PINOCCHIO di Matteo GarroneCi si può chiedere perché aggiungere nel 2019 un altro tassello al multiverso intitolato a Pinocchio (che abbraccia letteratura, illustrazione, pittura, cinema, animazione, musica, danza, musical, teatro, ecc.) a quasi 140 anni dalla sua pubblicazione in volume. Non stupisce (più) invece la scelta del soggetto da parte di Matteo Garrone, che prosegue quella linea che già l'aveva portato dal realismo o iperrealismo dei film precedenti (e dal successivo Dogman) alla rivisitazione della favolistica italiana con il sorprendente Lo cunto de li cunti, che ne esplicita e ne dichiara l'interesse per una dimensione del fantasy che sembra escludere qualsiasi relazione con la realtà e l'attualità. Il tornare a Pinocchio è il segnale di una tentazione non episodica per il fantastico, e in particolare per una linea nera della fiaba italiana. Si scopre così, tra parentesi, che la dicotomia ipotizzata da pubblico e critica tra un Garrone verista e sociologico e un Sorrentino visionario e felliniano, è infondata e tutta da correggere e ridefinire. Tutto il cinema di Garrone, apparentemente improntato ad un realismo attento al sociale, può essere riletto nella chiave di una fiaba nera. Il racconto della realtà dell'Italia contemporanea ha adottato in effetti una stilizzazione che ne mette in luce elementi che, astratti dal contesto, appaiono quasi fantastici: si pensi, solo per fare un esempio, ai camion per lo smaltimento dei rifiuti tossici guidati dai bambini in Gomorra. Non solo, nella sua opera, e non solo nelle creature fantastiche e mostruose de Lo cunto, sono qua e là rintracciabili i semi germinali che l'hanno poi condotto a sviluppare il progetto Pinocchio: dai prodromi di Geppetto presenti ne L'imbalsamatore (dove Peppino costruisce simulacri di esseri viventi partendo dalla materia inerte e morta) e in Primo amore (dove un orafo modella perversamente il corpo della propria amante come se fosse un suo pupazzo); a quelli di Pinocchio presenti in Gomorra, dove Marco e Ciro sono due burattini sfuggiti ai fili della camorra, che vengono attirati in un falso Campo dei Miracoli per essere puniti ed eliminati. O ancora, quel Marcello di Dogman, figura paterna celibe e debole – cioè un altro Geppetto - alle prese con quell'incontrollabile golem rappresentato da Simone. Le stesse location, per quanto reali e realistiche, assumono ne L'imbalsamatore e in Dogman una potenza fantastica e impressionistica, mostruose quinte teatrali di favole nere. E' logico, date le premesse, che dalla rivisitazione garroniana dell'opera di Collodi non c'era da aspettarsi un film natalizio per bambini (sarebbe interessante conoscere l'età del pubblico che ne ha decretato comunque il successo al box office festivo): Pinocchio si svolge in un mondo povero, cupo e livido (la luce del sole pieno non si vede quasi mai, mortificata anche dai controluce in luce diurna), abitato da bambini monelli-vittime e da vecchi pericolosi o punitivi, o da esseri animaleschi o mostruosi; quasi completamente disertato dalle figure materne o femminili (con l'eccezione della Fata dai capelli turchini, essere talmente astratta e desessualizzata da essere di volta in volta bambina o adulta, morta o viva). Pinocchio è essenzialmente un film manierista nella rappresentazione e tenacemente fedele al funereo (falso?) moralismo collodiano, là dove esso incrocia la sua poetica d'autore. La ricezione da parte del pubblico, da quanto ho potuto capirne schematizzando le reazioni apparse sui social, si possono di conseguenza dividere tra quanti hanno ammirato la raffinata eleganza di una messa in scena azzeccata, originale e inventiva (in cui all'impronta visiva progettata e fortemente da Garrone hanno concorso la fotografia di Nicolaj Brüel, la scenografia di Dimitri Capuani, i costumi di Massimo Cantini Parrini, il trucco di Mark Coulier), e quanti invece hanno lamentato la freddezza di un film cupo e apparentemente senz'anima. Questione di gusti, di sensibilità, di angolazione di lettura. Quello che mi sembra certo è che sbagliano quelli che pensano che il Pinocchio di Matteo Garrone (forse andrebbe scritto così, come se titolo e autore fossero un tutt'uno) sia un'opera senza personalità; al contrario, è un film - piaccia o meno - profondamente inciso nella poetica dell'autore, presente allo stato di latenza nella sua filmografia, anche se forse irriconoscibile e inaspettato sino alla sua rivelazione in un film compiuto. Se i film precedenti di Garrone erano spesso dei noir raccontati come delle terribili fiabe per adulti, Pinocchio è specularmente una fiaba declinata (anche nei suoi aspetti blandamente umoristici) secondo le sfumature del noir. Per chi fosse interessato ad un eventuale ulteriore approfondimento, ne riparlerò più diffusamente sul numero 222 di SegnoCinema, nelle librerie nel mese di marzo.
0 Commenti
UN GIORNO DI PIOGGIA A NEW YORK (A Rainy Day in New York) di Woody AllenL'ennesimo film di Woody Allen. Certo che sì, grazie al cielo. Sinceramente non capisco quelli che dicono che Allen fa sempre lo stesso film. La trovo un'affermazione priva di senso riferita a uno che ha fatto commedie ai fratelli Marx o drammi alla Bergman, che si è ispirato a Dostoevskij piuttosto che a Cechov, imitato l'espressionismo tedesco o provocato brividi caldi con noir all'inglese. Che abbia invece una sua poetica, e che la proponga in diverse declinazioni, mi sembra non solo naturale ma anche desiderabile. Che questa poetica si evolva nel tempo mi sembra altrettanto naturale. Una cosa mi colpisce, che collega Un giorno di pioggia a New York all'altro titolo di Allen in cui compariva un riferimento alla “sua” città - mi riferisco ovviamente a Manhattan. In quel film, Isaac, di fronte agli “insolubili e terrificanti problemi universali” si interroga su quali siano, almeno per se stesso, i motivi per cui valga comunque la pena vivere. Prima di arrivare, a sorpresa, a “il viso di Tracy”, che tenterà di raggiungerne per cercare inutilmente di scongiurarne la partenza, Isaac elenca una serie di motivazioni eminentemente culturali: Groucho Marx, Joe Di Maggio, i film svedesi e L'educazione sentimentale di Flaubert, la Jupiter di Beethoven, Potato Blues di Armstrong, Sinatra e Brando, le mele e le pere di Cezanne, i granchi di un ristorante neyorchese... Il Gatsby di Un giorno di pioggia e gli altri personaggi del film (declinazioni differenti dell'ego alleniano con un pizzico dell'ater ego dianekeatoniano) di motivi per vivere sembrerebbero averne a sufficienza: una relazione amorosa in corso, la giovinezza, la bellezza, la cultura, l'educazione, il cinema, il jazz, il talento, il successo, il denaro. Eppure nessuno di loro può definirsi felice. Lo snobismo culturale di Gatsby - che come il suo omonimo narrato da Scott Fitzgerald, un autore con cui Allen si era già confrontato in Café Society, si troverà a confrontarsi, in maniera traumatica, inaspettata e indesiderata, con l'oscurità delle proprie umili origini – così come il vitalismo della sua fidanzata Ashleigh, sono anch'essi, per quanto l'uno in chiave drammatica, l'altra in chiave di commedia sexy, sotto il segno dell'insoddisfazione, della disillusione e dello scacco. Un giorno di pioggia è ancora un tipico film di Allen, pieno di gusto, di umorismo, di battute fulminanti e memorabili, e Ashleigh (l'adorabile sciocchina interpretata da Elle Fanning) e Gatsby (il giovane aspirante tenebroso con il volto di Timothée Chalamet) entrano di diritto nella galleria dei personaggi riusciti dell'universo alleniano. Forse quello che viene un po' a mancare è la verve (Woody ha compiuto questo mese 84 anni), e la morale amara del film si percepisce più distintamente malgrado l'andamento leggero, lo humor e l'happy end dolceamaro. Ancora una volta, come Isaac, Gatsby si incontrerà con la ragazza che forse un motivo per vivere (il volto di Tracy, il bacio di Shannon) potrebbe esserlo davvero. Che forse potrebbe salvare dallo spleen, dal senso di vuoto che null'altro serve a colmare. O per lo meno, com'è forse più probabile e come Allen sembra suggerire, fornire semplicemente una nuova illusione. In Manhattan, Isaac non riusciva a trattenere Tracy. In Un giorno di pioggia, Gatsby viene insperatamente raggiunto da Shannon ad un vago appuntamento. Ma se le avventure casuali e caotiche vissute da Gatsby da una parte e da Ashleigh dall'altra sembrano rimandare al Fuori orario (After Hours) di Scorsese che rivelava il lato notturno e selvaggio della vita nascosto dietro il paravento della normalità e dell'ordinarietà, e se l'improbabile appuntamento di Gatsby e Shannon sembra citare il melodramma di Un amore splendido (An Affair to Remember) di McCarey, Un giorno di pioggia sembra svolgersi e concludersi sotto l'egida dello scrittore austriaco Arthur Schnitzler, che inventò la psicanalisi in letteratura mentre Freud la inventava come scienza dell'interpretazione. E' forse quindi un Doppio sogno quello vissuto da Gatsby e da Ashleigh, è un Girotondo quello che li vede passare rispettivamente da un un incontro femminile all'altro e da un incontro maschile all'altro, per trovarsi alla fine ancora illusoriamente insieme, eppure divisi dalla rivelazione di se stessi con cui entrambi hanno dovuto confrontarsi. Ed è ancora un'amara, ironica e disincantata ronde quella sotto la quale Gatsby e Ashleigh si scambiano un bacio e una promessa per il futuro. Una ronde formata da buffi animali musicanti che girano in tondo... Ma di questo parlerò più diffusamente sul numero 221 di SegnoCinema, in libreria a gennaio... L'ETA' GIOVANE (Le jeune Ahmed) di Jean-Pierre e Luc DardenneNon c'è una sola sequenza (e in proporzione ben poche inquadrature) in cui il giovane Ahmed non sia presente in scena, coerentemente con la poetica del pedinamento che identifica il cinema dei Dardenne. Ben più preciso quindi appare il titolo originale (Le jeune Ahmed) rispetto al più generico e fuorviante titolo italiano. Lo schema dei Dardenne è consolidato: mettere al centro della narrazione un protagonista (spesso di giovane età) alle prese con un sistema socioeconomico ostico e ostile, e mostrane le deviazioni e gli errori (spesso disperati e in genere ingenui e mal congegnati tentativi di sopravvivenza), che li portano verso una caduta morale, da cui alla fine riescono a risollevarsi, in un impeto di speranza umanistica in una naturale bontà – o comunque capacità di redenzione - dell'animo umano. Il loro cinema non indulge tuttavia mai – e non succede neppure stavolta – al facile moralismo, alle scorciatoie del cosiddetto buonismo, agli schematismi ideologici, al pietismo o alla retorica. Non solo, i loro sono film che non cedono neppure all'estetismo (che non sia la sottile geometria morale che mettevo in evidenza a proposito di Due giorni e una notte) o alla retorica degli effetti o degli affetti. Niente musica extradiegetica, riprese a mano, ambienti estremamente realistici, fisicità dei corpi e una pregnanza narrativa che si fa immediatamente etica (recuperando terreno rispetto al risultato sottotono de La ragazza senza nome). Stavolta a far da contesto negativo e ostile non cè come spesso altrove il sistema capitalistico e neoliberista, ma l'apparato ideologico dell'Islam radicale e antioccidentale. Ahmed, stregato dall'insegnamento di un iman (che getta il sasso dell'odio culturale ma ritira la mano davanti alle possibili conseguenze del suo insegnamento e dell'incitamento all'odio e al diprezzo), progetta di uccidere la sua giovane insegnante in nome di una concezione adolescenziale del jihād. I Dardenne fanno di tutto per mettere il giovane Ahmed, riccioluto e occhialuto come un normale adolescente nerd - dalla parte del torto, facendogli scegliere per bersaglio una giovane insegnante benintenzionata, che l'ha aiutato ad uscire dalla dislessia, e rispetto alla quale il principale motivo del contendere, che la fa qualificare come un'apostata che mette a rischio la cultura mussulmana, è il suo proposito di insegnare ai suoi allievi un po' di arabo moderno (anche con l'aiuto di canzoni), utile a destreggiarsi nelle necessità della vita quotidiana, oltre che a quello antico (ma ortodosso) che viene appreso con la lettura del Corano. Ad Ahmed vengono concesse solo delle attenuanti generiche (l'assenza di un padre, una madre passata attraverso problemi di alcolismo, una sorella troppo disinvolta per i suoi standard integralisti), mentre a nulla servono gli influssi positivi che su di lui tentano di esercitare la madre, la sorella, gli insegnanti, gli psicologici e gli educatori. A nulla serve neppure il lavoro in una fattoria, dove Ahmed potrebbe apprendere la disciplina del fare, la gioia del prendersi cura di altri esseri viventi, la capacità di empatizzare con essi, e dove addirittura gli viene offerta la possibilità di accettare la dolcezza dell'amore di una coetanea. La sua mente è distorta, il suo mondo è irrimediabilmente amaro, la sua visione talmente deformata da vedere in ogni oggetto (non solo in un coltello da cucina, ma anche in un gancio in un muro o perfino in uno spazzolino da denti), un arma di offesa e uno strumento di morte. I Dardenne (che vivono e operano in un Paese, il Belgio, che ha conosciuto e vissuto sulla propria pelle la presenza del terrorismo islamico) concedono al giovane Ahmed una coerenza integralista e mortifera che non demorde fino all'ultimo. Fino a che il giovane, fortunatamente maldestro, letteralmente precipita dall'alto del proprio odio omicida, conosce la sofferenza, e l'abnegazione di chi malgrado tutto è disposto a prestargli aiuto. Sempre che non sia troppo tardi. STORIA DI UN MATRIMONIO (Marriage Story) di Noah BaumbachBaumbach torna a parlare dei suoi temi: la famiglia e la coppia; torna (dopo Il calamaro e la balena, 2005) a parlare di divorzio, ma stavolta dopo aver provato l'esperienza della separazione in prima persona (il divorzio da Jennifer Jason Leigh nel 2010); torna a parlare di personaggi che vivono nel mondo dello spettacolo (lui regista teatrale, lei attrice), con una presumibile componente autobiografica (Noah è figlio di scrittori e critici cinematografici, le sue compagne di vita – l'ex-moglie JJL e la compagna Greta Gerwig – sono attrici che hanno lavorato nei suoi film, suo figlio si chiama addirittura Rohmer...); torna a lavorare con Adam Driver (che da Frances Ha a Giovani si diventa guadagna sempre più spazio protagonistico nei film dell'autore). Torna in fondo anche a parlare del rapporto tra vita e la sua narrazione o narrabilità. La separazione tra Charlie e Nicole, che all'inizio si prospetta come consensuale, civile, rapida e relativamente indolore, si trasforma in una rappresentazione di teatro dell'assurdo nel momento in cui la causa approda in tribunale, dove le personalità e i rapporti tra i due vengono virati (e tirati, dai rispettivi avvocati, ciascuno agguerrito e intenzionato a prevalere sulla controparte) totalmente in senso sfavorevole e negativo. Quasi in senso fotografico: la rappresentazione delle rispettive personalità, nei racconti dei legali in guerra, sembra il doppio speculare e a tinte invertite del ritratto che ciascuno dei due coniugi ha declinato dell'altro all'inizio del film, quando in una seduta di terapia di coppia sono invitati a raccontare ciascuno cosa ha trovato un tempo di bello e di attraente nel partner. Con qualche tocco di umorismo (il cinema di Baumbach è stato spesso accostato a quello di Allen, anche se il nome dato al figlio esplicita senza possibilità di dubbio un'altra sua predilezione autoriale), il film è percorso da una costante vena di amarezza e di malinconia per il deteriorarsi di un rapporto d'amore, per il senso del tempo che inesorabilmente distrugge ciò che è stato, e per l'implacabile necessità che impone di scavare fossati e di erigere muri là dove le persone avrebbero ancora invece la possibilità di incontrarsi e parlarsi. I momenti migliori del film sono forse proprio nel tenero prologo, e nel frustrante e dolorosamente fallito tentativo dei due coniugi di riavvicinarsi; negli assolo di Laura Dern (giustamente pluricandidata a numerosi premi come miglior attrice non protagonista); e nella direzione degli attori. La sceneggiatura è ritagliata in modo da offrire auree occasioni ai due protagonisti, Scarlett Johansson e Adam Driver, di dispiegare tutte loro qualità drammatiche, con una performance molto stile Actors Studio, ma anche tutto il cast di contorno funziona alla perfezione: si è già detto della Dern che si porterà a casa un po' di targhe e statuette, ma godibilissime sono anche le caratterizzazioni di Alan Alda (l'avvocato remissivo), Ray Liotta (l'avvocato bellicoso) e Merrit Wever (la sorella della protagonista, che ha a sua disposizione la scena in cui deve consegnare l'istanza di divorzio al cognato). Il film avrebbe avuto da guadagnare da una durata più asciutta e stringata; due ore e un quarto sono tante e spropositate e onestamente se ne sente il peso. Inoltre – come già nel divorce movie più celebre nella storia del cinema, Kramer contro Kramer), la simpatia del regista-sceneggiatore sembra decisamente andare al suo omologo maschile. Che forse ha messo la sua carriera davanti a quella della moglie, non è stato abbastanza pronto a capire le sue esigenze, e l'ha anche tradita con un'altra; ma beneficia tutto sommato di una presunzione d'innocenza che lo fa sembrare più buono e indifeso di fronte alla Nicole astiosa e rancorosa della Johansson. Cui è riservato, però, un gesto triste, gentile e finale. Storia di un matrimonio è visibile su Netflix. DOV'E' IL MIO CORPO? (J'ai perdu mon corps) di Jérémy ClapinSia il titolo italiano che quello originale assumono come propria la prospettiva della mano, che è una delle protagoniste del film (sarebbe stato un caso di scuola per il mio saggio “Mano e SuperMano”, pubblicato sul n. 143 di SegnoCinema). Per tutta la durata del film una mano cerca di ricongiugersi con il corpo da cui è stata incidentalmente e traumaticamente tranciata. Su un altro piano temporale e narrativo, viene raccontata in parallelo la vita del giovane Naoufel, prima fallimentare fattorino di pizzeria, poi garzone di falagnemeria per amore della nipote del proprietario. Il film di Jérémy Clapin (regista, sceneggiatore, storyboard artist e animatore), pluripremiato in diversi festival, si ispira forse alle sospese storie di giovani narrate dal maestro Makoto Shinkai e alle sue atmosfere visive. Effettivamente Dov'è il mio corpo? vanta delle soluzioni visive molto suggestive, e dà il meglio di sé nei flashback in cui Naoufel ripercorre il suo apprendistato sensoriale, durante un'infanzia felice poi funestata e stravolta dalla morte in un incidente di entrambi gli amati genitori. Vista, tatto e udito si uniscono in un'esplorazione e in un apprendimento del mondo durante un'infantile età dell'oro, che si tramuta poi nella grigia e insoddisfacente quotidianità dell'adolescenza, in cui solo l'incontro fortuito con Gabrielle sembra pote offrire una via d'uscita. Bella anche l'dea del registratore a cassette, con microfono, regalato a Naoufel, che diventa a sua volta dapprima uno strumento per indagare la realtà e per percepire quello cui di solito non prestiamo attenzione, e poi un medium attraverso cui rievocare i tempi e gli affetti del passato. In un film complessivamente di buona riuscita, la parte più debole mi appare proprio quella della storia della mano, i cui segmenti narrativi mi sono sembrati un po' ripetitivi, minati dalla scarsa espressività del membro protagonista (che però sembra dotato di vista e di udito) e dalla limitata gamma di avventure possibili. Poco incisivo mi è parso anche il personaggio di Gabrielle, una protagonista femminile complessivamente poco seducente (sembra più interessante e spiritosa quando è solo una voce in un citofono – una suggestione irresistibile per un audiofilo come Naoufel - e di spessore modesto. Il film è ora disponibile su Netlix. Anche quest'anno Milano (in gemellaggio con Como) ha ospitato il Noir in Festival, che propone proiezioni cinematografiche (concentrate nel grande, accogliente auditorium dello Iulm, dotato di un impianto audio fantastico), tra concorso internazionale e concorso del noir italiano, omaggi e anteprime, oltre ad una nutrita e per nulla secondaria sezione dedicata alla letteratura di genere. Un festival bellissimo che meriterebbe un pubblico immensamente maggiore: pur giocando in casa in un'università come lo Iulm che offre ad esempio corsi in cinema, televisione e nuovi media, e con ingresso libero alle proiezioni, l'enorme auditorium era talvolta desolantemente semivuoto. Per il premio intitolato a Claudio Caligari (autore di tre soli ma incisivi lungometraggi, Amore tossico, L'odore della notte e Non essere cattivo) è stato proiettato come evento speciale Il traditore, di Bellocchio, mentre erano in lizza per il concorso La paranza dei bambini di Giovannesi, Lo spietato di De Maria, 5 è il numero perfetto di Igort, Gli uomini d'oro di Alfieri, L'uomo del labirinto di Carrisi, e Il ladro di giorni di Lombardi. Li ho visti tutti (cliccate sui rispettivi link per leggere le recensioni disponibili su Into the Wonderland), tranne l'ultimo. A vincere, con uno statisticamente improbabile ex-aequo, sono il neo-neorealistico La paranza dei bambini e Lo spietato, decisamente più pop, che viste le accoglienze non proprio entusiastiche partiva decisamente sfavorito. La selezione era comunque decisamente buona e il risultato tutt'altro che scontato, tra l'esercizio di stile alla Frank Miller di Igort, la rivisitazione glocal del genere di rapina firmato da Alfieri e il tentativo (non ancora risolto sul piano drammaturgico e narrativo) di internazionalizzazione di Carrisi. Scamarcio e Servillo si affermano come attori noir dell'anno, protagonisti di due opere ciascuno (Lo spietato e Il ladro di giorni il primo, 5 è il numero perfetto e L'uomo del labirinto – che vede la partecipazione anche di Dustin Hoffman - il secondo). Il più curioso dal punto di vista del casting è però decisamente Uomini d'oro, che schiera in ruoli drammatici delle maschere da commedia come Leo, Morelli e, addirittura, Fabio De Luigi, che aveva rifiutato il ruolo, pur avendo apprezzato il copione, per timore di rovinare il film; così racconta Alfieri nell'introdurre la proiezione, ma alla prova dei fatti De Luigi non sfigura. Sulla strada aperta da Lo chiamavano Jeeg Robot, un nuovo dignitoso tentativo di resuscitare il cinema di genere in Italia. Anche il concorso internazionale era molto stuzzicante, tra rivelazioni cinesi, il remake coreano di un classico del polar come Quai des orfevres 36, proposte scandinave e diverse opere provenienti dall'America latina. Purtroppo sono riuscito a vedere solo due film, appunto sudamericani, tra i quali però c'era il vincitore del concorso. 4X4 è un film argentino a budget contenuto, il tipico film scommessa giocato su un ristrettissimo ambiente concentrazionario. Un ladruncolo si infila in un auto parcheggiata in una tranquilla stradina di Buenos Aires. E' il 4x4 del titolo, che si chiama non a caso Predator, e che si rivela una trappola letale. Se entrare è stato facile, uscire da veicolo, blindato, insonorizzato e con i vetri oscurati, risulterà impossibile. Gran parte del film si svolge quindi interamente nell'abitacolo dell'automobile, con un unico attore (che comunica con il telefono di bordo unicamente con il proprietario del veicolo) e qualche comparsa oltre i vetri dell'auto. A tre quarti il film svolta: si presenta il proprietario dell'auto, che vuole vendicarsi di una città violenta sul casuale ladruncolo (anche assassino in passato, in effetti, veniamo a sapere). La situazione precipita, e l'ultimo segmento di film vede sostituirsi al protagonista unico due nuovi personaggi, il padrone dell'auto e il mediatore in pensione mandato dalla polizia, che intavolano un dibattito pubblico (a far da coro la gente esasperata radunata per strada) su criminalità, proporzionalità delle punizioni, colpe del singolo e responsabilità sociali. In parte già visto, ma la tensione funziona e i tre attori sono adeguati ai ruoli.
Il film che si aggiudica il Black Panther viene invece dal Brasile. Siamo nel paese di Bacurau, che dà il titolo al film, nello stato nel Pernambuco, che i turisti conoscono per le località costiere di Recife e Olinda. Ma qui siamo nell'interno rurale, in un paese talmente sperduto da poter sparire da un giorno all'altro dalle mappe satellitari, perdere il segnale dei cellulari e rimanere tagliata fuori dalle strade di comunicazione e dall'approviggionamento idrico. Bacurau è uno strano oggetto filmico, dove convivono dischi volanti vintage (malgrado l'apparente arretratezza dell'ambientazione, viene da chiedersi se non ci si trovi in un film di fantascienza, la didascalia iniziale ci dice che il film è ambientato tra qualche anno) e anziani giardinieri nudi, vaccini trasportati in ghiaccio e misteriosi motociclisti in tenute variopinte, discendenti dai banditi cangaçeiro legati alla comunità e americani dagli occhi di ghiaccio, musei pieni di armi ancora funzionanti e dighe abbandonate in cui si arroccano i reietti della società, riprese dal drone e bizzarre goffaggini narrative, il tutto in una narrazione corale e comunitaria frequente nel cinema latinoamericano ma quasi sconosciuta a quello occidentale. Per metà film non si capisce assolutamente dove il film possa andare a parare, né comprendere il motivo per cui è stato inserito in un festival noir. Poi il film svolta, rivela un inaspettato versante di ficcante metafora sociopolitica ma, anziché farsi più astratto, si trasforma in un thriller sociale di scioccante violenza e percorso da una tensione non convenzionale. Udo Kier ci mette i suoi occhi gelidi da assassino, ma i suoi cacciatori di uomini scopriranno che le vittime designate nascondono un passato ferino e niente affatto docile o remissivo. Commedia di paese, falsa fantascienza, fiaba nerissima, pamphlet atroce sulle diseguaglianze tra mondo ricco e mondo povero, satira politica, western alla I magnifici sette, tocchi horror, thriller dalle allucinate cadenze dilatate. Non so se fosse il film migliore del concorso, ma sicuramente è un ufo (oggetto filmico non identificato), bizzarro ma efficace, non a caso già vincitore del Premio della Giuria al Festival di Cannes. Dirigono a quattro mani Juliano Dornelles, Kleber Mendonça Filho, già scenografo e regista di Aquarius, arrivato anche in Italia per la presenza carismatica di Sonia Braga. A chiusura del festival è stato proiettato in anteprima Il mistero Henry Pick. Siamo un po' fuori tema, col noir non c'entra nulla e il mistero del titolo è un mistero letterario, incentrato sull'apparizione di un romanzo che ottiene un clamoroso successo, firmato da un pizzaiolo bretone deceduto che nessuno, famigliari compresi, ha mai visto leggere un libro o scrivere un rigo. Un critico letterario (star di una trasmissione televisiva letteraria come in Francia hanno sempre fatto e in Italia mai) scettico e incredulo sacrifica matrimonio e carriera pur di indagare sul caso, sconvolgendo la vita di alcune delle persone coinvolte, prime tra tutti la figlia del sedicente scrittore. Il film appartiene infatti a quel filone del cinema francese intellettualistico, libresco, con personaggi legati al mondo dell'editoria, decisamente rivolto ad un pubblico non più giovane, che ha prodotto nelle ultime stagioni titoli pregevolissimi come Il gioco delle coppie o Belle epoque. Carina l'dea della biblioteca dei libri rifiutati (anche se sprecata subito un po' in farsa), ma stavolta il risultato è molto più modesto, l'interesse e la curiosità si mantengono flebili e molto sa di dejavu, a cominciare da Fabrice Luchini, ormai piuttosto logorato dai ruoli di intellettuale misantropo e un po' arrogante (cui alla fine naturalmente ci si deve affezionare grazie alla rivelazione del suo lato umano), e che pedala sulle strade di provincia come già faceva in Moliere in bicicletta. THE IRISHMAN di Martin ScorsesePer parlare di The Irishman si potrebbe partire dalla questione della sua ricezione da parte del pubblico. Alcuni l'hanno definito un capolavoro, il testamento di un grande autore qual è Martin Scorsese, che chiude l'ideale trilogia iniziata con Goodfellas e che ha avuto Casino come capitolo centrale; altre l'hanno trovato lungo, noioso, senile, afflitto da una computer graphic che per buona parte del film ringiovanisce gli attori protagonisti in modo che è stato giudicato poco credibile. Schematizzando, per quello che vale, la contrapposizione sembra rispecchiare il passaggio - o meglio l'attuale coesistenza - dal pubblico cinematografico a quello televisivo della generazione Netflix, più ampio e più giovane. Il primo probabilmente dalle scelte più selettive e coerenti, il secondo più onnivoro e più spregiudicato nel fronteggiare il grande blob dell'offerta di film oggi disponibile. Alla schematica ripartizione di cui sopra se ne può affiancare o sovrapporre un'altra di carattere anagrafico: si può ipotizzare uno spettatore che ha seguito l'evoluzione storica del cinema di Scorsese sincronicamente, durante in suo farsi, e un altro che ha invece conosciuto i suoi film ex-post, nel magma della produzione cinematografica e (in maniera sempre più importante) televisiva di questi ultimi decenni; che ha visto magari Pulp Fiction o Kill Bill prima di vedere Taxi Driver o Goodfellas. In ultimo, si confrontano una modalità di fruizione cinematografica, con quanto di rituale e perfino di sacrale – trattandosi di un grande come Scorsese – comporta, e una modalità casalinga e più easy. Detto questo, chi ha (più) ragione? E' vero che The Irishman è un film troppo lungo; ha l'ansia dell'affresco totale, del grande romanzo americano, dove le storie individuali si intrecciano alla grande storia. Ma il respiro del film è più simile a quello ampio ed ellittico insieme di sue opere capitali precedenti, quali appunto Goodfellas o Casino, piuttosto che ai meccanismi più dilatati della narrazione seriale televisiva, comunque sperimentata direttamente nel frattempo da Scorsese, che ha prodotto e diretto l'episodio pilota di Boardwalk Empire. Molto criticato è stato poi il ricorso alla cgi per il ringiovanimento degli attori. Ma Scorsese voleva fare esattamente questo: un film con quegli attori, con i suoi attori, con gli attori di quel cinema. Forse, azzardo, non l'avrebbe fatto altrimenti. E' la chiusura di un percorso poetico, storico e morale. Questo film aveva necessità di avere il volto di Robert De Niro, e non di altri. Forse, e qui azzardo ancora di più, se Woody Allen avesse l'audacia e la spregiudicatezza necessaria, preferirebbe usare un se stesso ringiovanito artificialmente per i suoi nuovi racconti, al posto di quella serie di alter ego ectoplasmatici che ne riproducono ossessioni, tic, idiosincrasie e gestualità nei film girati dopo che l'avanzare dell'età non gli permetteva più di interpretare personalmente certi ruoli. E, per inciso, mi pare che non ci siano altrettante polemiche sul ringiovanimento e lo sdoppiamento digitale di Will Smith nel ludico e ben più inconsistente Gemini Man. Perché De Niro e Pesci, oltre ad essere la versione giovanile di se stessi, sono anche se stessi anziani, più o meno quali essi sono. Se Goodfellas e Casino raccontavano, anche se pur sempre con ampio respiro narrativo, una realtà adrenalinica in gran parte “in diretta”, The Irishman è il film di un regista a sua volta anziano che racconta un'epoca a posteriori, quindi da una prospettiva che è anche di bilancio storico e morale, dove la storia di alcuni decenni degli Usa – presidenziale, di politica interna ed estera, sindacale, giudiziaria, sociale – risulta fusa indissolubilmente a quella criminale; di una criminalità, per giunta, etnica, oriunda, raccontata con la consueta acutezza antropologica. Ma se The Irishman è dichiaratamente un'opera crepuscolare, non è assolutamente un'opera senile, e cioè marcata da stanchezza o da debolezza d'ispirazione. L'ampio respiro della narrazione, la grandiosa abilità registica e di scrittura (la gestione delle ellissi narrative e del trascorrere del tempo), la capacità sopraffina nella direzione degli attori, la cura nel rievocare epoche, luoghi ed atmosfere, la propensione a empatizzare con i propri personaggi (in genere negativi), l'abilità nel suscitare la tensione nello spettatore semplicemente con un dialogo (Tarantino ci costruirà sopra un talento e un marchio di fabbrica) o con un silenzio, sono tutti indici di un cinema tutt'altro che vecchi e stanchi. Di più: questo rimane forse non il film, ma senz'altro il cinema migliore di Martin Scorsese, che se si allontana troppo da De Niro e dall'affresco malavitosa produce magari opere interessanti ma ottiene risultati non altrettanto eccellenti, e che rimane l'autore più vivo e interessante (insieme all'outsider Allen) della generazione della New Hollywood che alla fine degli anni '60 rivoluzionò definitivamente il cinema americano. Se Frank Sheeran fino all'ultimo non si pente e non prova rimorso per i propri crimini, Scorsese non sente la necessità di cambiare o di modernizzare la propria visione e il proprio modo di fare cinema; non lo modernizza (non ce n'è bisogno, perché il suo è un cinema che ha percorso e precorso i tempi sempre con un grande portato innovativo), anzi lo rallenta, lo seda in parte, lo adegua alle età anagrafiche dei protagonisti, e va bene anche che abbiano movenze un po' arrugginite anche quando sono giovani. E' un mondo vecchio dentro, celibe, sprofondato in se stesso, in una lotta sterile per il potere e il denaro che non dà mai la felicità e che a volte viene subita come un destino ineluttabile. Ma raccontato da un cinema che è ancora giovane, e che si spera possa offrirci altri doni altrettanto graditi. L'UFFICIALE E LA SPIA (J'Accuse) di Roman Polanski In questi giorni sto leggendo “J'Accuse”, la raccolta di articoli, appelli, pamphlet scritti d Emile Zola in occasione del cosiddetto affare Dreyfus, e sono attonito nel constatare l'affinità di alcuni aspetti dell'affaire raccontati da Zola e la realtà attuale, a più di 120 anni di distanza. Dreyfus fu il capro espiatorio di un caso di spionaggio a favore della Germania, nel quale la sua unica colpa fu, oltre che essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, l'essere ebreo. Quando la sua innocenza fu dimostrabile e verificabile, tutte le gerarchie militari e politiche fino ai massimi livelli eressero un muro impenetrabile per difendere ad ogni costo l'errore commesso dalla giustizia militare. Dreyfus, degradato e deportato in isolamento all'Isola del Diavolo, fu condannato di nuovo; Piquart, l'ufficiale che portò le prove della sua innocenza, fu trasferito in Africa e poi incarcerato, Zola, una delle glorie della letteratura francese, autore di oltre 40 opere, fu processato, ripetutamente condannato e multato, insultato pubblicamente, aggredito da un attentatore, costretto all'esilio. Leggere oggi Zola, ancor più che vedere il film di Polanski, mette i brividi. Impressiona il suo sgomento di fronte alla marea montante del razzismo e dell'antisemitismo, in dispregio dello spirito francese di tolleranza, uguaglianza, fraternità, in un'epoca che credeva di progresso civile e umanistico; impressiona la sua incredulità di fronte alla pervicacia dei militari e dei politici a difendere un errore iniziale a costo di edificarci sopra una montagna aberrante di menzogne, ingiustizie, falsità, fomentando una campagna d'odio popolare nel cui polverone nascondere la propria sempre più vergognosa malafede. Cambiando giusto qualche parola, si potrebbe credere di leggere un editoriale scritto ai giorni nostri, sulla degradante deriva razzista e antisemita, sui disgustosi rigurgiti fascisti e nazisti della società italiana (e non solo); o sulla montagna di bugie, di depistaggi, di falsi verbali elaborati per nascondere il fatto che degli agenti delle forze dell'ordine avevano picchiato a morte, in caserma, una ragazzo inerme fermato per droga (fino a un politico di primo piano, futuro ministro dell'Interno - nonché difensore della facoltà di esercitare la tortura da parte delle forze dell'ordine -, che dichiara che la richiesta di giustizia della sorella della vittima gli fa schifo). Roman Polanski deve aver trovato a sua volta nella storia di Dreyfus diversi agganci alla sua biografia: la sua famiglia fuggì da Parigi, spaventata dall'antisemitismo montante, solo per finire nella trappola del Ghetto di Cracovia, da dove i suoi genitori furono deportati ad Auschwitz e a Mauthausen; nello stesso tempo Roman è protagonista di una vicenda processuale (accusato di aver avuto un rapporto sessuale con una ragazzina non ancora quattordicenne) che ha visto succedersi processi, condanne, ostracismi, fazioni pro e frazioni contro, e che dura da 42 anni. Evitando qualunque allusione autobiografica, Polanski dirige un film attuale e necessario, austero, rigoroso, che mette in scena personaggi e fatti storici con assoluto rispetto delle vicende alla base del film, e interpretato da molti attori provenienti dalla Comédie Française (Jean Dujardin è Piquart, Louis Garrel è Dreyfus, un ottimo Grégory Gadebois è Henry, ambizioso e devoto agli obblighi gerarchici fino a farsene deviare irrimediabilmente). Il punto di vista sulla vicenda è quello di Piquart, ufficiale integerrimo, di simpatie antisemite, che una volta nominato alla “Sezione statistica” - in realtà i servizi segreti dell'esercito – si rende ben presto conto che il suo ex-allievo Dreyfus è vittima di un errore giudiziario. Anche quando porta a conoscenza dei suoi superiori le prove inconfutabili dell'innocenza di Dreyfus e della colpevolezza di un altro ufficiale, militari e politici continueranno per anni a difendere il loro errore iniziale, nascondendo le prove, producendone di false, mentendo e dissimulando, perseguitando e screditando con tutti i mezzi leciti e soprattutto illeciti quanti si battono per la revisione del processo Dreyfus e l'accertamento della verità. D'altra parte non fanno altro che assecondare lo spirito dei tempi, e nello stesso tempo nell'aizzarlo a proprio vantaggio, analogamente a quanto fanno oggi alcuni nostri politici, disposti per il proprio tornaconto a sdoganare qualsiasi ideologia, anche la più delirante, e a giustificare qualsiasi affermazione mostruosa, o qualsiasi atto di vigliaccheria. Polanski si concentra sulle indagini e sulle vicende processuali, mantenendosi per la maggior parte del tempo nell'ambiente militare, e limitandosi a mostrare l'ostilità sociale e l'antisemitismo montante solo in poche sequenze (inquadrando la folla che urla contro Dreyfus da dietro le cancellate della piazza d'armi dove l'ufficiale viene pubblicamente degradato e umiliato; mostrando folle che sfondano le vetrine di negozi ebrei e bruciano in strada i libri di Zola; o rappresentando l'attentato all'avvocato della difesa). Il resto è un mondo grigio, dove gli unici tocchi di colore sono il rosso acceso dei pantaloni o dei fregi dei berretti militari (fino alla fiammata finale dell'abito dell'amante di Piquart, quando la vicenda si avvia a conclusione), in una Parigi dove praticamente non si affaccia mai un raggio di sole. Piquart, come Zola, porta alle estreme conseguenze la propria integrità morale, l'incapacità etica di sottomettere la verità e la giustizia alle convenienze o alle opportunità politiche o di carriera. Rischia la propria carriera, i propri affetti, la propria vita, versa il proprio sangue e quello altrui, a difesa di un uomo che conosce appena, e per il quale non prova nessuna simpatia. Benché in divisa militare, è un eroe civile – un uomo che fa quello che è giusto fare -, un baluardo di civiltà come quelli di cui si sente tanto il bisogno nei momenti più difficili della società. Come quelli che stiamo vivendo. Per inciso, scoppiato nel 1894, il caso vide la sua conclusione non con l'assoluzione di Dreyfus, ma con la concessione della grazia presidenziale nel 1899 e di un'amnistia generale per le persone implicate nel caso nel 1900. Dreyfus e Piquart furono reintegrati nell'esercito nel 1906. Il vero colpevole dell'atto di spionaggio non fu mai condannato (è poco? confrontate, se volete, con gli esiti dei casi delle torture al G8 di Genova, o della morte di Stefano Cucchi). Poi i pogrom contro gli ebrei si diffusero in Europa a macchia d'olio, e poi arrivò il nazismo, e Polanski era un bambino, e i suoi fuggirono a Cracovia... |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|