HONEY BOY di Alma Har'elDifficile parlare di Honey Boy senza parlare di Shia LaBoeuf. LaBouef ha scritto il film ispirandosi alla propria biografia (anche se i personaggi hanno nomi diversi): il dodicenne star della televisione è “Shia LaBoeuf”, così come è “Shia LaBoeuf” il ventenne affermata ma tormentata star del cinema, ed è lo stesso Shia LaBoeuf ad interpretare il padre dei “Shia LaBoeuf” del film. L'attore americano ha nella propria storia reale un'infanzia con due genitori che vivevano da hippie, con lavori precari, e che hanno poi finito per separarsi; ha vissuto da bambino in quartieri degradati e ha assistito impotente allo stupro della madre; ha deciso decenne di fare l'attore ed è diventato il protagonista di una serie tv della Disney (Even Stevens), seguito (e viceversa: toccava al bambino accompagnare il padre alle riunioni degli alcolisti anonimi) da un padre alcolizzato. Sfonda nel mondo del cinema grazie soprattutto a Steven Spielberg, cha praticamente lo adotta e ne promuove la carriera (Indiana Jones, la saga dei Transformers, prima di approdare anche al Nynphomaniac di von Trier); ma la sua età adulta è costellata da risse, arresti, incidenti automobilistici in stato di ebbrezza e altri accidenti. Questo groviglio di drammatici handicap famigliari e individuali e di straordinari successi confluisce in Honey Boy, ma con un accento decisamente spostato sui primi. Il titolo è ovviamente antifrastico (è il nomignolo affibbiatogli dal padre), e c'è ben poco di dolce nell'infanzia di Otis, che vive in uno squallido motel periferico con un padre ex-clown frustrato, invidioso e incattivito a fargli per così dire da manager, mentre il piccolo recita in tv prendendo torte in faccia e facendo smorfiette in parodistici abiti femminili. C'è ben poco di dolce anche nella giovinezza dello stesso Otis, che rischia di uccidersi in un incidente d'auto in stato di ebbrezza, e che frequenta di malavoglia un percorso di recupero in un centro specializzato (quello che gli americani chiamano, appunto, un rehab). La storia si sviluppa su due piani paralleli, indagando da un lato il distorto rapporto padre-figlio, dove il secondo è chiamato a una precoce maturità per difendersi e sopperire alle inadeguatezze del primo, dall'altro lato sui tormenti del giovane Otis che non ha ancora superato i nodi edipici di quel rapporto. Se la materia doveva essere incandescente per LaBoeuf, che ha scritto la sceneggiatura come parte del percorso terapeutico di riabilitazione, non altrettanto coinvolgente è l'esperienza dello spettatore. Girato in soli 19 giorni dalla regista israeliana Alma Har'el (che già aveva diretto l'attore americano in un video del gruppo islandese Sigur Ròs, in un'inedita trangolazione artistico-geografica) in due tronconi che non condividono tra loro nessuno degli interpreti, Honey Boy mi ha lasciato un'impressione di incompletezza. Gli spunti legati ai mestieri “spettacolari” di tutti e tre i protagonisti (il padre e il figlio nelle due diverse età) vengono trascurati, a parte brevi flash per ciascuno, forse in nome dell'economia narrativa e produttiva; e se la parte con Otis piccolo privilegia in modo un po' ripetitivo i confronti diretti padre-figlio (con una digressione che permette al ragazzino, in assenza della madre, la riscoperta della femminilità nella persona di una giovane vicina di casa, che con la sua semplice presenza è in grado di rappresentare un simulacro di madre-sorella-amante), decisamente ancora più debole e inconsistente è la parte con Otis giovane adulto, alle prese con la resa dei conti con il suo passato famigliare, ma completamente priva di un deuteragonista o antagonista a sostenere la narrazione. Se Lucas Hedges continua con il suo ruolo di Otis ventenne un'ormai cospicua galleria di giovani problematici (Manchester by the Sea, Boy Erased, Ben Is Back), una doppia rivelazione è Noha Jupe, sia per l'intensità dell'interpretazione dell'Otis dodicenne che per il bellissimo viso, che in Wonder ci era stato totalmente nascosto da un make-up deturpante.
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WHAT DID JACK DO? di David Lynch |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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