la rappresentazione dei personaggi diventa partecipe, empatica. La sorte della famiglia di bastardi approfittatori dei Kim alla fine ci tocca emotivamente, ma altrettanto ci tocca quella della coppia dell'ex-domestica, o dei Park. Nella commedia dell'arte (quasi goldoniana), degli equivoci e dei travestimenti di Parasite, ed è questo uno dei suoi meriti, non ci sono buoni e non ci sono cattivi. Le famiglie dei poveri sono arrampicatrici, subdole, parassitarie; quella dei ricchi ammette la presenza dei corpi estranei dei servi solo se hanno la capacità di rispettare spontaneamente invisibili ma inflessibili limiti, e detestano finanche l'odore di persone costrette a vivere in ambienti malsani o nell'ordinaria promiscuità urbana. Ma tutti i gruppi di personaggi in fondo sono legati al loro interno da affetti famigliari e coniugali; sembra addirittura che possa sbocciare un amore interclassista, la figlia dei Kim si preoccupa di preparare un piatto di cibo per l'uomo che poco dopo la assalirà, e in effetti sembra che nessuno voglia veramente fare del male agli altri, almeno fino all'esplosione di follia finale. Tutti appaiono in fondo funzioni di un sistema codificato e ineluttabile, dove i sentimenti umani sono in subordine rispetto alla rigida classificazione economico-sociale. Il sistema capitalistico, con le sue regole e la sua divisione in caste, fino agli intoccabili, non solo è dominante, ma è pervasivo, ineluttabile, privo di alternative. Nel film aleggia un altro fantasma, oltre a quello nascosto nel bunker: un grottesco universo distopico al di sopra del 38° parallelo, non un modello sociale, economico, politico e di convivenza umana alternativo, ma un altrove degno solo di irrisoria parodia. Quando il figlio nel finale immagina una fuga onirica in cui la famiglia (ormai definitivamente menomata, come in The Host) possa tornare a riunirsi, è di nuovo grazie a un illusorio progetto di accumulazione capitalistica: l'eventuale happy end passerebbe attraverso l'arricchimento, l'accesso al mondo della ricchezza e alle sue case; anche se ancora abitate dai fantasmi della povertà, del passato e della violenza. IL SIGNOR DIAVOLO di Pupi Avati e |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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