ASSASSINIO SUL NILO (Death On the Nile) di Kenneth BranaghNon sempre è facile aggiornare storie e personaggi che hanno una loro storia, magari in altri media che non siano il cinema. Ne parlavo qualche giorno fa a proposito di The Batman, e qualche tempo addietro a proposito dell'azzardo vintage-filologico dei Manetti Bros con Diabolik. Branagh ci ritenta riportando per la seconda volta sullo schermo, con Assassinio sul Nilo dopo quello sull'Orien Express, i suoi tentativi di rinverdire i fasti del Poirot creato da Agatha Christie. Non è facile, si diceva, in particolare in un caso come questo, in cui il personaggio è fortemente formalizzato (ai limiti del macchiettismo, con la sua testa d'uovo, i suoi baffi impomatati, la sua presuntuosa arroganza, il suo acume prodigioso, e tutta una scia di peculiari idiosincrasie), l'ambiente precisamente localizzato, l'epoca altrettanto ben definita, l'impianto narrativo schematizzato (ai limiti della sclerotizzazione, con entrata in scena dell'investigatore, presentazione dei personaggi, omicidio, indagini, interrogatori, scoperta di vari segreti, riunione finale dei molti sospettabili e rivelazione/ricostruzione degli accadimenti e dei colpevoli). Se negli anni '70, con gli analoghi film interpretati rispettivamente da Finney e Ustinov, il tentativo era quello di offrire alle platee scombussolate dalle produzioni della New Hollywood e delle varie “nuove ondate” del cinema europeo un prodotto più convenzionale e rassicurante, basandosi soprattutto su richiamo letterario, cast sontuosi e ambientazioni esotiche, Branagh mette in scena i suoi esercizi di stile cercando di adeguare il modello, per quanto possibile, alle sensibilità dei nuovi pubblici. L'intento di stupire di Branagh (di cui è uscito nelle sale italiane pressoché in contemporanea il molto diverso e in buona parte autobiografico Belfast) è dichiarato fin dalle prime sequenze, quando, venuto a vedere un film che si svolge sulle acque del Nilo, tra paesaggi solari ed esotici, lo spettatore si trova invece catapultato nella campagna europea devastata dalla Grande Guerra, in tetri e scheletrici paesaggi bicromi, a percorrere in piano-sequenza asfittiche trincee fangose come in 1917. Paesaggi e luci sono sostenuti, spinti, e ricreati grazie alla cgi, tra luci ambrate e scenografie maestose (ma l'ambientazione posticcia è un po' appiccicosa), tra riprese subacquee e altre aeree. E' evidente poi il lavoro fatto sulla definizione dei personaggi, dove ci sono vari cambiamenti rispetto agli originali romanzeschi: la spia italiana (siamo negli anni '30) sparisce, una coppia di personaggi vira verso l'omosessualità, un'altra cambia colore di pelle in nome dell'inclusione, una scrittrice di romanzi rosa-peperoncino diventa una cantante blues (con una determinante influenza black american sulla colonna sonora) e la sua dolce e riservata nipote un'agguerrita road manager; e per sovrammercato l'equipaggio della nave è formato da giovani donne in pantaloncini che devono più volte improvvisarsi in compassati becchini. Se anche i balli e i comportamenti sono spregiudicatamente sensuali, il lavoro di ridefinizione viene però compiuto soprattutto sul personaggio protagonista, cercando di intaccarne la plasticità statuaria conferitagli dai romanzi della scrittrice inglese. Nel nuovo film scopriamo infatti che il celeberrimo investigatore belga voleva fare il contadino (non il poliziotto quindi), che ha il viso orrendamente sfigurato (a nascondere lo sfregio delle cicatrici servono dunque i suoi enormi baffoni), e soprattutto che ha un animo romantico, che rimpiange il suo amico amore (che compare nel film in una sola sequenza, per essere poi spazzata via da un colpo di mortaio nel racconto postumo del detective), ma è platonicamente sensibile alle grazie di un'attempata signora di colore in crociera. Molto per i lettori conservatori, poco per rendere veramente moderno e dare carne, sangue e anima ad un personaggio già in partenza molto stilizzato. Nel cast funzionale che circonda l'ego al quadrato di Branagh e di Poirot, si distingue Emma Mackey, con un ruolo più tormentato e febbricitante. Branagh, a bordo della motonave Karnak, si invaghisce delle sfaccettature delle finestre che danno alla realtà un'ambiguità e una doppiezza prismatica, e si trova a suo agio soprattutto nel gioco teatrale delle porte che si aprono e si chiudono, ma il film complessivamente lascia il sapore di un'operazione fine esclusivamente a se stessa.
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STORIA DI MIA MOGLIE (A feleségem története) di Ildikó EnyediUn capitano di marina sposa la prima donna che entra nel caffè in cui lui si trova. Lei forse lo tradisce, forse no. E' questa in sostanza la trama di Storia di mia moglie: una riga di testo per tre ore di film. Confesso che non ho letto il libro di Milan Füst (uscito in Ungheria nel 1942 e pubblicato in Italia da Adelphi in un'edizione che conta oltre 400 pagine), per cui non posso fare confronti diretti. Apparentemente, ad accomunare le due opere è l'indifferenza al contesto storico e sociopolitico in cui sono state prodotte: ci dicono altrettanto poco dell'Europa e dei rispettivi tempi tanto il libro, scritto nell'immediata imminenza della Seconda Guerra Mondiale, che il film che esce oggi sui nostri schermi, ambientato tra Malta, Parigi, Amburgo e i mari aperti in una qualche vaga belle epoque. Avevo visto invece Corpo e anima, il precedente film di Ildiko Enyedi. Un film vincitore dell'Orso d'oro a Berlino, molto apprezzato dalla critica e dal pubblico, ma che non era riuscito a conquistarmi. Ero quindi di vedere il nuovo film della regista ungherese per mettere nuovamente alla prova il mio giudizio con una sua realizzazione, e auspicabilmente correggerne la tepidità. Ahimè, il film ha deluso le mie speranze come raramente accade. Se il film precedente metteva in scena la storia di lento avvicinamento di due anime apparentemente inconciliabili nella cruda realtà di un mattatoio, ma unite in una dimensione onirica e poetica, questo racconta di due persone unite in matrimonio quasi per caso, ma mai veramente in reciproca sintonia di sentimenti. L'amore, se così si può chiamare, tra il capitano Storr, uomo “tutto d'un pezzo” e la frivola Lizzie, si consuma senza passione (i due si sposano all'inizio del film ma il primo e unico amplesso ci viene mostrato dopo un'ora di mezzo di film), senza una reale comunione, e forse senza un vero perché. A dominare è solo l'ossessione di Storr, perennemente roso dal dubbio, difficile da dimostrare, dell'infedeltà della sua enigmatica ed elusiva consorte. La Enyedi riallinea in una sostanziale continuità cronologica (anche se “bucata” continuamente da ellissi narrative che rendono poco semplice orizzontarsi nella quantità di tempo trascorsa e scandita da inutili titoli di capitoli) la narrazione, che nel romanzo è invece frammentaria e si sposta avanti e indietro nel tempo; ma gestisce in modo maldestro la consecutio temporis, il punto di vista e le motivazioni dei personaggi, e malgrado il metraggio a disposizione perde per strada qualche personaggio, consumando in una durata aberrante la storia, l'amore dei protagonisti e la pazienza dello spettatore. Come nel film precedente, la narrazione dell'umana vicenda è intervallata da immagini della natura. Si tratta questa volta soprattutto di immagini sottomarine, con il mare assunto come metafora della condizione umana e del vano tentativo di controllare ciò che è per sua natura incontrollabile, come le onde imprevedibili. Qui, nello specifico, a risultare gnoseologicamente incontrollabile è essenzialmente la maniera in cui passa le proprie giornate l'oziosa Lizzie, durante le assenze del marito afflitto da gelosia patologica; un tipo che, piuttosto che chiedere aiuto agli altri (come gli succede durante un incidente in mare), preferisce sperare nella pioggia che spenga l'incendio, e forse le passioni. Gijs Naber rende bene le oscillazioni del suo personaggio, che cerca di corazzarsi nella propria ottusa virilità, ma è roso dal tarlo del dubbio, scosso da impulsi collerici e insidiato dalla tentazione di arrendersi ad un modo differente di relazionarsi con la moglie e con il mondo; mentre ad una brava attrice come la Seydoux è chiesto poco altro che una gamma espressiva che alterna sorrisi maliziosi, bronci e lacrimucce. Poiché si tratta inoltre di una coproduzione internazionale magiaro-italo-teutonica, c'era anche purtroppo la necessità di inserire qualche attore nostrano: così ci sono pure Jasmine Trinca, in un ruolo trascurabile, e Sergio Rubini, un losco faccendiere ungherese che esibisce però incongruamente una gestualità eccessiva tutta italiana. Ah, non è tutto negativo. Belli la fotografia e i costumi. FULL TIME - AL CENTO PER CENTO (A plein temps) di Eric GravelStrano che i distributori italiani si siano persi l'occasione e l'opportunità di fa uscire il film in tempo per la Giornata internazionale della Donna (il film è già stato presentato e premiato per la regia e l'interpretazione al Festival di Venezia 2021, Sezione Orizzonti). Perché A tempo pieno (a proposito, perché non tradurre semplicemente e letteralmente il titolo francese, così preciso, invece di adottare l'inglesismo di Full Time e il superfluo sottotitolo Al cento per cento? Ah già, perché il titolo era già stato sprecato traslando malamente l'originale L'emploi du temps, altro film capitale sul mondo del lavoro contemporaneo) rappresenta bene la condizione, o una condizione, della donna della società occidentale contemporanea, impegnata sia sul fronte della famiglia che su quello del lavoro, un'equilibrista costretta ad essere multitasking in ogni ambito, spesso con inadeguati sostegni all'interno della famiglia o dal sistema del welfare... La mia recensione del film sarà pubblicata sul numero di Maggio di SegnoCinema. ENNIO di Giuseppe TornatoreForse una delle definizioni più pertinenti della musica di Ennio Morricone l'ha data il massmediologo Sergio Bassetti, quando nel film dice che in essa sono compresenti tensione ed estasi. Si può sintetizzare così il carattere da una parte innovativo e sperimentale delle sue colonne sonore, dall'altra la loro piacevolezza; la ricerca che la apparenta alla musica sperimentale e la popolarità che ne fa immediatamente dei classici immortali; la godibilità e la goduriosità che non è mai però banalità o condiscendenza al gusto comune; l'afflato epico o romantico e sempre temperato dalla modernità che la percorre e la vivifica salvandola dalla retorica; la classicità e la contemporaneità. Con Ennio Giuseppe Tornatore ha dedicato al compositore, a due anni dalla morte, un commosso e affettuoso omaggio che ne ricostruisce, anche attraverso una bella intervista realizzata prima della sua morte (che ce lo mostra nel caos del suo studio, come un Francis Bacon della musica), nell'ampiezza delle due ore e mezza di metraggio ma con una sintesi necessaria e quasi dolorosa, la vita e la sterminata carriera, composta da 500 colonne sonore per il cinema e la televisione, oltre a canzoni, opere, composizioni di musica classica e contemporanea. Per Tornatore Morricone è stato un amico, un mentore, una figura paterna. Si conoscono in occasione della collaborazione per Nuovo Cinema Paradiso, nel 1988, quando Ennio ha 60 anni e il regista una trentina meno. Da allora Morricone musicherà in totale dieci film di Tornatore, anzi undici, se si conta anche Ennio, che è indubbiamente un film di Tornatore ricolmo e traboccante di musiche del Maestro. Quello che ne viene delineato, a tutto tondo o quasi, è inaspettatamente il ritratto di un uomo complessivamente tormentato, roso dal dubbio, insoddisfatto, mai riconciliato con se stesso. Il padre, trombista (sic), gli compra una tromba usata in modo che possa guadagnarsi il pane con la sua stessa professione; Ennio abbozza, poi durante gli studi devia i suoi interessi verso la composizione, dimostrandosi presto una brillante promessa. Mentre aspira alla Grande Musica con le iniziali maiuscole, sotto l'ala di quelli che considera grandi maestri, comincia ad arrangiare qualche canzonetta per cantanti in voga, come Morandi o Vianello, e lo fa troppo bene, escogitando soluzioni originali ed insolite che stampano il suo marchio indelebile sui brani sui quali lavora. Tenta la strada dell'assunzione in Rai grazie alle raccomandazioni della moglie democristiana, poi comincia a comporre musiche da film. Ed è la fine. Cioè, è l'inizio. E' l'inizio di una carriera strepitosa, travolgente, che nemmeno lui stesso riesce più ad arrestare, anche se di volta in volta si impone le scadenze entro cui abbandonare le musiche per il cinema, senza mai riuscire (per fortuna) a rispettarle. Ed è la fine della speranza di poter entrare nel pantheon della musica colta e contemporanea, cui non smette mai di aspirare. Per tutta la propria vita, costellata di entusiastici riconoscimenti, di gloria mondiale, di premi, di attestati di stima, di successi commerciali, Ennio continuerà a credere di aver tradito la musica vera, quella colta che in quegli anni si scava la sua nicchia in terreni aridi e impervi (e che pure continuerà sempre a scrivere e a produrre, in parallelo a quella per il cinema); di aver scelto la strada più facile e popolare, di aver deluso i suoi Maestri (uno tra tutti: Goffredo Petrassi, sorta di Super Io autoritario, di figura paterna tradita in un dramma edipico che vede Ennio uccidere il padre regale per giacere lussuriosamente con la madre-musica), che d'altra parte lo ricambiano guardandolo dall'alto in basso con il sopracciglio alzato in segno di diffidenza se non di spregio. Non basteranno gli infiniti attestati di stima e di ammirazione ricevuti nell'arco di tutta la vita a riconciare con se stesso questo grande musicista dal carattere burbero e dalla lacrima facile. Di questi attestati di stima il film di Tornatore ne mette insieme un bel po', e ad esprimerli sono personalità le più differenti: musicisti colti tardivamente ravveduti, jazzisti come Pat Metheny e Quincy Jones, rocker come Bruce Springsteen e Metallica, compositori di colonne sonore come Williams e Zimmer, cantanti pop come Morandi e Vianello, e poi registi, produttori, critici musicali e cinematografici. Da molti di questi considerato il più grande musicista per il cinema mai esistito (se non il più grande musicista tout court), Morricone scrive in una sorta di bulimia compositiva per film di tutti i generi (dal western all'horror, al thriller, alla commedia, al cinema storico, d'autore, erotico, sperimentale), di tutti i livelli qualitativi, di tutti i Paesi, stringendo rapporti privilegiati con registi come Leone, Argento, Petri, Pasolini, Bertolucci, Bolognini e lo stesso Tornatore, fino al suo grande ammiratore Quentin Tarantino; che, chiedendogli la colonna sonora per Hateful Eight gli fa guadagnare in extremis il suo unico Oscar (a parte quello alla carriera assegnatogli nel 2007). Scorrendo la sua filmografia, che si srotola per quasi 60 anni, tra il 1960 e il 2016, si fa prima a dire i registi italiani con i quali non ha mai lavorato piuttosto che quelli con i quali ha collaborato. Timido davanti ai suoi maestri, Morricone nel rapporto con i registi diventa un uomo scontroso e intransigente, che difende la propria libertà creativa escludendo qualsiasi possibilità di compromesso, costringendo autori e produttori a inseguirlo per le scale dopo che ha voltato le spalle sdegnato solo per essersi sentito dire che ad un certo punto volevano mettere una canzone d'epoca non sua, o dopo che avevano osato dargli qualche consiglio o esprimere qualche desiderata troppo cogente. Non solo le musiche di Morricone sono sue e solo sue, scaturiscono da sue idee e da sue peculiari invenzioni, ma è in gran parte sua anche l'interpretazione musicale che viene data alle storie, alle immagini e alle sequenze, tanto che il musicista può essere definito, soprattutto nel suo caso, un vero coautore di qull'opera audio-visiva che è il cinema. Tanto che ormai è letteralmente impossibile pensare ai film di Sergio Leone senza l'epica moderna e scanzonata delle sue musiche (personalmente ritengo il triello con carillon di Per un pugno di dollari uno dei punti più alti dell'associazione tra immagini filmiche e musica, così come un capolavoro è la rarefatta sinfonia di rumori e silenzi che crea l'atmosfera di attesa e di tensione nel prologo di C'era una volta il West – la cui armonica mi dà ancora i brividi ogni volta che l'ascolto), o separare alcuni film come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Mission, Il clan dei siciliani, C'era una volta in America, Novecento, Sacco e Vanzetti, Nuovo cinema paradiso, per non fare che qualche titolo preso qua e là, dalle musiche immortali che Morricone ha loro donato. Ennio è oltretutto un'occasione eccezionale per compiere una cavalcata suggestiva attraverso tanto cinema della nostra storia di spettatori e rivedere sequenze di tanti film della nostra vita e del nostro cuore. Fa una certa impressione in particolare ripassare attraverso gli anni '60 e '70, quando il cinema subiva una radicale trasformazione e si prendeva una libertà di invenzione e di sperimentazione (nel linguaggio, nelle tematiche, e perché no, anche nelle colonne sonore) forse irripetibile e di cui è difficile, almeno a me pare, trovare tracce nel cinema di oggi. THE BATMAN di Matt ReevesNelle saghe cinematografiche (e in caso particolare nei reboot, come in questo caso), molto del gradimento nella ricezione da parte del pubblico, e in particolare dei fan, dipende dall'equilibrio che si riesce a conseguire tra canone e innovazione. Per non scontentare lo zoccolo duro dei seguaci più puristi, devono infatti essere rispettati i caratteri essenziali del personaggio, della tipologia di ambientazioni, dei personaggi secondari (aiutanti, antagonisti, partner di avventura e/o sentimentali, ecc.) e delle “regole” che disciplinano l'universo finzionale. Ma, nello stesso tempo, devono essere inseriti degli elementi innovativi che scongiurino il pericolo di ripetitività e di assuefazione da parte degli spettatori. Quest'ultimo aspetto è particolarmente importante (come qualunque showrunner di serie televisive sa bene) quando gli episodi filmici siano molteplici (come nelle serie, che si sviluppano spesso in più stagioni) e distribuiti in un lungo arco di anni, com'è il caso del personaggio di Batman. A mio parere il film di Matt Reeves raggiunge un accettabile compromesso tra i due elementi: in The Batman c'è il personaggio principale con la sua iconografia ormai consolidata, ci sono i personaggi di aiuto o alleati (il maggiordomo Alfred, il commissario Gordon, la sexy amica-nemica Catwoman), ci sono i principali nemici storici (l'Enigmista, il Pinguino, il Joker in un cameo), c'è la classica ambientazione (una Gotham City in cui si mescola l'architettura newyorkese e il neogotico, lo squallido Arkham Asylum), ci sono i gadget batmaniani (la bat-caverna – con tanto di pipistrelli, la bat-mobile, il bat-richiamo), e così via; e ci sono anche le grandi tematiche (il tormento del personaggio, diviso tra vendetta e giustizia, il tema della maschera e del doppio, la specularità deviante tra l'eroe positivo e gli antagonisti). L’innovazione ha invece aspetti più problematici, dovendosi misurare con un prodotto narrativo transmediale già oggetto di innumerevoli reboot, spin off, variazioni sul tema. Tra le varie scelte possibili, The Batman si inserisce decisamente nell'evoluzione che conduce dal personaggio originale e naïf creato alla fine degli anni ‘30 da Bob Kane alla variante problematica e “politica” della graphic novel Il cavaliere oscuro, di Frank Miller, e ai toni sempre più cupi assunti dal personaggio (e dai suoi nemici) nei film girati da Cristopher Nolan, che all’opera di Miller direttamente si ispirano. Da Nolan e Fincher derivano certi aspetti narrativi, figurativi e “atmosferici”, con un Cavaliere Oscuro che diventa detective oltre che giustiziere, in una sorta di incrocio tra Sherlock Holmes e Seven. Se la parte di detection costituisce la parte più debole del film (le soluzioni che “il più grande detective del mondo” dà ai macabri indovinelli dell’Enigmista non sono sempre così limpide, e, se si guarda con un minimo di distacco, i sopralluoghi dell’eroe sulle scene del crimine, mentre si aggira legnoso dentro un ingombrante costume da pipistrello, sono piuttosto grottesche), è d’altra parte anche una delle novità principali del film, in cui il superhero movie si sposa al crime. Batman combatte stavolta da una parte contro l’Enigmista, autore di alcuni efferati e scenografici delitti, ma anche contro la più prosaica mafia italo-americana, alleata e collusa con le principali istituzioni di Gotham City, dal procuratore distrettuale ai dirigenti di polizia fino allo stesso Sindaco. Si aggrovigliano così diverse linee narrative: da una parte l’esigenza di interpretare gli indizi beffardi dell’Enigmista per prevenire ulteriori crimini; dall’altra l’indagine tra mafia e istituzioni, tra talpe, doppi giochi e la scoperta di una corruzione di proporzioni inimmaginabili; da un’altra ancora il lato più propriamente action con lotte, inseguimenti, fino all’apoteosi dello scontro finale in un contesto quasi apocalittico. Il tutto disseminato di ulteriori sottotrame, dove molti sono in cerca di giustizia o di vendetta, come gli stessi antagonisti principali (Selina Kyle, alias Catwoman, è addirittura impegnata in una vendetta plurima); e dove l’indagine di Bruce Wayne sulla corruzione lo porterà a scoperte assai poco edificanti sulla propria famiglia, “sporcando” perfino l’elegiaca immagine dei suoi genitori che qualsiasi lettore o spettatore di Batman ha sempre avuto. In un film dalla durata fluviale di tre ore, d’altra parte, prestiti, rimandi e riferimenti ad altri film sono innumerevoli, e la sceneggiatura stessa si impone una notevole e poco motivata torsione facendo scivolare l’Enigmista dal ruolo di giustiziere e di fustigatore della corruzione, qual è stato per tutto il film, sia pur con metodi poco ortodossi, a quello del pazzo terrorista che vuole distruggere la città, ponendo le condizioni per un finale spettacolare e apocalittico. Apocalittico e insieme politico: mentre si profila, dopo una punizione quasi biblica, una problematica palingenesi per l’umanità di Gotham, è lo stesso Batman a maturare un cambiamento, in mezzo alle macerie e alle vittime, scoprendo una vocazione umanista che dovrebbe temperare quella di inesorabile giustiziere o addirittura quella di vendicatore. In effetti, politicamente The Batman è un film molto problematico: dando un seguito alla rappresentazione del rancore e dell'esplosiva rabbia sociale vista nel Joker di Phillips, raramente il cinema d’intrattenimento aveva espresso una così cupa sfiducia nelle istituzioni che dovrebbero difendere il vivere civile e democratico: sindaci, giudici, tutori dell’ordine, (quasi) tutti sono marci, corrotti da vizi privati e da collusioni con la peggiore criminalità. Alla cupezza ideologica e morale (Pattinson, il cui volto senza maschera si vede in realtà pochissimo, non sorride mai e ha gli occhi anneriti da occhiaie profonde a indicare il suo tormento interiore) si sposa quella visiva, in un film che inizia nella notte di Halloween, tra derelitti criminali mascherati, e che si svolge quasi totalmente in notturna, in esterni pieni di buio e di pioggia, o in interni altrettanto poco illuminati fotografati da Greig Fraser, che ha già firmato le luci di Dune. The Batman è infatti in definitiva un noir, dove gli elementi fantastici sono ridotti al minimo (la presenza di un paio di personaggi mascherati, la tuta antiproiettile di Batman e i suoi accessori), a favore di un sostanziale realismo incupito e stilizzato, dove ad esempio il Pinguino è solo il soprannome di un mafioso corpulento e goffo dalla faccia deturpata dalle cicatrici. In Italia la classificazione del film è +6 (negli Usa +13), ma sconsiglierei di portarci i bambini, a meno che non gli abbiate già fatto vedere film come Seven o simili, perché il personaggio dell’Enigmista è davvero inquietante, il finale catastrofico piuttosto angosciante e le scene del prologo, in cui si aspetta insieme ai criminali di turno che il vendicatore-pipistrello emerga dalle tenebre, fanno veramente paura, anche nel caso in cui aveste la coscienza pulita (e d’altra parte chi ce l’ha veramente? considerato che Batman terrorizza anche dei writers, che nella scala del crimine feroce non si collocano esattamente ai primissimi posti). Efficaci le scelte di cast: Robert Pattinson nasconde per la maggior parte del tempo il viso emaciato e i capelli spettinati sotto l'elmo con le orecchiette a punta; Zoe Kravitz è piccola, scattante e sexy quanto basta per una donna-gatto; Turturro da bravo italo-americano finisce nel ruolo del capo-mafia; Paul Dano ha già dimostrato in Prisoners di avere una faccia sufficientemente inquietante per interpretare l'Enigmista; Colin Farrell è assolutamente irriconoscibile sotto il mascherone del Pinguino mentre all'opposto Andrew Serkis (il Gollum de Il signore degli anelli e il Cesare de Il pianeta delle scimmie) si spoglia di ogni mascheratura e della gestualità animalesca che l'hanno reso famoso per interpretare l'impettito Alfred. Personaggi principali alla fine (quasi) tutti vivi e già pronti per il sequel. D’altra parte, come dice uno dei personaggi stessi del film, “questa città ama i ritorni”. FLEE (Flugt) di Jonas Poher RasmussenE' purtroppo di drammatica attualità Flee (fuggire) che esce in Italia a ridosso dell'assegnazione degli Oscar (dove il film vanta il primato di tre candidature in categorie differenti: miglior film internazionale, miglior film d'animazione, miglior documentario), ma soprattutto nel momento storico in cui la guerra che sconvolge l'Europa causa un immane movimento di profughi all'interno del continente e ne ripropone quotidianamente le tragiche vicende. Quella di Flee è infatti la storia (vera) di un profugo: un afgano costretto a lasciare la casa e la patria da bambino negli anni '80, dopo la vittoria dei mujaheddin e la scomparsa del padre, di cui la famiglia non avrà mai più notizie. Il percorso di Amin è costellato di abbandoni, di fughe, di viaggi (spesso in vicoli ciechi), di prigionie, di soperchierie subite, di occultamento, di menzogne per la sopravvivenza, di solitudine, di paura, di vergogna e di rimorso. L'abbandono della casa e l'addio all'infanzia spensierata, dopo il ritiro dei Russi dall'Afghanistan e l'approdo in una Russia inospitale; l'addio a fratelli e sorelle che intraprendono viaggi costosi mettendo la loro vita nelle mani di trafficanti senza scrupoli, per cercare fortuna all'estero; i lunghi mesi passati chiusi nel claustrofobico rifugio di una stanza, senza prospettive, per evitare l'ostilità del mondo esterno; i furti e le angherie subite dalla polizia russa, che approfitta di ogni occasione per depredare profughi senza diritti e senza difesa (fino a predare sessualmente le donne se non hanno nient'altro di cui essere derubate); i viaggi perigliosi, rischiando di morire come topi in mare, nella stiva di una nave, o di beccarsi una pallottola in testa dai trafficanti se si cammina troppo lentamente nella neve e si rischia di rallentare il gruppo; il sequestro e la detenzione in Estonia dopo essere finalmente riusciti a lasciare fortunosamente la Russia e la deportazione al punto di partenza dopo mesi di prigionia; l'abbandono della madre e del resto della famiglia, quando Amin è prescelto per un nuovo tentativo di raggiungere l'Europa, l'unico per cui si riesce a pagare un nuovo tentativo di espatrio illegale; le menzogne raccontate alle autorità svedesi, alle quali Amin racconta che tutti i suoi famigliari sono stati uccisi, per poter accedere allo status di rifugiato; la solitudine in un Paese straniero, solo con il rimpianto e il rimorso. E non basta ancora, perché Amin, che fin da piccolo amava indossare i vestiti delle sorelle, deve fare i conti anche con la scoperta della propria omosessualità, con il timore di venire rifiutato e rinnegato anche dai suoi stessi famigliari. Il regista danese Jonas Poher Rasmussen racconta una storia di sradicamento, di memoria, di identità labile e minacciata, attraverso le parole dello stesso Amin Nawabi (spesso inquadrato in modo da sottolinearne il senso di blocco, di imprigionamento, reale o psicologico che sia), che, raggiunta finalmente una condizione di stabilità socioeconomica, e sul punto di raggiungerla anche sul piano sentimentale, accetta di raccontare la sua storia, rivelare le sue verità e i suoi sentimenti, svelare le menzogne cui da anni ha dovuto fare ricorso per proteggersi. Nello stesso tempo le narra attraverso il linguaggio del cinema di animazione (un po' strana quindi a mio parere l'inclusione nella categoria “documentario”, visto che la realtà viene filtrata non solo dal mezzo cinematografico in sé, ma dalla vera e propria reinvenzione visiva del racconto attraverso il disegno e l'animazione), alternandolo in modo suggestivo con le riprese d'epoca, chiuse queste ultime in una dimensione ristretta dell'inquadratura, quasi per pudore o per sottolinearne la dimensione di miniature della memoria, in secondo piano rispetto alla vicenda “a tutto schermo” del protagonista. A sua volta la scelta dell'animazione sembra porre un filtro di pudore tra il racconto cinematografico e il suo contenuto, che è intimo, personale e sofferto. Se la narrazione e le tematiche sono suggestive, coinvolgenti ed efficaci, lo stile grafico-figurativo si mantiene su un piano illustrativo molto semplice, senza molte invenzioni, a parte i momenti più concitati o emotivi della storia, in cui i disegni perdono la loro nitidezza per farsi indefiniti e convulsi, fantasmi di sensazioni e di sentimenti che non possono trovare una forma compiuta e descrivibile con l'oggettività del fotorealismo. Proprio in questa alternanza tra filmati d'epoca, disegno realistico e momenti più astratti va ricercato il pregio stilistico del film, più appunto che per lo stile iperclassico riservato alla narrazione principale. BELFAST di Kenneth BranaghSummertime / And the livin' is easy / (…) / Oh, your daddy, he's rich / And your ma', she's good lookin' / So hush, little baby / Don't you cry. / One of these mornings / You're gonna rise up singing / You gonna spread your wings / And take, and take to the sky / Until that morning / Ain't nothing can harm you / With daddy (daddy) and mammy (mammy) / standing by (oh, standing by) Summertime di George Gershwin E così anche Kenneth Branagh firma la sua opera (semi)autobiografica, il suo romanzo di formazione, collocandolo nel luogo e negli anni della sua infanzia, l'Irlanda del Nord degli anni '60. Il mondo rappresentato è quello visto dalla prospettiva di un bambino, e assomiglia a quello cantato della celebre ninna nanna scritta da George Gershwin per Porgy and Bess. Il papà non sarà ricco ma ha la statura di un mito infantile (anche se è a lungo assente per lavorare in Inghilterra), la madre è protettiva e good looking (anche se è preoccupata per debiti e bollette) e niente potrà nuocere ai bravi bambini che hanno a fianco il loro papà e la loro mamma (almeno finché non saranno in grado di dispiegare le proprie ali e la propria voce e volarsene via); la strada è un affollatissimo campo per giochi inesauribili, i vicini si conoscono tutti e vivono in uno spirito solidale e comunitario (a volte ironico e salace), e il cinema spalanca abissi di meraviglia e di stupore, tanto da saturare lo schermo - altrimenti in bianco e nero - di squillanti colori che riempiono gli occhi, e di riflesso le lenti degli occhiali della nonna, di visioni inaudite. Belfast per Branagh è il paradise lost dell'infanzia, colto proprio nel momento in cui nell'Eden si insinua il serpente del Male, rappresentato dall'odio e dall'intolleranza; è l'inizio dei troubles (in paradise, per parafrasare un altro titolo letterario), quando i protestanti cominciano a pretendere con azioni violente la cacciata dei cattolici dalle strade e dalle città in cui avevano fino a quel momento vissuto gomito a gomito. Ma anche gli eventi storici e drammatici sono visti attraverso la lente deformante degli occhi e della capacità di comprensione di un bambino; che vede sconvolto il suo mondo quando passa in pochi secondo da una lotta contro i draghi in cortile alla violenza reale, concreta e distruttiva dei disordini per la strada, con uno sconcerto reso icasticamente da una doppia carrellata circolare intorno al perno di lui immobile a bocca aperta in mezzo alla via, mentre infuria una violenza inaudita e incomprensibile, e prima che il coperchio del bidone dell'immondizia con cui stava giocando si trasformi favolosamente in uno scudo effettivo con cui la mamma li ripara dalle pietre scagliate con odio. Buddy è protestante, ma senza sapere bene cosa significhi, e con un'amichetta tenta maldestramente di incasellare i propri conoscenti, un mondo improvvisamente confuso e diviso tra cattolici e protestanti, in base ai nomi di battesimo. E se il padre di Buddy - colpevole di non schierarsi con i violenti – finisce nel mirino dei facinorosi protestanti, agli occhi del bambino anche questo contrasto si risolve attraverso una fantasia in cui il papà – tra due ali di poliziotti schierati ma impassibili – affronta l'avversario in condizioni di inferiorità (disarmato contro un uomo con la pistola), ma lo sconfigge, come Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco, con tanto di Do Not Forsake Me, My Darling che risuona nell'aria per la via di Belfast. La mamma e il papà sono giovani e belli (Caitrìona Balfe e Jamie Dornan sono entrambi modelli oltre che attori) perché tutti gli eroi lo sono, partecipi della dimensione di un'epica insieme omerica e proletaria. Quelle che alcuni critici hanno preso per leziosità, superficialità e ruffiana carineria (anche il bambino protagonista, Jude Hill, ha ovviamente faccino ed espressività accattivanti, e i nonni hanno il carisma rugoso di Ciaràn Hinds e Judy Dench) a me sono parsi invece tenerezza dello sguardo, capacità e umiltà di sapersi calare nella prospettiva ingenua dell'infanzia. Se le riprese dal basso non sono proprio “ad altezza da bambino” - ma rendono comunque la prospettiva degli eventi più grandi della (propria) vita che ogni bambino ha dovuto conoscere e misurare -, resta comunque l'eco del taglio visivo teatrale di Branagh, presente in sordina perfino nella coreografia delle scene più concitate, tanto che la visione dal basso potrebbe identificarsi anche con quella dello spettatore in sala che guarda gli attori recitare sul proscenio, e la strada di Belfast potrebbe stare quasi tutta nello spazio di un palcoscenico. Branagh d'altra parte è un cineasta navigato, che si è messo alla prova sia con il cinema d'autore che con quello superomistico ( nel film c'è anche una strizzata d'occhi a Thor), sia con Jack Ryan che con Cenerentola, sia con Shakespeare che con Agatha Christie, e quindi Belfast è anche un'opera squisitamente cinematografica. Non solo nell'uso abbondante dei primi piani, o nell'ariosità conferita alle scene dai cieli d'Irlanda (suggestivi anche nel bianco e nero di Haris Zambarloukos, all'ottava collaborazione con Branagh), o nell'uso in colonna sonora delle belle canzoni di Van Morrison (anch'egli originario di Belfast), ma soprattutto nell'uso raffinato dello spazio, dove interni ed esterni si mescolano continuamente grazie soprattutto alle finestre che si aprono continuamente sulla scena, permeabili e quasi osmotici, a mescolare la vita della strada e quella della casa, la dimensione individuale e quella sociale, a comporre una dimensione domestica dove la home è tanto quella dentro le mura domestiche quanto (come più volte ripetono i protagonisti, a proposito di un possibile trasferimento in Inghilterra) quella al di fuori, della comunità e degli affetti (e dove è anche difficile mantenere un segreto). Le cose dei grandi e della vita Buddy le origlia così, volente o nolente, dalle voci dei genitori attraverso una porta aperta o la tromba delle scale, come fanno i bambini, che sembrano non ascoltare nulla e invece ascoltano tutto, rielaborano a modo loro, e spesso capiscono o intuiscono l'essenza delle questioni, nel mezzo di un'educazione sentimentale dove si mescolano le preoccupazioni domestiche e il disordine del mondo, gli insegnamenti degli anziani e gli spauracchi dei preti che minacciano la dannazione eterna, la confusione delle amicizie e l'infatuazione per la ragazzina del primo banco, cattolica, con cui a stento si riuscirà a scambiare una parola. Don't look back, è l'ultimo lascito della nonna mentre l'autobus porta via i suoi cari. E invece Buddy, e Kenneth, sono partiti, ma si sono anche voltati indietro. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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