AFTER LOVE di Aleem KhanAfter Love ha fatto incetta di premi ai British Indipendent Film Award e ha avuto diverse nomination ai Bafta (l'Oscar del cinema inglese), dove ha vinto il premio per la miglior interpretazione; quindi sarà senz'altro un bel film. E' stata molto lodata l'interpretazione della protagonista Joanna Scanlan (non farlo sarebbe stato politicamente scorretto, vista la fisicità eterodossa dell'attrice), ma anche l'accorta regia di Aleem Khan, regista di origini pakistane. Eppure c'è qualcosa che non mi ha convinto. Tento di spiegarmi. La storia si impernia su Mary, una corpulenta signora inglese di Dover, sposata con Ahmed, di origini pakistane, impiegato sulle navi che fanno la spola tra una sponda e l'altra della Manica, per amore del quale si è convertita all'Islam. Quando lui muore improvvisamente (pudicamente, in un piano sequenza che lo tiene distante e fuori scena), la sua vita entra in crisi, e si sconvolge ancora di più quando lei scopre che il marito aveva una relazione con una donna francese a Calais, sull'altro lato del Canale. Il film accompagna quindi Mary sulla costa francese e racconta il rapporto che si sviluppa tra Mary, Genevieve, l'amante francese, e Solomon, figlio adolescente di Genevieve e Ahmed. Khan racconta con delicatezza l'evoluzione di Mary, che passa dal dolore allo stupore, poi alla curiosità e infine al risvegliarsi di un'affettività che fa parte della sua natura buona e materna (il suo bambino è morto neonato). La macchina da presa la segue da vicino, con riprese che sono insieme di scabrosa intimità eppure rispettose e compassionevoli. Il racconto procede senza bisogno di molte parole, seguendo il torpido risveglio dell'attonita Mary, costellato da simbologie immediate e trasparenti ma efficaci, tutte intese a illustrare icasticamente il venir meno delle certezze di Mary e lo sgretolarsi della sua vita e della sua identità: la frana lungo le scogliere di Dover (bianche come il monumentale vestito a lutto che Mary indossa nella sequenza precedente), il soffitto che si crepa e si sfarina sopra di lei, il suo abbandonarsi alle onde del mare che la percuotono e la sballottano, l'immagine appannata del proprio volto da cercare di far riemergere con l'asciugacapelli al di sotto della patina di vapore che offusca lo specchio. La scoperta post mortem del tradimento di Ahmed non è difficile: l'uomo – chissà perché – aveva in tasca addirittura un documento dell'amante, con foto, indirizzo e tutto, e il suo cellulare rivela subito messaggi piuttosto espliciti e compromettenti. Ma la sospensione dell'incredulità si incrina (proprio come il soffitto di Mary), quando la donna si presenta in Francia alla porta dell'amante del marito, viene scambiata da questa per la donne delle pulizie (probabilmente anche per il suo apetto infagottato, velato e dimesso) e, senza rivelare la sua identità, senza quasi proferire verbo, senza alcuna resistenza, si lascia assumere passivamente e si mette al servizio della donna che per una ventina d'anni (!) ha condiviso part time, a sua insaputa, nel letto e nelle gioie famigliari il suo amato marito, dal quale ha avuto perfino quel figlio che a lei invece la sorte ha negato. E' vero che non battiamo ciglio se Peter Parker spara ragnatele dai polsi, ma accettare che una donna si metta a rassettare coscienziosamente la casa dell'amante del marito mi riesce quasi ancora più difficile. Eppure Kahn gestisce abilmente la situazione grazie alle ellissi, ai silenzi, alla triangolazione linguistica tra i personaggi (Mary parla con Genevieve in inglese, Genevieve con Solomon in francese, Solomon con Mary in pakistano), spesso chiusi negli ambienti domestici. Il fatto che Ahmed avesse una seconda donna (la poligamia in Pakistan è accettata, ma almeno la moglie precedente deve dare il proprio consenso al nuovo matrimonio del marito) e un figlio segreto, che la ingannasse da decenni vivendo una vita parallela e a lei ignota e preclusa, che trasgredisse ai precetti dell'Islam bevendo birra a garganella (lo si vede in un video in cui Ahmed si gode la sua second family), sembra passare in secondo piano per Mary, che forse ha trovato a sua volta una nuova famiglia. In fondo tutti amavano e continuano ad amare il buon Ahmed: Mary che ha vissuto con lui anni si suppone sereni benché fondati sulla falsità; Genevieve che ha avuto un compagno e una famiglia all'interno di un rapporto appagante ma basato sull'ipocrisia; Solomon che compensa forse con l'omosessualità l'aver avuto un padre ammirato e desiderato ma a mezzo servizio, e che mal sopporta la libertà sessuale – reale o presunta – della madre. Nell'ultima scena tutti e tre sono in cima alla scogliera, proprio sopra la frana che avevamo visto verificarsi all'inizio. Ma guardando verso quel mare che Ahmed era solito solcare quotidianamente o quasi, dove, su una sponda e sull'altra, era salutato e atteso, quasi nella speranza di vederlo ricomparire nella sua bianca divisa di ufficiale e gentiluomo. Quasi a volerci dire insomma che la vita continua, che gli affetti si riconfigurano, che una nuova strana famiglia può riformarsi, ma sotto l'egida maschile e patriarcale dell'uomo che ha elargito amore mentendo e dissimulando. Le loro vite si sono incrociate grazie all'ubiquo (onnipresente sulle due sponde della Manica), amorevole, ecumenico Ahmed, capace di soddisfare due famiglie contemporaneamente. E ora, a tenerli uniti, è il ricordo di Ahmed. Dopo l'amore, quindi, tanto amore per Ahmed.
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FINESTRE SUL(LO STRANO) MONDOIo amo il Festival del Cinema Africano, d'Asia e d'America latina perché è come viaggiare. Non nel senso più banale. Il mondo, la diversità, gli altri si conoscono viaggiando. O andando al Fescaaal (d'altra parte il Concorso principale per i lungometraggi si chiama "Finestre sul mondo"). Con una sorpresa: perché si scopre sì la diversità, a volte più sfumata a volte più radicale; ma nello stesso tempo si scopre che tutto il mondo (degli uomini, delle donne, dei bambini) è paese (degli uomini, delle donne, dei bambini). Che in fondo in fondo, oltre gli usi, oltre i costumi, oltre al modo diverso di vivere e di abitare, oltre alle religioni e alle politiche, ci sono gli stessi sentimenti, desideri simili, la sofferenza, la speranza. Haiti è uno dei posti più sfigati del mondo, oppresso da dittature, violenze di ogni genere e livello, tifoni, terremoti tra i più devastanti a memoria umana. Come si può vivere in un posto del genere? Eppure Freda ci mostra una giovane eroina impavida e resiliente, dal viso intelligente e dai capelli crespi a palla, capace di resistere, di lottare per un futuro migliore per sé, per i suoi cari e per il suo Paese. Una naturalezza e una vitalità della narrazione tutt'altro che ingenua o scontata, interpreti all'altezza, per uno dei film a mio parere tra i migliori del festival. Studenti che lottano contro la povertà e la corruzione, per un futuro individuale, sociale e politico migliore sono al centro anche del centrafricano Nous, etudiants!, tra documentarismo e presa diretta sul reale. Forse sarebbe stato meglio un corto o mediometraggio, ma il regista ha passato dei guai dopo la proiezione del suo film a Bangui, quindi evidentemente con la sua denuncia sulla corruzione imperante ha toccato qualche nervo scoperto. Studentesse e corruzione anche in The Exam. A Erbil, nel Kurdistan iracheno, una giovane donna sposata con figlio cerca di comprare gli esami di ammissione all'università per la sorella, depressa dopo una delusione d'amore che l'ha portata sull'orlo del suicidio e per nulla interessata a studiare. La storia mostra cosa succede quando la corruzione penetra nell'anima della gente comune: ma come nei film di Panahi un evento apparentemente circoscritto allarga i suoi effetti a cerchi concentrici fino ad esiti devastanti e imprevedibili. Possiamo dire di saperne qualcosa. Mondi decisamente più alieni quelli in cui ci fa entrare invece il cinema asiatico in concorso. Children of the Mist ci porta in Vietnam, dove tra la montanara etnia hmong vige la simpatica abitudine, verso Capodanno, di rapire ragazze giovanissime scopo matrimonio, a metà tra ratto delle Sabine e fuitina. La tredicenne protagonista non ci sta e rifiuta il matrimonio, e anche la giovane autrice del documentario prova la rabbiosa tentazione di lasciare giù la cinepresa e balzare dentro la realtà per difendere l'amica. Un ragazzo con una t-shirt con scritto Paradise si sveglia a Tacloban in un inferno di devastazione, nelle Filippine sconvolte dal tifone Yolanda nel 2013. Ma Wheter the Weather Is Fine vuole tirare lo spettatore dentro il senso di smarrimento e di spiazzamento del suo protagonista e il regista inzeppa il suo film di incontri e particolari grotteschi e incongrui, dove il realismo del contesto si contrappone alla surrealtà delle situazioni. Ben due film sono ambientati nella Colombia degli anni '90 disarticolata da guerra civile, violenza e guerriglia. El arbol rojo mette on the road (o meglio en la caretera), un burbero signore, un'inaspettata sorellina e un giovane aspirante pugile. Lungo il migliaio di chilometri e i 2640 metri d'altezza che separano Rincon del Mar da Bogotà i tre casuali compagni di viaggio impareranno a conoscersi ed apprezzarsi. Amparo si impernia invece tutto sulla figura della protagonista, impegnata allo spasimo nelle poche ore a disposizione per tentare di salvare dall'arruolamento forzato e dalla probabile morte il fragile figlio adolescente. Diversi modelli e stili: il primo segue uno schema classico che ha precedenti anche nello stesso continente latinoamericano (come Central do Brasil e Las acacias, ma a volte sembra un po' anche Pechino Express); il secondo adotta la tecnica del pedinamento alla Dardenne, stando addosso alla sua protagonista, intensa ma un po' monocorde, in mezzo a interpreti non professionisti. Come fosse una fusione dei due precedenti, troviamo un altro ritratto femminile (e un'altra madre) in Soula, ambientato in un'Algeria inaspettata percorsa da una ragazza madre tra incontri con prostitute e spacciatori, tra alcol, droga e feste da sballo. Dialoghi credibili inseriti in una gabbia stilistica autoimposta che fa sì che la macchina da presa non si allontani mai dalle vetture in cui si svolge la narrazione. Un tour de force stilistico che non inficia però l'efficacia della narrazione, che si indebolisce un po' solo nel finale. I deserti astratti di Gibuti fanno da sfondo in The Gravedigger's Wife al viaggio di un marito amorevole che torna al suo villaggio (dopo esserne stato cacciato per un matrimonio osteggiato) per trovare i soldi per curare la moglie malata, mentre il figlio nel suo piccolo cerca di essere d'aiuto. Una storia d'amore e malattia che ha vinto molti premi nel mondo. Il boliviano 98 segundos sin ombra è forse uno dei film meno necessari del concorso. Al centro un'adolescente alla ricerca di se stessa tra una famiglia disfunzionale, l'educazione religiosa dalle monache, la ricerca delle trasgressione insieme alle amiche coetanee, esperienze mistico-erotico-sentimentali e desiderio di fuga. Una curiosità la presenza di Geraldine Chaplin nella parte della vecchia nonna. Rimane da dire dei quattro film che ho visto fuori concorso, varie declinazioni di ibridazione (geo-culturale e cinematografica) e del tema dell'autodifesa attiva contro un mondo violento (in due casi su tre). Il festival si è aperto con Twist a Bamako, con il quale Robert Guédiguian si è momentaneamente autoestirpato dalla sua Marsiglia, in cui la sua vita e la sua cinematografia sono radicate in modo profondo, per trasferirsi in altra epoca e altro continente. Ambientato tra l'euforia e le speranze nate in Mali dopo la conquista dell'indipendenza, e con un cast totalmente africano più giovane rispetto agli standard di Guediguan, il film si mimetizza perfettamente nel bene e nel male con lo stile e il ritmo dei film del Continente nero, con un'adesione totale dell'autore dove sono davvero pochissimi gli indizi che possono far sospettare una mano e un occhio europei dietro la macchina da presa. Musica, amore e politica per raccontare dell'ennesima rivoluzione mancata, quando il senso di libertà (anche di costumi) e la sensazione di poter progettare e lavorare a costruire un mondo nuovo e socialista, cioè più giusto e razionale, naufragano contro gli ineludibili scogli della realtà e di una politica costretta ai compromessi. Stesso tema comune ma multiculturalità programmatica per The Year of Everlasting Storm, che raduna una manciata di corti firmati da vari registi in giro per i continenti. Tema comune la pandemia e il lockdown: c'è chi la butta sull'astrazione, chi va fuori tema, chi si dà al racconto autobiografico, chi compone un vero racconto breve e chi si concede un home movie. Proprio in questo campo si colloca l'episodio più accattivante, in cui il regista iraniano Jafar Panahi (peraltro osteggiatissimo in patria) racconta di una visita della vecchia madre, che si presenta in tuta integrale protettiva e finisce con familiarizzare con l'iguana di famiglia. Compatto produttivamente e tematicamente, Assault adotta la chiave di una sostanziale unità di tempo (le 35 ore precedenti l'”assalto”), di luogo (una scuola e una stazione di polizia isolate in una landa coperta di neve) e d'azione (la preparazione dell'assalto, con relativi prologo ed epilogo); ma l'ibridazione è in questo caso tutta nella commistione dei generi cinematografici, in un miscuglio godibile (che ricorda un po' il norvegese In ordine di sparizione). Un gruppo di terroristi senza volto e senza motivazione dichiarata si impadronisce di una scuola; a cercare di liberare i ragazzini imprigionati all'interno sarà un manipolo di sconclusionati dipendenti dell'istituto (preside, insegnanti, custode), tra i quali ci sono pure ubriaconi sedicenti reduci dall'Afghanistan e ritardati mentali, oltre ad un attempato poliziotto e a una mamma angosciata. Ibridazione a 360° gradi infine nel film di chiusura, Kung Fu Zhora. Un racconto di (letterale) empowerment femminile, dove una donna impara a difendersi dalle violenze domestiche di un marito che sembrava innamorato e si è rivelato manesco e autoritario. Lei viene da uno ksar maghrebino, lui è l’esponente di una cultura araba machista, ma la coppia vive nella Francia della società aperta, e ad aiutare la donna ad impadronirsi delle tecniche di combattimento orientali sarà l’anziano cinese custode notturno di una palestra. Alla contaminazione geografico-culturale si assomma quella dei generi cinematografici, in un film è che è un po’ ritratto di una donna e racconto di sorellanza, un po’ dramma famigliare, un po’ kung fu movie (gli amanti del genere non lascino assolutamente la sala prima dei titoli di coda) e un po’ commedia nera (il film era l’unico rappresentante della rassegna “E tutti ridono”). Insomma, l’autodifesa violenta può essere lecita per difendersi e farsi rispettare dai violenti? Un tema quanto mai d’attualità in questi tristi tempi di guerra all’interno del quale un Festival dedicato alla conoscenza e al rispetto tra mondi e culture si è trovato purtroppo e suo malgrado a svolgersi. I film della sezione Finestre sul mondo:
I film della sezione "Flash"
TUTTI I PREMI DELLA 31a EDIZIONEChiude i battenti (con la promessa solenne di rivedersi l'anno prossimo) la 31a edizione del FESCAAAL, il Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina. Il festival come di consueto comprendeva tre sezioni competitive, Finestre sul mondo, con lungometraggi provenienti dai tre continenti, i Cortometraggi africani e Extr'a, dedicato ad opere di autori italiani girate in Italia e all'estero e dedicate ai temi della multiculturalità, delle migrazioni, ecc. Molto ecumenico il giudizio della Giuria Ufficiale, composta da Mario Brenta e Karine de Villers (Presidenti), Sonia Bergamasco e Prasanna Vithanage, che dovendo assegnare il premio Città di Milano per la sezione Finestre sul Mondo ha scelto di attribuire due primi posti ex-aequo e due menzioni speciali. Una di queste ultime è stata assegnata a Nous, étudiants! di Rafiki Fariala (Repubblica Centrafricana, Francia, Repubblica Democratica del Congo, Arabia Saudita), spaccato tra spontaneità e documentarismo della condizione degli studenti universitari nella RCA, tra povertà, lavoretti per mantenersi agli studi, denuncia della corruzione negli atenei (specchio di quella più ampia di tutta la società) e speranze nel cambiamento e nel futuro. Idea forse più adatta per un corto o mediometraggio, ma colpisce che il regista non abbia potuto essere presente al festival per i problemi avuti dopo la proiezione del suo film a Bangui. Evidentemente la sua denuncia ha colpito nel segno. Meritatissima la seconda sezione a Freda di Gessica Généus (Haiti, Francia, Benin), a parere di chi scrive forse il film più bello tra quelli in concorso. Curiosamente presenta qualche analogia con il precedente, anche se stavolta il linguaggio adottato è quello della fiction (ma con qualche sequenza di disordini presa dal vero): anche qui la protagonista è una studentessa universitaria, rappresentante in prima persona dell'insofferenza dei giovani haitiani di fronte ad una società corrotta che lascia loro intravedere poche speranze per il futuro. Personaggi tutti ben disegnati e credibili, temi politici, sfondo sociale rappresentato con acume ed efficacia, grande fluidità, naturalezza e vitalità della narrazione (tutt'altro che ingenua), interpreti perfettamente adeguati. Si dividono il premio principale altri due ritratti femminili, provenienti dall'America Latina e dal Maghreb. Il primo è Amparo, di Simón Mesa Soto (Colombia, Svezia, Qatar) , dove una donna, nella Colombia squassata dalle lotte intestine, lotta ostinatamente e con il tempo contato per salvare il proprio fragile figlio adolescente dall'arruolamento forzato e dal suo invio in zona di guerra. Meccanismo narrativo e pedinamento in stile Dardenne, con la protagonista inseguita nei suoi lucidamente disperati pellegrinaggi; il regista tenta di convertire in stile l'uso di attori non professionisti, ma a volte lo sforzo si fa avvertibile nell'impassibilità dei personaggi e in una certa uniformità di tono della narrazione. Analogia anche tra i film premiati ex-aequo: anche Soula di Salah Issaad (Algeria, Francia, Qatar, Arabia Saudita) infatti si svolge in un arco di tempo ristretto (14 ore), seguendo la propria antieroina, una ragazza madre scacciata dai genitori, ma tutt'altro che sprovveduta, lungo le strade di un'Algeria inaspettata, tra una gioventù dedita alla prostituzione, all'alcol, alla droga e alle feste da sballo. Il finale tragico è inventato, ma la storia è vera e l'interprete è la stessa che ha vissuto la vicenda nella vita reale. Il regista si autoimpone un limite narrativo-stilistico, obbligandosi a non allontanare mai la macchina da presa dagli abitacoli o dagli immediati dintorni delle varie vetture in cui, o nei cui pressi, si dipana la vicenda. A volte la scelta può sembrare un po' forzata, ma il tour de force stilistico possiede una propria efficacia e i dialoghi e le vicende sono verosimili e credibili. Il pubblico ha preferito invece un film decisamente più convenzionale indicando El arbol rojo, road movie, ambientato anch'esso (come Amparo) nella Colombia degli anni 90, che racconta la conoscenza, la solidarietà e l'affetto che si forma tra uno strano terzetto di viaggiatori composto da un uomo in età che scopre improvvisamente di avere un'inaspettata sorellina e di un giovane aspirante pugile. La Giuria Giornalisti italiani, composta quest’anno da Paolo Baldini (presidente), Andrea Chimento e Sara Manisera, ha assegnato, invece, il Premio per il Miglior cortometraggio africano e il Premio per il Miglior Film del Concorso Extr’a. Nella sezione cortometraggi (leggete qui la mia rassegna completa) ineccepibile il primo premio assegnato a Will My Parents Come to See Me di Mo Harawe (Somalia, Austria, Germania), dolente e doloroso racconto delle ultime ore di un condannato a morte in Somalia. Uno sguardo sobrio, apparentemente impassibile, sia quando inquadra il protagonista in primo piano sia quando cerca una distanza di rispetto dai personaggi e dagli avvenimenti. Ma è in realtà un cinema umanistico e tutt'altro che impietoso, sostenuto da una limpidezza di sguardo eccezionale, che restituisce non uno ma, inaspettatamente, due ritratti umani impregnati di dolore e di solitudine. Ottima anche la scelta di Astel di Ramata-Toulaye Sy| (Senegal, Francia) per la prima delle due menzioni speciali. La maturazione (che non porta però a maggiore indipendenza, ma al contrario ad una riduzione degli spazi di azione e di libertà) di una ragazzina dedita alla pastorizia in un isolato villaggio del Senegal viene raccontato nell'arco di pochi giorni condensati in pochi minuti di narrazione, con efficacia, naturalezza e quasi senza bisogno di parole. Ancora due giovanissime al centro di Chitana di Amel Guellaty (Tunisia, Qatar, Norvegia), dove due bimbe si allontanano dalla casa materna per un'avventura nel bosco. Una fiaba in cui si mescolano avventura e paura, scoperta e smarrimento. Il corto è piaciuto anche alla giuria del Premio Multimedia San Paolo/Telenova. Un altro bambino, raccontato nel momento del distacco dalla propria casa, dalla propria madre, dal proprio Paese e dalla propria infanzia, per seguire in padre emigrato in Francia, è al centro del corto Le départ di Saïd Hamich (Marocco, Francia), bello pur con qualche acerbità, cui è stato assegnato il premio Cinit. Una scelta abbastanza radicale invece quella degli studenti che hanno assegnato il premio del MiWY (MiWorld Young Film Festival, festival nel festival molto opportunamente dedicato al mondo della scuola), che hanno scelto un'opera dura nel tema e innovativa nella forma come il cortometraggio Angle mort (Tunisia, Francia), storia di un uomo torturato e ucciso in carcere, ma mantenuto “in vita” dall'apparato statale di Ben Ali, che per nascondere i propri misfatti lo processerà e lo condannerà post mortem. Una storia vera raccontata da Lofti Achour con un'animazione aspra che trasfigura il realismo fotografico. Docenti e pubblico scolastico hanno premiato inoltre per il suo valore pedagogico e interculturale Neighbours, di Mano Khalil (Kurdistan, Svizzera), già pluripremiato in altri festival.
Nel concorso Extr'a trionfa invece Mother Lode di Matteo Tortone (Italia, Francia, Svizzera), cui la giuria ha riconosciuto una “straordinaria maturità narrativa e stilistica” per raccontare di “un viaggio in Sud America carico di simbolismi e suggestioni”; “una vera e propria lezione di (grande) cinema, un’esperienza multisensoriale valorizzata da un bianco e nero di grande fascino”. Due menzioni speciali assegnate anche in questo caso: ad Amuka di Antonio Spanò (Congo, Belgio, Italia) e a Rue Garibaldi, di Federico Francioni (Italia, Francia). Leggi la rassegna critica di Into the Wonderland: AFRICA OGGI: THE SHORT CUTSSuperata la boa alla metà del percorso del Festival del Cinema Africano, d'Asia e d'America latina che si sta tenendo a Milano, si può già cominciare a tentare un bilancio del concorso dedicato ai cortometraggi africani, 11 film short cut provenienti da diversi Paesi del continente. Il cortometraggio è un'eccezione nella “normale” fruizione cinematografica. La sua eccezionalità, a parità (almeno in proporzione) di tutti gli altri elementi tecnico-linguistici-produttivi, è ovviamente la durata. Il tempo della durata deve a sua volta misurarsi con il tempo del e nel racconto. Cosa, quanto e come si racconta in un film di una ventina di minuti? Proverò a leggere la selezione (di grandissima qualità e interesse) dei cortometraggi africani partecipanti al Festival proprio in relazione alla concezione del tempo contenuta in ciascuna di essi. In BLIND SPOT (Angle mort, Tunisia, 14') Lotti Achour racconta di un paradossale tempo post mortem, quello appunto successivo al decesso di un detenuto nelle carceri della Tunisia di Ben Ali. Ispirato ad una vicenda reale, raccontato con una tecnica che distorce e sporca il realismo fotografico con un'animazione dai toni aspri e quasi acromatici, il film fa raccontare direttamente alla voce off (off of the world) del protagonista la propria vicenda: morto sotto tortura all'inizio del cortometraggio, ma “tenuto in vita” dai depistaggi messi in atto dal governo per nascondere i fatti, che lo fa credere ancora vivo e gli fa subire un processo e una condanna anni dopo il suo decesso, mentre la madre mendica inutilmente notizie sulla sua sorte (non riuscirà mai a sapere neppure dove si trovano i suoi resti). Un racconto doloroso, che richiama alla mente tragici episodi a noi ben noti come quelli di Stefano Cucchi o di Giulio Regeni. Una situazione in parte analoga, legata alla detenzione e alla morte di un giovane uomo, è quella narrata da WILL MY PARENTS COME TO SEE ME (Somalia, 28'). Mo Hatawe iscrive il proprio racconto dentro una bolla temporale, quell'intervallo allucinato e irreale vissuto da un condannato a morte in attesa dell'esecuzione. Una narrazione asciutta e penetrante, di esemplare incisività e sobrietà, capace di raccontare (quasi senza bisogno di dialoghi) la terribile solitudine del condannato ma anche, in un raffinato gioco di piani visivi, quella raggelata della sua carceriera. Il tempo della partenza e del distacco è presente sia in CAI-BER (Egitto, 17') che in THE DEPARTURE (Le depart, Marocco, 25'). Nel primo Ahmed Absalam racconta le concitate ore e i relativi contrattempi prima della partenza dal Cairo alla volta di Berlino di una giovane donna, ben determinata a rompere i ponti con i suoi legami, con il suo presente senza prospettive, e con un Paese oppressivo e corrotto. Un tempo serrato, dove i minuti contano per decidere del proprio futuro, contrapposto al tempo elegiaco del secondo, dove è invece un bambino a dover dire addio al suo paese, ai suoi amici, a sua madre, e alla sua infanzia, per seguire il padre e il fratello maggiore emigrati in Francia. Said Hamich compone un delicato racconto basato sul sentimento del tempo e del distacco, dove il presente si fa già memoria nell'atto stesso di venire vissuto. E' già esule in terra islandese la madre protagonista di ON THE SURFACE (Mali, 4'), una sorta di poesia animata dedicata alla propria bambina firmata da Fan Sissoko. Un tempo letteralmente sospeso, sulla superficie dell'acqua nella quale nuota e si immerge la protagonista, illustrato da un'animazione rarefatta e minimalista, ma precisa e ricca di suggestione. Viceversa, è confinata in uno spazio domestico, enunciato fin dal titolo HOME (Imuhira, Ruanda, 12'), la vicenda di una giovane moglie maltrattata, che cerca inutilmente rifugio, conforto e solidarietà nella casa materna. Myriam Uwiragiye racconta di un tempo bloccato, probabilmente sprecato, dove l'immersione nelle acque di un fiume della protagonista assume un significato opposto, privo di fuga e di futuro, anticonsolatorio, rispetto a quella del film precedente. Si allontanano da casa, all'opposto, le due piccole protagoniste di CHITANA (Tunisia, 19'), per sperimentare un'avventura nel bosco, tra animali e presenze ambigue, dove il senso della libertà e dell'avventura si mescolano - in un tempo sospeso e fiabesco e in uno spazio (la foresta) lontano dalla rassicurante e opprimente protezione domestica - a sentimenti spiacevoli come la paura e lo smarrimento. Amel Guellaty mette la sua piccola eroina a confronto con un presagio di un altro tempo, quello dell'età adulta che verrà. Racconta il tempo della crescita, del passaggio da un'età della vita all'altra, condensato in una manciata di fatidici giorni, ASTEL (Senegal, 17'). Una giovane pastora senegalese è costretta a confrontarsi con il fatto di diventare grande, di entrare in un mondo improvvisamente sessuato, con la conseguenza di doversi sciogliere dal rapporto con l'amato padre (ma anche con la natura e con gli spazi aperti della libertà e dell'avventura) per venire risospinta in un mondo materno e femminile, più ancillare e confinato. La regista Ramata-Toulaye Sy imposta una narrazione suggestiva eppure precisa, che non ha quasi bisogno di parole per essere compresa. E' un tempo fratturato, tra un prima e un dopo, tra un tempo in cui c'è un bambino e quello in cui non c'è più, quello raccontato in KHADIGA (Egitto, 20'). Al centro un atto atroce e cristallizzato, inspiegabile e ingiustificato. Morad Mostafa segue la sua giovane madre protagonista scrutandone il viso a distanza ravvicinata, mettendone in luce le asperità della pelle, ma senza riuscire a scalfirne l'anima. Tra pedinamento dardenniano e raggelante distanza, il film riecheggia nelle sue tematiche quelle di uno dei lungometraggi in concorso, l'algerino Soula. HOT SUN (Jua Kali, Kenya, 18') gioca invece su un tempo segnato dalla ripetizione e dall'alienazione, quello delle domestiche che cercano di porre rimedio al disordine e alla sporcizia che per i loro datori di lavoro ricchi sono quasi una dimostrazione di privilegio e uno status symbol.
Alla routine quotidiana raccontata da Joash Omondi si contrappone la straordinarietà del tempo raccontato in SO WHAT IF THE GOATS DIE (Qu'importe si les betes meurent, Marocco, 23'). Il tempo senza tempo, ma in bilico tra passato e presente, del deserto marocchino, in cui, malgrado si compulsino gli smartphone, ci si sposta ancora a dorso di cavallo, si incrina e si sbilancia davanti a un fatto straordinario che spalanca le porte di un futuro ancora indecifrabile. Sofia Alaoui dirige il film forse più inaspettato del concorso, una sorta di versione in sedicesimo (in termini di durata e di dimensioni produttive) e declinato in chiave etnica e minimalista (ma non priva di ambizioni nello stile di ripresa) de La guerra dei mondi spielberghiana... Leggi anche: |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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