MANK di David FincherSul numero di SegnoCinema di marzo-aprile 2021 è stato pubblicato a mia firma il saggio Citizen Mank, dove si ripercorrono la storia del rapporto tra registi e sceneggiatori, il dibattito sulla reale paternità di Citizen Kane e si analizza il film di David Fincher. Ne riporto qui un breve stralcio e vi invito alla lettura dell'intero articolo sul n. 228 della rivista. Se a dominare il discorso pubblico, critico e cinefilo sul film dei Fincher è stato inevitabilmente il prepotente aspetto metacinematografico, il tema politico, come si è già più volte accennato, è tutt'altro che irrilevante.
Scrivere Citizen Kane prendendo a modello un uomo dalla potenza industriale e mediatica come Hearst (verso il quale Mankiewicz, secondo Mank, dimostra di nutrire un fortissimo e contraddittorio legame di attrazione e di ripulsa) appare come un gesto di rivalsa politica. Persa la propria scommessa (letterale: Mankiewicz oltre che un forte bevitore era dedito al gioco d'azzardo) sul rinnovamento sociale e politico promesso da Upton Sinclair; perso l'amico Shelly, cui non ha sottratto la pistola fatale; roso dal rimorso di aver lui stesso suggerito l'uso distorto del cinema e dell'informazione a scopi ideologici e propagandistici, Mankiewicz reagisce con l'unica arma che conosce e sa maneggiare bene e che per una fortunata e straordinaria circostanza (la libertà concessa a Welles dalla Rko di girare un soggetto a proprio piacimento con collaboratori di sua scelta) gli è concesso usare: una sceneggiatura. Se pochi anni prima Gramsci nei Quaderni dal carcere rifletteva sul ruolo dell'intellettuale nella società capitalistica e nel contesto della lotta di classe, Mank mostra un intellettuale solitario e “non organico” che pure compie la propria scelta di parte, e punta il dito contro il sistema del potere economico, della stampa, del cinema (di cui Meyer e Thalberg appaiono zelanti esecutori), tutte espressioni di un'America cinica e rapace insensibili alle sofferenze della nazione fiaccata dalla Grande Depressione, in un'epoca in cui allo sfarzo del mondo della celluloide (il decennio produrrà alcune delle migliori commedie sofisticate mai realizzate), corrispondevano povertà, disoccupazione, disperazione. Sebbene James Naremore (in Orson Welles - ovvero la magia del cinema) ritenga che in Quarto potere l'elemento melodrammatico prevalga nettamente su quello politico e che la rappresentazione di Hearst e dei suoi banditeschi metodi imprenditoriali sia ampiamente edulcorata, l'establishment capitalistico (con lo stesso Hearst in testa, che pare definisse gli estimatori del film “traditori comunisti” e “non veri americani”) e quello cinematografico – legati a doppio filo - si resero conto della pericolosità del film e lo boicottarono. Mankiewicz non scrisse più alcune sceneggiatura sino alla sua morte; Welles non ebbe mai più nella sua vita la stessa libertà creativa di cui godette nella realizzazione di Citizen Kane. Schiacciato sotto il proprio peso cinefilo, difficilmente Mank verrà ricordato come un film politico; ma a Herman e a Jack, forse, non sarebbe dispiaciuto.
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AutoreRaggruppo su questa pagina alcuni articoli comparsi su Segnocinema e riguardanti film visti nel 2016 e firmati Mauro Caron. Archivi
Marzo 2023
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