SOUND OF METAL di Darius MarderE' forse il segno dei tempi il fatto che alla candidatura agli Oscar siano arrivate storie a volte minimaliste di personaggi dimessi, il cui scopo non è vincere, ma semmai trovare il modo con cui arrendersi, alla malattia, come in The Father, all'handicap come in Sound of Metal, alla perdita della casa, del lavoro, del contatto con la società come in Nomadland, allo scacco delle proprie modeste ambizioni, come in Minari. Sound of Metal racconta del cammino di un giovane batterista verso la sordità. Ruben, dai corti capelli ossigenati, martella spietatamente il suo strumento mentre la sua ragazza Lou sputa versi rabbiosi come una Janis Joplin punk maltrattando la propria chitarra sulle pedane dei live club. I due si spostano sulle strade degli States lungo le tappe del loro tour con un enorme caravan. Si amano, si sono salvati dalla tossicodipendenza, e nell'intimità ascoltano vecchie cantanti jazz molto lontane dalla rabbia nichilista delle loro esibizioni. Ma tutto è destinato a finire, quasi all'improvviso. L'udito di Ruben ha un crollo; in breve non è più in grado di sentire e capire quanto gli viene detto. Entrare in una comunità per non udenti, dove sono ospitate persone di ogni età, vuol dire perdere i contatti con la vita di prima, con Lou, con la musica, con la sua vita nomade, con i suoi progetti. Dapprima riluttante, Ruben trova ad un certo punto nella comunità un nuovo modo di costruire rapporti sociali, di aiutare gli altri e di farsene aiutare, di trovare nuove forme di comunicazione. Ma il desiderio di tentare a tornare ad essere quello che era, lo spinge a farsi esiliare dalla propria nuova famiglia, a sottoporsi ad una costosa dai risultati parzialmente deludenti, a imbarcarsi per un viaggio verso il Belgio alla ricerca di una Lou molto diversa, solo per scoprire che nulla potrà più essere come prima. Sound of Metal è una dolente discesa nel regno del silenzio e della solitudine, in cui Ruben si sente estraneo tanto tra le persone tra cui si ritrova dopo essere stato colpito dal loro stesso handicap che verso le persone “normali”, che ormai sono a loro volta differenti da lui. Il film è l'opera prima di Darius Marder, che ha sceneggiato insieme al fratello Abraham un soggetto di Derek Cianfrance, per il quale aveva già scritto la sceneggiatura di Come un tuono. In effetti Cianfrance ha messo nella storia di Ruben una parte della sua esperienza di batterista a sua volta affetto da acufene, e la cifra dei suoi giovani antieroi laconici, coi capelli tinti, e sfortunati. Troppo lungo, e con alcuni momenti di calo dell'interesse, Sound of Metal cerca ovviamente nella dimensione sonora una caratterizzazione che è insieme narrativa, psicologica e suggestiva. Il disagio di Ruben viene fatto “sentire” allo spettatore attraverso delle soggettive acustiche con cui percepiamo i suoni attraverso le sue orecchie e la sua frustrazione, attutiti, smozzicati, incomprensibili, quando non addirittura inudibili. Le prospettive soggettive e distorte si alternano a quelle oggettive, in genere con riprese più distanziate rispetto ai soggetti: per lo spettatore l'effetto è come immergersi nell'acquario della sordità del protagonista e riemergere per riprendere aria. Riz Ahmed funziona nel rendere lo spaesamento di Ruben, la sua frustrazione sia di fronte alla propria disfunzionalità sia nei confronti di chi ha trovato un altro modo di affrontarla e, se non di vincerla, perlomeno di aggirarla in una convivenza che non esclude la possibilità di continuare a vivere in mezzo agli altri. Molto apprezzata è stata anche l'interpretazione di Paul Rauci (che a 72 anni ha avuto si può dire la sua prima occasione di rilievo), figlio di genitori sordi e pertanto pratico del linguaggio dei segni, nei panni di un reduce dal Vietnam, dove ha perso l'udito, che si è reinventato come capo di una comune di non udenti e per Ruben assume il ruolo di mentore nella sua nuova dimensione di vita. Sia Ahmed che Rauci hanno ottenuto candidature e premi; con ben sei candidature all'Academy (tra cui quelle per film, attori, sceneggiatura) Sound of Metal vince due Oscar: per il miglior montaggio e, naturalmente, per il miglior sonoro.
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LA DONNA ALLA FINESTRA (The Woman in the Window) di Joe WrightIl personaggio protagonista bloccato in casa; la finestra attraverso la quale spiare la vita dei dirimpettai; un femminicidio involontariamente osservato nella casa di fronte; la macchina fotografica con il teleobiettivo per vedere meglio e di più; l'irruzione dell'assassino nell'appartamento del testimone: il film di Joe Wright (tratto dal romanzo omonimo di A.J. Finn sceneggiato per lo schermo da Tracy Letts) potrebbe legittimamente intitolarsi con una crasi La donna alla finestra sul cortile, e il regista non fa nulla per nascondere la sua natura derivativa. Anzi, la esplicita fin dall'inizio, citando direttamente le immagini del capolavoro di Hitchcock; e rincara la dose facendo guardare alla protagonista Anna Fox Io ti salverò e altri noir che passano in televisione, con donne vulnerabili e in pericolo. A voler ben guardare si sentono altri echi: il salvatore sbrigativamente liquidato sulle scale come in Psyco, certi colori che sembrano usciti dalla tavolozza de La donna che visse due volte.
Ma altre suggestioni sembrano provenire direttamente dalla filmografia di Wright. La sua antieroina rivela da subito aspetti oscuri e problematici. Beve troppo, si trascura, non esce mai di casa e cerca di evitare qualsiasi contatto con l'esterno. Nel suo passato c'è un'ombra, e i fantasmi di morte che vede nella casa di fronte potrebbero essere in fondo proiezioni della sua psiche perturbata. L'eroina di Wright si chiama di nuovo Anna. In un cortocircuito metafilmico, Anna Fox potrebbe allora essere quasi una reincarnazione di Anna Karenina, in una storia rovesciata dove è l'adultera ad essere sopravvissuta al viaggio fatale nel panorama innevato, e sono invece il marito tradito e il figlio/figlia innocente ad essere morti. Anna Fox è una Karenina dei nostri giorni, superstite involontaria imprigionata nel proprio senso di colpa, ovvero un'Anna Karenina che dall'oltretomba assiste al film della propria impossibile sopravvivenza. Dopo la sublime vertigine stilistica e claustrofobica di quello che potrebbe essere il suo capolavoro, Wright trova di nuovo un pretesto per girare tutta la storia in interni, in un labirinto psichico dove il rottame di una macchina capovolta e innevata può finire nel salotto di casa come il cavallo bianco di Vronskij rovinava giù dal palcoscenico dopo una sfrenata corsa tra quinte teatrali. Purtroppo La donna alla finestra però non trova una ragion d'essere sufficiente a corroborare queste premesse e a valorizzare queste suggestioni. La storia della testimone non così innocente che indulge al solitario piacere voyeuristico, metafora dello spettatore cinematografico immobile nella propria poltrona, turbato e insieme compiaciuto dalle immagini che vede sullo schermo, non aggiunge molto alla geniale intuizione di Hitchcock (il fatto che il suo film sia ispirato ad un racconto di Cornell Woolrich non toglie nulla all'intuizione del regista inglese: è precisamente nella dimensione cinematografica che Rear Window fa esplodere tutto il proprio senso potenziale). Così come l'ambientazione in interni, con una stratificazione verticale degli ambienti, dalla cantina abitata dall'inquilino al tetto con lucernario fatale, attraverso lunghe rampe di scale, non riesce a generare un senso simbolico. Allo stesso modo Wright enfatizza l'aspetto teatrale della narrazione, schierando i personaggi davanti alla macchina da presa, ma, ben lontani dal fascino visivo e dalla dimensione metaforica della sua versione del capolavoro tolstojano. l'impianto visivo appare piuttosto gratuito e forzato. Così altri elementi potenzialmente interessanti, come il rapporto materno vicario appena abbozzato che si sviluppa tra Anna e il figlio adolescente dei vicini, o il possibile rapporto amicale e speculare che si potrebbe sviluppare tra le due donne-madri insoddisfatte – Anna e la sua vicina dalla dubbia identità – rimangono a livello latente e non trovano sviluppo; così come anche, ancora, il trauma nascosto nel suo passato, a parte l'esser causa dell'agorafobia e della sociopatia di partenza, non sviluppa un rapporto di necessità con le vicende successive del film. Gli stessi agganci da thriller psicologico, con le domande prima sulla realtà delle percezioni di Anna, che sostiene di avere assistito ad un omicidio quando la presunta vittima è ancora viva – per quanto con un'altra identità - e poi sull'identità del possibile colpevole, non riescono a tenere la presa sull'interesse dello spettatore. Amy Adams è una protagonista programmaticamente scialba e incolore, e questo gioca a suo danno, e Gary Oldman fornisce un'interpretazione piuttosto schematica; l'unica vera fiammata dal punto di vista attoriale è accesa dall'intrusione in casa di Anna da parte dell'ambiguo personaggio interpretato dalla sulfurea Julianne Moore. In gestazione da molto tempo, ma uscito durante la pandemia, La donna alla finestra suscita un involontario rispecchiamento con le situazioni vissute dallo spettatore durante i lockdown, bloccato in casa in una dimensione malsana e irreale, a guardare da una posizione domestica ma anomala e impotente la realtà esterna. Tuttavia rimane infine un film irrisolto e apparentemente poco sentito dal suo autore, che sembra giocare su terreni già frequentati da sé e da altri, ma senza la scintilla di una nuova ispirazione che consenta al film di spiccare il volo al di sopra del panorama già noto del thriller psicologico d'interni. Un elemento di pregio visivo è costituito dall'ottimo lavoro, tutto con luci artificiali, del direttore della fotografia francese Bruno Delbonnel, già cinque volte candidato all'Oscar. UNA DONNA PROMETTENTE (Promising Youn Woman) di Emerald FennellCome la sua protagonista, Una donna promettente ha diverse personalità. Le prime immagini scorrono su bacini e anche maschili che si agitano in discoteca, in immagini dalla fotografia un po' vintage. Poi vediamo un gruppo di uomini che adocchiano una possibile preda, una giovane donna stravaccata su un divano, apparentemente ubriaca persa. Quando uno di loro la porta a casa, la stende sul letto e tanta di farsela, lei risorge con uno jump scare, improvvisamente lucida e inquietante. Nella scena successiva, la donna cammina per strada, scalza, nelle prime luci dell'alba, mentre schizzi rossi le imbrattano il polpaccio e la camicetta e colano lungo il suo avambraccio. Anche dal titolo, che compare dopo un effetto caleidoscopico e psichedelico stile anni '70, grondano gocce, come grondano di rosso le labbra femminili giganti che nel manifesto del film sostengono una figura di donna a testa in giù e in posizione di croce. Già nel prologo, insomma, siamo passati da una sorta di sguardo antropologico sulla guerra dei sessi, e su una società dove ancora sopravvive un'ideologia machista, a toni decisamente ma forse ironicamente horror. Quello che cola lungo il braccio, in effetti, scopriamo subito, non è sangue ma la salsa ketchup che cola dal panino che la donna affamata dopo una donna insonne sta addentando famelicamente. Il gioco dei generi, spruzzato qua e là di spunti ironici, prosegue lungo il film, passando dagli scorci di ritratto famigliare ai cenni sulla biografia psicologica di una donna un tempo promettente futuro medico e ora umile cameriera, dalle scene da smaccata commedia romantica (il corteggiamento di Brian che culmina con la scena in farmacia) al revenge movie con un meditato piano di vendetta seriale; poi di nuovo all'horror con un'infermiera sexy ed inquietante, fino alla tragedia e al finale poliziesco con investigazioni e arresti. Anche Cassie cambia via via aspetto e comportamenti. Si veste da business woman abbrutita dall'alcol per accalappiare yuppies arrapati, e poi da brava ragazza tutta treccia bionda e roselline sulla maglietta, che legge prudentemente un libro che si intitola Careful How You Go (anche se in realtà si tratta del titolo del cortometraggio girato qualche anno fa dalla stessa Fennell), per truccarsi immediatamente dopo seguendo un tutorial che insegna a disegnarsi con il rossetto “blow job lips” (“labbra da pompini”); si veste con abitini floreali quando Brian mostra i suoi interessi sentimentali nei suoi confronti, ma torna ad abiti sobri per andare al college a “punirne” la direttrice; ancora alterna tenute da predatrice sessuale notturna a soffici e ingenui maglioncini color pastello; per finire mascherata da infermiera sexy e cattiva con capelli multicolori per l'apoteosi della vendetta finale. Cassie è (un'altra) donna a pezzi, frammentata tra il ricordo di una gioventù felice, un trauma incancellabile, il desiderio di normalità, l'istinto di rivalsa verso la viltà maschile, la sete di vendetta che si ridesta impetuosamente, la tentazione di rinunciare a tutto per tornare ad essere una giovane donna alle prese con un amore promettente. Tornano alla mente il personaggio e gli ambienti di In cerca di Mr. Goodbar, quando (eravamo nel 1977) una giovane donna si divideva tra le giornate spese ad aiutare bambini sordomuti e le notti trascorse a caccia di avventure sessuali nella zona oscura di una città dura e rapace. Ma mentre Theresa nel film firmato da Richard Brooks era alla ricerca della difficile identificazione di una donna scissa tra due aspetti della propria personalità difficilmente conciliabili, almeno dal punto di vista sociale, Cassie appare invece dominata da un'ossessione incoercibile. Prima ancora che al proprio interno, la linea di frattura passa tra lei e l'amica del cuore (come esprime il ciondolo, spezzato in due, che reca incisi i nomi di Cassie e di Nina), tra il prima e il dopo. L'adorata Nina, una giovane donna molto promettente, è stata violentata mentre era incosciente in stato di ebbrezza. Il video della violenza è circolato nell'ambiente scolastico, distruggendo la sua reputazione e la sua vita. E devastando la vita di Cassie, che per reazione sta dedicando le sue notti a punire gli uomini, rievocando - con se stessa nella parte della vittima e degli perfetti sconosciuti dragati nei locali notturni in quella degli aggressori - quella scena primaria indelebile e replicabile all'infinito in una società vigliaccamente maschilista. Ma la comparsa inattesa e casuale di Brian, un ex-compagno di corso degli studi di Medicina, oltre a far balenare nella giovane donna amareggiata la prospettiva pacificatrice di sviluppi sentimentali, ridesta insieme anche la sete di vendetta, indirizzata e finalizzata però stavolta alle persone effettivamente coinvolte nell'episodio che portò alla morte dell'amica: la compagna che minimizzò, la direttrice di college che si rifiutò di indagare, l'uomo che infangò Nina per trarre d'impaccio il suo facoltoso cliente, e infine Al, il protagonista negativo stesso di quell'episodio. Come un'Amélie in versione dark, Cassie escogita elaborati piani di vendetta. “Angelo e demone”, come la protagonista della canzone di Paris Hilton Stars Are Blind, che accompagna la scena romantica e scanzonata della farmacia, Cassie anche nel suo ruolo di vendicatrice non è monodimensionale: è capace di imporre le mani e concedere il perdono e il beneficio del sonno perduto al pentito Jordan Green, come di amministrare una blasfema eucarestia narcotica agli amici di Al; di sconvolgere la vita dell'ex-amica Madison e poi di offrirle il dono della tranquillità; di meditare vendette sanguinose e di lasciarsi tentare dall'abbandono alla possibilità di un nuovo (e forse primo) amore. La Fennell, al suo esordio nel lungometraggio (ma già sceneggiatrice per la serie tv Killing Eve) imbastisce una trama e visiva e sonora che innerva il film dotandolo di una ricchezza assai maggiore di quella legata ai suoi contenuti (del resto molto al passo con l'atmosfera dei tempi) o alla sceneggiatura scritta (pur vincitrice di molteplici premi, tra cui l'Oscar). Sul numero di luglio di SegnoCinema, mi dedicherò alla disamina degli elementi di senso non verbali di Una donna promettente, andandoli a cercare nella colonna sonora e in un'insospettabile iconografia di carattere religioso disseminata e occultata lungo tutto il film. Se il film vi ha colpito e volete conoscerlo meglio, seguitemi, e spero che non ve ne pentirete. NOMADLAND di Chloé ZhaoLa città dalla quale proviene Fern si chiama Empire, cioè “impero”. La crisi globale del 2008 a livello locale colpisce anche la cittadina, dove la chiusura delle miniere di gesso porta al suo spopolamento e alla sua trasformazione in una ghost town della quale, come ricorda la stessa Fern, viene cancellato perfino il codice postale. Una delle tappe principali del vagabondaggio della protagonista - che dopo la crisi e la morte del marito ha scelto la vita nomade, muovendosi lungo le strade e i parcheggi degli Usa con la sua casa-furgone, come una lumaca con il suo guscio (Fern ci tiene a puntualizzare di considerarsi una “senza casa”, non una “senta tetto”) - è nel parco nazionale di Badlands, che letteralmente si traduce “terre cattive”. Uno dei lavori provvisori che permette a Fern di guadagnare quel tanto che basta a sopravvivere, a comprare il carburante e il junk food che divora avidamente direttamente dalle scatolette, è presso un ciclopico centro di smistamento di Amazon, la multinazionale sempre più ricca e potente che spedisce le merci in tutto il globo. E molte sequenze sono girate alla luce del tramonto, e qualcuna di notte, quando Fern deve difendersi dal freddo dal quale la separano solo le sue coperte e le lamiere del furgone. Il minimalismo palese di Nomadland rivela quindi una struttura simbolica e politica nascosta, delineata dalla toponomastica e dall'ambientazione stesse: schematizzando, il film parla quindi del tramonto di un impero, della scomparsa dell'America concreta del lavoro (e di una terra inaridita), sostituito dalla smaterializzazione e dall'omologazione astratta delle merci (trasformate in anonimi pacchi tutti uguali), in un'epoca in cui i luoghi e le strade vengono sostituiti da capannoni giganteschi e dalle traiettorie astratte del commercio globale. Quella di Nomadland è quindi in definitiva una no man's land, un Paese che non solo non è per vecchi, ma non è più forse nemmeno per gli esseri umani. A raccontare il declino dell'american way of life tradizionale, stranamente, è una regista cinese, trasferitasi prima a Londra, poi a Los Angeles, e poi nel Massachussets, una cosmopolita che attraversa praticamente quattro culture diverse prima di approdare al cuore profondo dell'America. I suoi primi due lungometraggi, Songs My Brothers Taught Me e il bel The Rider, uscito fugacemente anche in Italia, erano ambientati tra i Sioux Lakota, divisi tra la cultura tradizionale e il rapporto ancestrale con la natura da una parte e il sistema moderno di vita dall'altro. Se The Rider era l'estrema propaggine del western crepuscolare (una versione etnica, malinconica e minimalista del percorso iniziato da L'ultimo buscadero di Peckinpah), Nomadland porta in una luce crepuscolare e in prossimità del grado zero un altro genere classico del cinema americano, il film on the road. Quello di Fern e dei suoi compagni di strada non è più un viaggio di scoperta, di conoscenza, di avventura, di confronto con l'ignoto, ma è un vagabondaggio dettato dalle necessità, innescato dalle difficoltà della vita - la vedovanza, la perdita del lavoro o di un figlio, la malattia. Eppure qualcosa resiste ancora: un gusto amaro di libertà, la sensazione di essere rimasti padroni di quel che resta del proprio destino e di essere sfuggiti a qualcosa, anche se poi ci si deve sottomettere ai lavori più umili, a padroni temporanei, a pulire il sudiciume dei gabinetti degli altri; l'illusione di essere senza tetto né legge, come suonava il titolo di un film su un'altra donna vagabonda, anch'esso premiato con il Leone d'Oro a Venezia nel cuore degli anni '80. E rimane un senso residuo di solidarietà, il sentirsi affratellati con i provvisori vicini di accampamento o di parcheggio o di lavoro precario da un comune destino di marginalità, cercata o subita. I percorsi apparentemente casuali di Fern sono segnati da una certa ricorsività, che la riportano alle stesse tappe, ad incontri che si replicano a segnare i confini di un essere-nel-mondo che starebbe troppo stretto dentro le mura di una casa convenzionale. Il furgone è il suo mezzo di trasporto e insieme la sua casa, il guscio intimo che la protegge, il bozzolo in cui ha rinchiuso quel che rimane di se stessa; il suo passato è relegato in qualche ricordo e nei pochi oggetti posseduti, investiti dell'affettività rimanente. Nel volto segnato ma forse mai così duttile di Frances McDormand (che dà volto, corpo e anima al film, stabilendo una complicità profonda con la regista del film che lei stessa ha contribuito a produrre) sembrano incise e visibili le linee di frattura di una vita andata in pezzi, come i cocci del piatto che Fern rincolla minuziosamente dopo che si è rotto. Quando ne avrà la possibilità, Fern rinuncerà alla prospettiva di rientrare in una vita più normale e confortevole; ormai sente più vicina la sorella di strada che parte alla volta della fine del proprio viaggio, che la sorella di sangue dalla quale ormai la divide la vita e la strada. E' davvero un segno dei tempi che Nomadland, alla confluenza della tendenza alla political corretecness e dell'atmosfera di mestizia provocata dalla pandemia globale, sia arrivato a conseguire i massimi premi sia ad uno dei massimi festival dedicati al cinema d'autore, sia ai Golden Globe e agli Oscar, in genere votati ad un tipo di cinema più popolare, godibile e consolatorio. Ed è passato un po' inosservato agli occhi degli osservatori, anche professionali - forse distratti dalla candidatura all'Oscar della canzone eseguita da Laura Pausini per La vita davanti a sé - il contributo italiano al film che ha vinto le statuette più importanti e che contiene nella colonna sonora diversi brani di Ludovico Einaudi, perfettamente coerenti con lo stile minimalista della narrazione. RIFKIN'S FESTIVAL di Woody AllenLeggo in un'intervista che Woody Allen ha intenzione di girare a Parigi il suo prossimo film, sul tipo di Match Point. Buona notizia, perché Rifkin's Festival ha tutte le caratteristiche per poter essere considerato il suo film-testamento. Rifkin's è puro Allen, distillato fino all'essenza. E allora il suo gioco mira ai fondamentali: lasciati da parte la grande letteratura, l'arte, la musica, il musical, la televisione, i giochi di prestigio - e chi più ne ha più ne metta - la sua nuova lieve, ironica e affettuosa riflessione filosofica si articola stavolta attraverso i capitoli del cinema puro, il cinema più amato (in massima parte europeo e in gran parte già citato nei suoi film precedenti; probabilmente incomprensibile e ignoto allo spettatore medio Usa, dove peraltro il film non uscirà a causa di un moralismo sempre più mefitico e ottuso). Ci sono tutte le sue grandi componenti, l'amore per il cinema e la metatestualità, le grandi domande esistenziali, l'umorismo intellettuale e le rondes sentimentali, i grandi interrogativi ricorrenti sul senso della vita e sulla morte. E poi c'è tutto il resto dell'amabile arsenale alleniano: l'intellettuale nevrotico, l'ipocondria, la psicoanalisi, il jazz, i titoli sui cartelli in bianco e nero, gli interpreti elencati in ordine alfabetico, ci sono Wallace Shawn (al suo sesto film con Allen) e Vittorio Storaro (che ormai lavora solo con lui). Puro Allen. Così, in mezzo al vaudeville che segue i personaggi al Festival di San Sebastian, dove è ambientato il film, fa capolino il cinema in bianco e nero come in Ombre e nebbia; i personaggi entrano nei film, anziché uscirne come ne La rosa purpurea del Cairo; si ripercorre una stagione dorata del cinema europeo così come in Midnight in Paris si ripercorreva l'age d'or artistica e letteraria nella Parigi degli anni '20; e poi si citano Il settimo sigillo e Persona, come in Amore e morte, Otto e mezzo come in Stardust Memories, Jules e Jim come in Vicky Cristina Barcelona; e si potrebbe continuare così. Tutto per sorridere del nulla che è vita e dei modi per viverla comunque, e affrontare il pensiero della morte in un mondo privo della consolazione di un Dio, di un qualsiasi aldilà, di un'ideologia salvifica, di una scappatoia escatologica. Perché valga la pena vivere, se lo chiedeva già l'Isaac Davis di Manhattan più di quaranta (40!) anni fa. E allora si rispondeva più o meno: “il buon vecchio Groucho Marx tanto per dirne una, e Joe DiMaggio, e il secondo movimento della sinfonia Jupiter; Louis Armstrong, l'incisione di Potato Head Blues; i film svedesi, naturalmente; L'educazione sentimentale di Flaubert... Marlon Brando, Frank Sinatra, quelle incredibili mele e pere dipinte da Cezanne, i granchi di Sam Wo”, prima di scoprire disarmato che la risposta era semplicemente “il viso di Tracy”. Perché se Mort Rifkin - dopo 40 anni e dopo innumerevoli incarnazioni del mai pacificato spirito alleniano - è ancora alle prese con gli “insolubili e terrificanti problemi universali” - si lamenta che la vita è vuota e senza senso, la Morte in persona lo corregge: senza senso sì, ma non vuota, e il compito di riempirla spetta a noi. E' una lezione semplice, e Allen ce l'aveva da poco ripetuta attraverso il giovane Gatsby di Un giorno di pioggia a New York; ma è una grande lezione. E i film di Allen sono un meraviglioso, divertente, affascinante, variegato, illustratissimo libro di testo su cui ripassarla, che, come proponeva Italo Calvino agli autori del nuovo millennio nelle sue Lezioni americane, è leggero, rapido, esatto, visibile, molteplice, coerente. Rifkin's Festival, nella sua forma di eccelso bigino, è un film definitivo; ma Woody Allen non è morto. La sua vita non è stata vuota, e ha reso meno vuota anche la nostra. Viva Woody Allen, forever. MINARI di Lee Isaac ChungMinari era candidato a 6 premi Oscar tra i maggiori: film, regia, sceneggiatura, colonna sonora, attore protagonista, attrice non protagonista. Ha vinto quest'ultimo, assegnato a Yoon Yeo Jeong, ma già prima si era aggiudicato un Golden Globe, il Gran premio della giuria al Sundance e diversi altri premi. Allora sarà un problema mio, perché il film, il secondo visto al cinema dopo la riapertura delle sale, non l'ho proprio “sentito”. Sembra in effetti che un'ondata asiatica – in ritardo di 20-30 anni rispetto a quella che aveva investito i festival di Cannes e di Venezia, che però a differenza degli Oscar sono competizioni internazionali – si sia abbattuta sull'Academy trasfigurata in chiave politically correct: l'anno scorso un film all-korean come Parasite aveva vinto quattro (strameritati) premi, quest'anno la regista di origine cinese Chloé Zhao ha conquistato con Nomadland le statuette per miglior film e miglior regia. Anche Lee Isaac Chung ha origini coreane ma è nato in Colorado e quella che racconta è una storia autobiografica ispirata alla sua infanzia. Negli anni '80, una famiglia composta da una coppia e da due figli, una bambina e un maschietto più piccolo, si trasferisce dalla California all'Arkansas, facendo praticamente all'inverso il percorso dei protagonisti dello steinbeckiano Furore. Lui, un esperto nel riconoscere il sesso dei pulcini (i maschi, privi di valore commerciale, vengono buttati nell'inceneritore) ha un sogno: trovare un pezzo di terra da coltivare e realizzarsi come agricoltore; lei si ritrova a sorpresa a dover vivere in una casa mobile completamente isolata. Per aiutare i bambini (sia la mamma che il papà, oltre a lavorare la terra, lavorano nella fabbrica di polli) i genitori fanno arrivare dalla Corea l'anziana nonna, che non cucina cose buone ma prepara strani intrugli, gioca a carte come una biscazziera incallita, non parla inglese ma dice le parolacce, pianta strani vegetali (il minari del titolo) e “puzza di Corea”. Il Sogno Americano tarda ad avverarsi, un po' per sfortuna (la malattia), un po' per gli errori commessi (l'irrigazione, lo smaltimento dei rifiuti), un po' per il logoramento di un rapporto coniugale che richiede a lei grande spirito di sopportazione. Personalmente non avrei premiato il film, ma non capisco nemmeno i motivi che hanno portato alle candidature. Nessun guizzo e nessuna invenzione né di sceneggiatura (anzi, una piccola invenzione c'è, ed è il lavorante leale e fanatico religioso) né tanto meno di regia; la colonna sonora è brutta, le performance attoriali mi sembrano assolutamente nella norma (la migliore a mio parere è l'interprete della moglie, Yan He-ri, che guarda caso non è stata candidata). Non credo avrei mai premiato l'anziana Yoon Yeo Jeong, che recita secondo gli stilemi di recitazione asiatici la nonna, prima sboccata e poi bloccata dalla malattia. Tra gli altri film candidati per la miglior attrice femminile ho visto solo il non entusiasmante Hillbilly Elegy, e già lì c'era Glenn Close (anche lei nella parte di una nonna alle prese con giovane nipote) che a mio parere era ben più meritevole. Tutto mi è sembrato piatto, semplice, senza particolari note di merito, neppure dal punto di vista tematico o emotivo (non si sorride, non ci si preoccupa, non ci si commuove - e ciò stupisce, avendo un bambino come coprotagonista). Insisto su dei paragoni magari antipatici, ma anche nella selezione del Festival del Cinema africano, d'Asia e America latina di quest'anno, rimanendo su argomenti affini, ho trovato titoli migliori, ad esempio il coreano Scattered Night, sui figli di una coppia in crisi, o il messicano Los lobos, toccante racconto sui figli di una donna immigrata negli Usa... |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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