BOY ERASED - VITE CANCELLATE di Joel EdgertonDi ragazzi disadattati il cinema anglosassone (mettiamoci anche Guadagnino) nell'ultimo paio d'anni ne ha proposti diversi. Per semplificare, un po' provocatoriamente, sono adolescenti, di sesso maschile, provenienti dalla borghesia benestante, e interpretati preferibilmente da Timothée Chalamet o da Lucas Hedges. Le problematiche sono generalmente le tendenze omosessuali o la dipendenza dalle droghe. Boy Erased ne propone una variante-tipo con il personaggio di Jared, giovane maschio (Hedges, appunto) attratto dai maschi, figlio in una famiglia agiata e cristiana (il padre è un predicatore). L'interesse del film (tratto da una storia vera, come ad esempio il recentissimo Beautiful Boy, raccontati entrambi in libri firmati dagli stessi reali protagonisti) sta nel fatto che il ragazzo viene affidato ad una comunità di recupero per “devianti” sessuali, con descrizione delle pratiche militaresche adottate per estirpare desideri insani e raddrizzare identità pericolanti. Il film, diretto da Joel Edgerton che si autoassegna la parte del fanatico manager dell'istituto Love In Action (dove di amore, ovviamente, non ce n'è e non ce ne dev'essere nemmeno l'ombra, tranne quello invisibile e imperscrutabile di e per Gesù), racconta l'esperienza di repressione e indottrinamento subita dal giovane, con un uno sviluppo narrativo abbastanza prevedibile e con la prevedibile dose di flashback a raccontare la scoperta della sessualità, le prime esperienze peccaminose, la traumatica rivelazione ai famigliari addolorati e attoniti. L'argomento non è da poco (36 Stati americani ammettono questo tipo di pratiche normalizzatrici e coercitive, cui si calcola siano già state sottoposte circa 700.000 persone), ma Edgerton adotta un tono medio (lontano tanto dal tragico che dal grottesco), che finisce per essere un po' monotono, anche se efficace sul piano didascalico e del messaggio. Tanto che il colpo di scena più spiazzante e divertente sta fuori dal film, nelle didascalie finali, alle quali va prestata pertanto la massima attenzione. Alla medietas del risultato contribuisce la presenza di due attori bravi e divi già ampiamente entrati nel mito, come Russel Crowe e Nicole Kidman, in una versione imbolsita dai ruoli (Crowe è identico al vero padre del protagonista, la Kidman se la gioca sulla pettinatura cotonata e platinata, Hedges è meno figo dell'originale Garrard Conley ) e dall'età (e mi si strazia nel cuore nel dirlo, soprattutto per Nicole, e per la patina opaca che ormai fa già presagire l'appannamento inesorabile e inarrestabile della sua fulgida bellezza...).
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IL SEGRETO DI UNA FAMIGLIA (La Quietud) di Pablo TraperoPablo Trapero ha dedicato buona parte della sua filmografia ai temi della famiglia - in chiave dolceamara in Familia rodante, in chiave di thriller politico ne Il clan - e della genitorialità, dal padre operaio di Mundo grua alla combattiva madre detenuta de la Leonera. Il titolo italiano de La quietud ci informa da subito che stiamo tornando sulla stessa tematica. L'inizio è intrigante: l'incedere di Mia lungo i corridoi labirintici della casa di famiglia (una grande finca nella campagna non lontana da Buenos Aires), fino alla porta chiusa dietro alla quale il padre e la madre stanno discutendo animatamente, è da subito leggibile come una metafora del labirinto di segreti e bugie racchiuso nella proprietà ironicamente chiamata appunto La Quietud, La Quiete. Poco dopo un'analoga più breve sequenza a seguire ci presenta la seconda protagonista del film, Eugenia (detta Euge): stavolta la mdp segue la donna in un percorso lungo gli spazi a loro volta labirintici di un aeroporto. Euge infatti è arrivata da Parigi richiamata dall'infermità del padre, colpito da un ictus nell'ufficio della Procura, dietro un'altra porta chiusa, dove stava discutendo di affari misteriosi. La macchina da presa ci introduce quindi nell'intimità più scabrosa della famiglia, o meglio del rapporto tra le sorelle che è al centro del film, in una conturbante sequenza di sesso, quasi lesbica e quasi incestuosa, in cui le due sorelle fanno l'amore con se stesse sdraiate sullo stesso letto. Il rapporto quasi morboso tra le sorelle si rispecchia poi nel terzo lato del triangolo, quello di una madre altoborghese, una matriarca ospitale ma sprezzante, e nei personaggi ancillari maschili, amanti e compagni. Con il proseguire della vicenda, tra una colonna sonora multigenere e a volte troppo invadente e qualche altra spinta scena di sesso, cominciano a trapelare i segreti, a rivelarsi le bugie, a succedersi le rivelazioni. Ma fin troppo: la sequela di colpi di scena, che percorre tutto il film per non arrestarsi mai sino all'ultima sequenza, finisce per costruire una telenovela d'autore sovraccarica e alla fine un po' stucchevole, dove si accumulano maternità procurate con la violenza, gravidanze immaginarie, uteri in prestito, ricoveri ospedalieri, uxoricidi, tentativi di omicidio-suicidio, affari loschi, compromissioni politiche innominabili, senza contare che tutti fanno l'amore con quasi tutti e tutti tradiscono tutti, in tutti i modi possibili. In mezzo a tutto questo bric-a-brac da soap opera, Trapero, un regista che aveva suscitato la mia sincera ammirazione con i suoi film precedenti e che ha firmato anche la sceneggiatura tutta al femminile di questa storia di madri, figlie e sorelle, finisce per svilire anche le metafore sparse per il film (i cancelli che si aprono e si chiudono, le luci della sala da pranzo che vanno e vengono, il cadavere da esibire con protervia o da nascondere come un passato troppo ingombrante), chiedendo alle sue attrici un'adesione sempre più problematica man mano che la trama sbanda da una rivelazione scandalosa all'altra. Interessante la composizione del cast femminile, quasi una rassegna generazionale del cinema argentino. Incredibilmente somiglianti tra loro le due sorelle. Euge è Bérénice Bejo, attrice di origine argentina, figlia di un regista e moglie e musa di Michel Hazanavicius che l'ha resa celebre con The Artist, e che ha lavorato con registi di varie nazionalità, dall'italiano Bellocchio all'iraniano Farhadi; Mia è Martina Gusmán, moglie del regista che l'ha già diretta in altri quattro film, tra cui Leonera, dove l'attrice aveva fornito una memorabile e pluripremiata interpretazione nella parte della combattiva e disperata madre-leonessa. Infine la matriarca è interpretata da Graciela Borges, una veterana del cinema argentino attiva fin dagli anni '50. BEAUTIFUL BOY di Felix Van GroeningenUna scioccante didascalia finale ci informa che l'overdose da droghe è – oggi – la prima causa di morte per gli americani al di sotto dei 50 anni. Non stupisce quindi che il cinema statunitense torni ad occuparsi di questa vera e propria piaga sociale, oltre che culturale e sanitaria. Sorprende casomai la prospettiva da cui guarda al problema: come già Ben Is Back, uscito in questa stessa stagione, Beautiful Boy è ambientato in una famiglia della borghesia benestante, di cultura medio-alta – il protagonista di BB, David Sheff, è un affermato giornalista free-lance che pubblica sul New York Times, su Rolling Stones, su Wired, ecc. Nessun sintomo di emarginazione sociale, di frustrazione economica, di mancanza di prospettive per il futuro, di condizioni ambientali violente o ostili. I ragazzi di BIB e di BB sono ragazzi belli (beautiful), ricchi, intelligenti, di talento, amati, fortunati. La loro unica – si fa per dire - frattura è rappresentata dall'essere entrambi figli di genitori divorziati, che hanno però ricostituito una famiglia: entrambi vivono in una situazione di agio, con fratelli più piccoli che li adorano, e a interpretarli sono chiamati attori fascinosi, come il Timothée Chamalet che porta con sé il glamour già prepotentemente affermato con Chiamami col tuo nome. L'interrogativo sul perché questi lucky boys decidano di autodistruggersi (e con se stessi le rispettive famiglie) sotto i colpi di droghe letali (in questo caso si tratta in particolare della Crystal Meth, particolarmente infida e difficile da combattere), rimane parzialmente un mistero. Se BIB anziché indagare sulle cause si incanalava in una sorta di trhiller on the road, BB disperde il senso della domanda anche a causa di un montaggio estremamente frammentario, che mescola i piani temporali in modo dispersivo e poco funzionale alla progressione drammatica del racconto (fatta eccezione per qualche momento felice che sfrutta efficacentemente questa tecnica, come la crescita di Nic raccontata per veloci schegge accompagnate da un crescendo musicale). La sceneggiatura si stringe sui due protagonisti, il figlio drogato e il padre giornalista che tenta di combattere il male anche con le proprie armi professionali, e cioè con la ricerca di informazioni, ma circondando il personaggio di Nic Sheff di una specie di alone di opacità, mentre è al “padre coraggio” che vengono riservati la maggior partecipazione emotiva, la maggiore simpatia e il maggior pathos. Nic paradossalmente rappresenta e giustifica la sua condizione di dipendenza come affermazione d'identità, sia in senso affermativo (“questo sono io”) sia in senso oppositivo nel confronto della figura paterna (“io non sono come te o come tu mi volevi”), apparentemente disponibile ad affrontare la degradazione e la morte pur di continuare a godere della droga e di continuare ad affermare la propria distorta libertà. La frammentarietà del racconto rischia di rappresentare la lotta di Daniel come una sorta di routine, un confuso succedersi di tentativi accorati e di prevedibili sconfitte. Se gli altri personaggi vengono relegati sullo sfondo, comprese le ragazze di Nic e le sue due madri, il punto di svolta del film è segnato appunto da quella che si potrebbe indicare – con termine hitchcockiano – come una “mossa del cavallo”: e cioè con l'entrata nella partecipazione attiva del dramma emotivo della seconda moglie di Daniel, interpretata con pudica finezza da Maura Tierney – fino a quel momento spettatrice passiva anche se preoccupata e coinvolta – con la reazione nervosa nella scena dell'inseguimento di Nic di nuovo ed eternamente in fuga. E' soprattutto in questa parte finale che il film riconquista la sua forza drammatica e drammaturgica, che coincide paradossalmente con il momento della disfatta e della resa del personaggio protagonista. Anche se il senso del film (fortemente e didascalicamente ribadito nelle didascalie finali) è contenuto nel senso della possibilità e della necessità della lotta e nella speranza di sconfiggere il male, è proprio il senso della rassegnazione e della disfatta a conferire alla fine al film la sua maggiore forza in termini di pathos, quel senso di impotenza che molti genitori, anche non necessariamente alle prese con problemi di droga, si saranno probabilmente trovati ad avvertire nel corso della propria vita. Felix Van Groeningen, belga al suo primo film girato negli Stati Uniti, ritorna su una storia di “lutto genitoriale” dopo l'acclamato e straziante Alabama Monroe, che l'ha imposto all'attenzione degli spettatori e della critica, adattando i libri autobiografici scritti da entrambi i protagonisti, Daniel e Nic Sheff. Se Chamalet porta ancora una volta nel film, sotto le spoglie del bel giovane innocente, il suo fascino morboso e maledetto, Steve Carell si prende la scena, come ha fatto Julia Roberts in BIB, con un'interprtazione sofferta ma sobria, com'è nelle sue corde interpretative registrate sui toni della freddezza e dell'autocontrollo. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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