Una breve appendice alla rassegna dell'annata cinematografica 2021 per parlare del cinema italiano che mescola autorialità e genere (dove per genere intendo quello che sta fuori dal genere patrio per eccellenza, la commedia), alla faticosa ma stimolante ricerca di una propria via originale tra specificità nazionale e riferimenti ad altre cinematografie. Siamo sempre nell'ambito di una breve rassegna a volo d'uccello, senza pretesa di un ragionamento specifico sulla questione. Iniziamo con i due film che produttivamente e commercialmente puntano in alto, e che hanno creato prima delle rispettive uscite (ritardate da Covid e lockdown) le più ampie e trepidanti aspettative. Mainetti e i Manetti, con due film che arrivano dopo due rispettive prove molto felici, ambiscono infatti a scalare le vette dell'immaginario spettatoriale rispettivamente con Freaks Out e Diabolik. Il primo, dopo il sorprendente Lo chiamavano Jeeg Robot, salutato legittimamente da molti come l'atto di rinascita del cinema di genere italiano, realizza una sorta di steampunk glocal che parla romanesco ma ambisce ad un'iconografia e a un mercato internazionale; purtroppo però si lascia incantare dagli effetti speciali, si dilunga, e finisce, a differenza del film precedente, per dimenticare completamente di dare spessore alla storia, ai personaggi, ai temi e alle emozioni. Un vero peccato e uno spreco di energie e di occasioni. I Mainetti Bros, dopo aver realizzato quel miracolo probabilmente irripetibile di equilibrio tra generi e toni differenti che è Ammore e malavita, attingono direttamente a un già consolidato e iconico immaginario fumettistico. Ma nel tradurre per lo schermo Diabolik (che al di là del rilievo sociologico è in partenza un fumetto di modestissima qualità), non percorrono le legittime strade dell'attualizzazione o dell'ironia, bensì quella inaspettata di una sorta di rigore filologico, mettendo in scena coerentemente personaggi senza spessore, ambientazioni stereotipate, narrazione esangue, recitazione stilizzata (per usare un eufemismo benevolo). L'ironia forse doveva scaturire da sé, ma ce ne vuole. Calcoli sbagliati. Rimanendo in ambito fumettistico, Cupellini con La terra dei figli dirige invece una diligente traduzione dell'omonima graphic novel di Gipi, dove l'apocalisse è calata sulla piatta orizzontalità del Delta, la Golino è una strega e Mastandrea è senza naso.
Sempre dal punto di vista del cinema di genere, mi è sembrato molto promettente l'esordio di Alessandro Tonda (che ha comunque una qualificata gavetta alle spalle) con The Shift, progetto produttivamente molto meno ambizioso, che realizza in ambientazione belga un film pieno di efficace e realistica tensione chiudendo nello spazio claustrofobico di un'ambulanza un giovanissimo terrorista riluttante con cintura esplosiva e due paramedici accorsi a soccorrerlo ritenendolo una vittima di un vigliacco attentato in una scuola. Sorprende poi il salto di Ferdinando Cito Filomarino, che passa dalla biografia dell'introversa poetessa Antonia Pozzi, morta giovane e suicida nell'Italia degli anni '30, a Beckett, anch'esso con risvolti politici e con ambientazione e cast internazionale (con John David Washington al centro di tutta la narrazione), un efficace e appassionante thriller politico ambientato in Grecia all'epoca di Tsipras, con un cast internazionale . Leggete anche: I MIGLIORI FILM DEL 2021 (secondo Into the Wonderland) LE DELUSIONI D'AUTORE DEL 2021
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Dopo aver parlato dei film migliori della stagione, per me, passiamo a parlare delle delusioni. Delusioni d'autore, intendiamoci, quindi film che suscitavano aspettative positive. So in questo modo di andare a toccare nervi scoperti e di suscitare malcontenti perché nominerò film che a voi magari saranno piaciuti molto, che avrete amato o che considerate dei capolavori, ma mi assumo ovviamente la responsabilità dei miei gusti (eventualmente discutibili) e delle mie (opinabili) preferenze, tanto più che in questa temporanea black list finiscono anche autori che altrove ho amato, e anche molto, e che spero di tornare ad ammirare in futuro. Non è che liquido lapidariamente i film in due parole: di molti titoli (quelli evidenziati con link o che trovate nella colonna qui a destra), trovate se avete voglia recensioni più ampie e ragionate. La maggior delusione in casa nostra è decisamente rappresentata in questo senso dai Tre piani di Nanni Moretti. Il film concentra i tre racconti alla sua origine in un'unica narrazione sovraccarica di temi drammatici. Nanni Moretti incarnò al massimo livello la propria generazione anagrafica con un cinema satirico, geniale ed urticante. Ma Tre piani mi è sembrato un'opera senile (simile forse a quanto Nanni avrebbe detestato da giovane), mal scritto, non sempre ben recitato, un po' asfittico. Due opere senili e un po' polverose mi sono sembrati anche Boys, di Davide Ferrario, con una fasulla nostalgia per la purezza del rock e un quartetto di attori in età tenuti sempre sotto le righe, e Comedians, ritorno alle origini di Gabriele Salvatores, che torna a rigirare in una prospettiva forse più filologica, ma senile e un po' lugubre, l'opera teatrale che aveva già portato brillantemente in palcoscenico negli anni '80 e che aveva poi poi espanso sullo schermo in Kamikazen. Un film sulla comicità, interpretato da comici, che si impone di non far ridere; e purtroppo ci riesce. Cinema medio e dignitoso (come altri film di cui parlo qui, potrebbe senza troppo sforzo fare un salto di lista e andare ad accodarsi ai titoli più graditi), sentito ma senza sostanziali novità, in 3/19, ultimo titolo firmato da un altro regista milanese, Silvio Soldini, con la professionista arrembante (la Smutniak) che rivaluta tutta la sua vita a causa di un incidente in cui si trova coinvolta. Un'altra delusione da un autore con cui scoccò il colpo di fulmine, tanti anni fa, con Rosso sangue: da allora Carax non mi ha mai più convinto, e Annette è un'altra cocente delusione; non funziona come musical (il trailer saggiamente ne nasconde accuratamente la natura), è discutibile come atto di autoanalisi, non contiene (a mio parere, e contrariamente a quanto altri hanno scritto) particolari pregi in termini di visionarietà dal punto di vista visivo, tiene la Cotillard in disparte per toglierla d'impaccio a metà film, elimina l'altro comprimario, riduce la figlia a una (letterale) marionetta e lascia tutto lo spazio ad un insopportabile e dilagante Adam Driver. Forse ci fosse stato Denis Lavant il film avrebbe conquistato un pizzico più di pietà, ma così è solo un lungo irritante tormento. Non so se Julia Ducournau possa essere considerata un'autrice, ma la Palma d'oro a Cannes sembra elevarla verso questo rango. In Titane però conserva tutta la sua enfatica voglia d'epater les bourgeois già dimostrata ampiamente in Raw, ma perde la coerenza (se così si può chiamare) del film precedente; Titane infatti, oltre a cercare di accumulare tutte le tematiche cronemberghiane in un film solo, è in realtà tre film in uno – un horror-thriller con una serial killer psicopatica; in cyberpunk erotico e gravidico; e un melodramma grottesco con un impossibile riconoscimento tra padre e figlio/a - non ben amalgamati e nessuno dei quali ben riusciti. Non mi ha soddisfatto nemmeno Il potere del cane, opera di un'autrice storica come Jane Campion, che firma un western revisionista totalmente privo di “veri” uomini, lento e velenoso, problematicamente collocato tra l'epoca della Frontiera e la modernità. A proposito di atipici western a firma femminile (ma anche qui i protagonisti sono tutti di sesso maschile), non mi ha detto praticamente nulla First Cow, modesta storia di mungitori abusivi di mucche in un West decentrato e compresso in un formato antipanoramico, che gode di un consenso critico che mi risulta (problema mio?) del tutto incomprensibile. Dopo Parasite il cinema coreano (ma in realtà si tratta in questo caso di una storia di emigrati coreani negli Usa) attinge di nuovo agli Oscar, ma con il modestissimo Minari, la cui ideologia sostanzialmente conservatrice è stata benevolmente accolta al pubblico in nome dell'esotismo bucolico (tra parentesi, una radicata propensione per l'esotico ha portato a premiare anche a Locarno l'indonesiano Vengeance Is Mine, All Others Pay Cash, visto al Noir In Festival: un bel titolo da spaghetti western, ma nei fatti un pastrocchio che mischia melò, arti marziali e iconografia vintage, con un eroe impotente e un'eroina romantica che mena peggio di Bruce Lee). Poco mi hanno convinto anche due tentativi di trasportare poetiche rohmeriane in Estremo Oriente, come ne The Woman Who Ran del coreano Hong Sang-soo (visto alle giornate coreane a Sesto San Giovanni) e ne Il gioco del destino e della fantasia, del giapponese Ryusuke Hamaguchi, entrambi film episodici, inerti e verbosi, con pochissima regia. Non ho ancora visto Drive My Car, sempre di Hamaguchi, ma il fatto di ritrovarlo nelle prime posizioni in quasi tutte le classifiche che vedo, mi ha convinto a vederlo appena possibile. Molto premiato e gradito anche il danese Un altro giro, di Vinterberg, su un gruppo di professori che per esperimento si dà all'alcol. Chiaramente l'esperimento sfugge di mano, ma la morale rimane ambigua fino all'ultimo. Programmaticamente fiacco Sull'infinitezza, dello svedese Roy Andersson, che persegue una sua poetica minimalista in cui l'accumulo di episodi poco significanti dovrebbe dar luogo ad un affresco della condizione umana. Eppure sembra essere il momento del cinema scandinavo (ben presente anche nell'edizione 2021 del Noir in Festival): ha riscosso gradimento critico anche il norvegese La persona peggiore del mondo, di Joachim Trier, presentato a Venezia, ritratto femminile ad episodi, tra commedia e dramma; il riferimento potrebbe essere lo statunitense 500 giorni insieme, ma il risultato è nordicamente meno brillante e divertente. Da parte sua, il cinema anglo-americano infila una serie di flop con The Midnight Sky, un depresso film di fantascienza apocalittica ma intimistica di e con George Clooney, che altrove si era impegnato in progetti ben più pregnanti sia cinematograficamente che politicamente; con Notizie dal mondo, in cui un ottimo regista di cinema d'azione e con sottofondo politico come Paul Greengrass si cimenta infelicemente (in compagnia di Tom Hanks) con un western buonista e inerte; e con La donna alla finestra, con cui Joe Wright si impegola in un thriller psicologico di dichiarate ascendenze hitchcockiane, ma senza spremerne nulla di più di qualche risaputa citazione. Anche l'altro regista inglese di nome Wright, Edgar, non centra del tutto il bersaglio con Ultima notte a Soho, in cui, amante dell'ibridazione, mescola commedia nostalgica, bullismo, cinema fantastico, viaggi nel tempo, psicodramma, zombi, horror. Numi tutelari tra gli altri Polanski e Hitchcock, e forse Argento, ma la carne al fuoco è decisamente troppo e raggiungere un equilibrio anche precario si rivela pressoché impossibile. Quest'anno ho visto pochi veri horror; tra gli altri L'uomo invisibile e Antebellum. La fattura media del secondo è parzialmente riscattata da una forte svolta a sorpresa nella sceneggiatura; non inedita, ma politicamente significativa. Cambiando completamente genere, mi ha deluso anche Soul, film di punta del 2021 targato Pixar. Filosofia piuttosto involuta, storia contorta, poco jazz in un film con protagonista jazzista ma soprattutto personaggi ridotti (letteralmente) a evanescenti silhouette. Uno dei più prolifici (e anche apprezzati) autori francesi di oggi, Francois Ozon, gira con Estate 85 il suo tempo delle mele in chiave omosessuale e con sovrastruttura melodrammatica. Direi complessivamente inattuale e di scarso interesse.
Passando in Italia, piuttosto freddo mi ha lasciato un'opera celebrata come Il buco di Michelangelo Frammartino, impasto di facili metafore (la discesa speleologica nelle viscere della terra che si contrappone all'ascesa del boom economico) e retorica sul rapporto uomo-natura. Olmiano, ma lontano dalle mie corde. Antinarrativo, ma con un taglio più sociologico, per così dire, è Atlantide di Yuri Ancarani, dove giovani che non sembrano avere molte prospettive sfrecciano nella laguna veneziana a bordo di barchini veloci. Basico nella (non)narrazione e nella (non)recitazione, si risveglia all'improvviso a storia già finita, con un trip attraverso i canali veneziani che sembra in piccolo quello oltre Giove e l'infinito di 2001: Odissea nello spazio. Si esce un po' frastornati, con un decimo di stupore ammirato dopo nove decimi di insofferenza. Leggi anche: 2021: IL MEGLIO DEL CINEMA D'AUTORE (secondo Into the Wonderland...) 2021: I FILM ITALIANI DI GENERE (da Freaks Out a Diabolik) PREMESSA Non mi piacciono molto le classifiche, così opto per una rassegna (s)ragionata a volo d'uccello sull'annata cinematografica, non necessariamente in ordine di gradimento, ma per libere associazioni d'idee e per assonanze, lasciando in coda una breve rassegna sul cinema italiano che si potrebbe definire di genere. Parliamo di nuovo di una stagione anomala, con uscite ritardate di progetti bloccati dal Covid, con i cinema aperti a singhiozzo, guastata da una pandemia che non molla il colpo, ibridata dalle uscite su piattaforme di film inediti o quasi nelle sale. In attesa di scoprire se e fino a quando potremo continuare a vedere cinema al cinema, con le sale già in sofferenza tendenziale e oggi prese a mazzate dall'emergenza sanitaria, o se le sale da proiezione (e tutti i lavoratori che vi sono impegnati) sono destinate all'estinzione come l'umanità intera in Don't Look Up. Sia per i migliori che per i più deludenti, parto da quelli che si possono definire Autori, e che quindi suscitavano le aspettative più alte. Si potrebbe cominciare con delle domande. Ci sono ancora gli autori? Cioè registi paragonabili ai grandi autori del passato? E chi ci sta dentro e chi no? Se ne potrebbe discutere a lungo. Nel frattempo vi propongo la mia selezione, tra conferme e disillusioni, riscoperte e irritazioni, gloria y dolor. Ci sono autori che perseguono tenacemente un proprio percorso e una propria poetica, declinandola attraverso situazioni, personaggi e generi differenti. Una coerenza che talvolta viene letta come ripetitività e mancanza di idee. Può darsi che a volte sia così, ma è per l'appunto la caratteristica per cui li chiamiamo autori, e che li differenzia dagli anonimi professionisti capaci di passare da un genere e da un tono all'altro senza lasciare traccia riconoscibile del proprio pensiero o del proprio stile. Nella colonna a destra ci sono i film di cui trovate una recensione argomentata qui Into the Wonderland (o, più semplicemente, cliccate sui link quando li trovate sui titoli dei film nel testo); di alcuni film, come Rifkin's Festival, Madres paralelas, Una donna promettente, Pieces of a Woman, No mataras, 3/19, Atlantide, Sesso sfortunato o follie porno, The Shift (oltre che di altri film come Borat, Nomad, Mank), ho scritto più o meno ampiamente sull'annata 2021 di SegnoCinema. UN ANNO DI CINEMA D'AUTORE: CONFERME E SCOPERTEAl primo posto della mia personalissima classifica (che una classifica non è) metto Woody Allen, un autore di capolavori (comici e no) assoluti, ma dalla filmografia talmente sterminata da includere per forza di cose anche film che abbassano la media. Ma, visto dopo la dolorosa pausa del lockdown, Rifkin's Festival ha suscitato in me grande affetto e tenerezza. Forse lo smalto di un tempo si è un po' appannato, ma Rifkin's è Allen allo stato puro, cinefilia + umorismo + malinconia, più un nichilismo razionalista ma profondamente umanista, nel quale mi ritrovo in pieno. Lunga vita ad Allen. Altro autore dai molti titoli Pedro Almodovar, che nel 2021 ha portato addirittura due film sugli schermi: La voce umana, ispirata a Jean Cocteau con Tilda Swinton in un fiammeggiante one-woman-show e Madres Paralelas. Il secondo mi è piaciuto molto. Temi classicamente almodovariani (identità, rapporto con la madre, famiglie non tradizionali) ma allargati stavolta in un discorso che guarda anche alla storia e alla politica. Non sono, come qualcuno ha obiettato, due film in uno; c'è un tema comune, la perdita, e le soluzioni esplicitate: la memoria e l'affetto empatico e solidale. Ottima Cruz e promettente la Smit (già vista nell'interessantissimo No mataras, se lo trovate su qualche piattaforma dategli un occhio e leggete la mia recensione su Into the Wonderland o su SegnoCinema). Sorrentino torna a dividere, pur con un film in teoria nettamente meno divisivo del passato. E' stata la mano di Dio è una storia autobiografica, un'educazione sentimentale ambientata nella Napoli cui l'arrivo di Maradona conferì un inaspettato stato di grazia. Gli viene rimproverato di essere un film spezzato in due (in modi diversi sembra una caratteristica di molti film recenti), ma racconta di un evento spartiacque; di essere un racconto frammentario ma racconta dell'adolescenza, un'età dove si accumulano le esperienze più disparate (comprese quelle più imbarazzanti e inconfessabili), tra le quali alcune si disperderanno nel nulla, altre saranno seminali nell'andare a formare il carattere e indirizzare la propria esistenza. Per me il miglior Sorrentino dopo La grande bellezza. Anche Paul Schrader sembra incapace di fare film che non declinino in forme diverse i suoi personaggi e i suoi temi abituali: l'Eroe colpevole in cerca di Redenzione; l'Innocente da salvare; il Mondo Corrotto; il malvagio Corruttore che diventa l'incarnazione del Male, da punire e da fermare. Il collezionista di carte ne è l'ennesima declinazione, ricca di tematiche, di coerenza e di stile; ma Schrader, come altrove, non è in grado di sostenere registicamente la soluzione finale, rischiando anche stavolta di inficiare negli ultimi minuti tutto il lavoro meticolosamente costruito. Wes Anderson è un autore che non mi sta particolarmente a cuore (stucchevole ossessione per la simmetria e umorismo spesso puerile) e il suo The French Dispatch è stato accolto con freddezza e insofferenza dalla critica, rimproverato di vuoto formalismo, manierismo gratuito e autocompiacimento. Niente da obiettare, eppure paradossalmente a me il suo ultimo film ha suscitato simpatia: una vera e propria gioia per gli occhi (tutti da premiare scenografi, costumisti, truccatori, art director, fotografi, ecc.), che sarebbe stata tale anche se il film fosse stato parlato in marziano, un cast fantascientifico allegramente sprecato, e un commovente omaggio a Jacques Tati. Non gli ha giovato aver collocato in prima posizione l'episodio forse leggermente più gustoso, con i luminosi nudi integrali della Seidoux che illuminano lo schermo. Buono anche il risultato di Martone, con Qui rido io. Non conosco sufficientemente la storia del teatro napoletano e detesto cordialmente la canzone napoletana classica, ma il film mi è parso un interessante ritratto biografico e sociale con un Toni Servillo in grande spolvero. Ancora Servillo (già in Sorrentino) duetta/duella con Orlando in un altro film concentrazionario nei quali Di Costanzo sembra essersi specializzato, Ariaferma. Un carcere in via di dismissione diventa il palcoscenico in cui carcerati e guardie possono scoprire un nuovo modo di relazionarsi, come esseri umani, al di fuori dei ruoli prestabiliti. Un buon film, un po' programmatico e prevedibile, molto compreso in se stesso. Jonas Carpignano dipinge con adesione un ritratto di adolescente e un'educazione sentimentale sullo sfondo di un mondo permeato dalla malavita e da una complice e silenziosa connivenza in A Chiara. Il nome di Jan Komasa non dirà molto al pubblico italiano. In Polonia è una specie di divo grazie alle sue ricostruzioni storiche della Seconda Guerra Mondiale (Warsaw 44). Nel 2021 è uscito da noi Corpus Christi, su un giovane ex-detenuto che si spaccia per un parroco di campagna. Grande intensità drammatica ed emotiva, con un protagonista perfetto (Bartosz Bielenia). Il suo film successivo, The Hater, ha una tematica molto attuale e interessante (le fake news, l'odio in rete, l'uso distorto dei social), ma è meno bello e risolto. Alcuni dei film che mi sono piaciuti di più nel corso della stagione hanno paradossalmente in comune il tema della maternità: oltre al già citato Madres paralelas rientrano nella categoria il piccolo ma prezioso Petite maman, nuova indagine di Celine Sciamma nell'identità femminile; il Leone d'oro La scelta di Anne, di Audrey Diwan, con l'ottima Anamari Vartolomei, intensa e drammatica storia di aborto in un'epoca in cui l'aborto era un reato e una vergogna; Mai raramente a volte sempre, ancora un film sull'interruzione di gravidanza, racconto minimalista e delicato firmato da Eliza Hitman; e Pieces of a Woman, diretto da un regista maschio (di origine ungherese: Kornel Mundruczò) che l'ha però scritto insieme alla compagna, che racconta un lutto dolorosissimo, tra piano-sequenza virtuosistici (tra cui quello celeberrimo del parto) e un fitto impianto metaforico (ottima la performance di Vanessa Kirby); cui si potrebbe aggiungere il marocchino Adam, di Maryam Touzani, in cui lo sviluppo narrativo convenzionale naufraga e si disperde (positivamente) nella scoperta della maternità. Un'altra donna dietro la macchina da presa (Jasmila Zbanic) per raccontare di una madre che tenta disperatamente di salvare i propri figli: è la protagonista (interpretata da una febbricitante Jasna Duricic) di Quo vadis, Aida?, che agli Efa ha scippato il titolo a Sorrentino. Non un film eccelso, ma il tema (la strage operata dai serbo-bosniaci a Sebrenica, con più di 8000 civili maschi massacrati sotto gli occhi impotenti delle truppe delle Nazioni Unite; e il dovere della memoria) si impone da sé. Genitori invece alle prese con figlie forse assassine sia nel francese La ragazza con il braccialetto che nell'americano La ragazza di Stillwater, entrambi film di buona fattura drammatica. E' stato d'altra parte l'anno delle donne, che si sono imposte in quasi tutte le principali competizioni internazionali. Il premio Oscar è andato a Chloe Zhao, autrice sino-americana che continua a dedicare la sua attenzione a protagonisti e gruppi sociali marginali, per motivi etnici o socioeconomici. Bello il suo Nomadland, con la McDormand vagabonda on the road in un'America in crisi economica e morale. Viaggia in treno invece la protagonista finlandese di Scompartimento n. 6, che vanta varie candidature di prestigio. Un classico boy meets girl (anzi in questo caso girl meets boy), con diffidenza iniziale e conseguente attrazione, ma con un'ambientazione particolare tra vecchi vagoni e la lunga notte russa. Regia di Juho Kuosmanen, da segnalare la protagonista di Seidi Haarla. Un altro premiato (Orso d'oro a Berlino) che imposta un discorso ancor più corrosivo verso la propria società d'origine è Bad Luck Banging or Loony Porn. Il film di Radu Jude è tre o quattro film in uno, di genere e stile differenti (un prologo porno hardcore, una passeggiata per Bucarest che sembra girato in cinema-veritè, un catalogo enciclopedico, un farsesco processo scolastico) apparentemente disomogenei ma che finiscono per comporre un pamphlet critico assai preciso e circostanziato verso la società rumena - e non - contemporanea. Tra i film segnalati con premi negli ambiti di festival e concorsi spiccano almeno un altro paio di titoli, firmati da esordienti (ma con le spalle solide). Florian Zeller trasforma la sua piece teatrale The Father in un film maturo, compatto e intenso (malgrado il suo sviluppo apparentemente frattale e labirintico), avendo a disposizione un fuori classe come Anthony Hopkins, in un'interpretazione perfetta e calibratissima. Sul tema cinema e malattia, ha conquistato un paio di Oscar tecnici anche The Sound of Metal, primo lungometraggio di Darius Marder. Una donna promettente è stato segnalato soprattutto per la sceneggiatura, che mescola horror, romantic comedy, film sociale su machismo e #metoo, revenge movie. Ma Emerald Fennell, già sceneggiatrice e show runner per serie tv, compie anche un notevolissimo lavoro registico, tessendo in realtà un'opera raffinatissima anche nella composizione e nella simbologia visiva e nel commento musicale e costringendo Carey Mulligan a una performance mutante e proteiforme. Piuttosto bistrattato, mi ha abbastanza convinto anche Nuevo orden, del messicano Michel Franco, crudele rappresentazione di un mondo percorso da divisioni profonde dove può improvvisamente scoppiare la rabbia, all'apparenza incontrollabile ma utile al potere per instaurare un nuovo ordine ancora peggiore del precedente. Nulla di nuovo, forse, ma con una rappresentazione insieme secca, brutale e visionaria. Buon cinema latinoamericano anche in arrivo dal Festival del cinema africano, asiatico e d'America latina, ma non vale la pena darne conto perché purtroppo rimasto senza distribuzione italiana. Irrompe infine negli ultimi giorni dell'anno sugli schermi come una cometa impazzita Don't Look Up, imponendo ancora una volta un prodotto targato Netflix nel dibattito critico, mediatico e social, com'è successo solo negli ultimi mesi con Squid Game, Strappare lungo i bordi o l'ultimo film di Sorrentino. Adam McKay (La grande scommessa, Vice) dirige una commedia in cui l'apocalisse si trasforma in una commedia amara e grottesca e dove gli sberleffi continuano anche dopo la fine del mondo e i titoli di coda. Cast "spaziale" (Di Caprio, Lawrence, Streep, Lawrence, Chamelet, Ariana Grande) e indubbia aderenza allo spirito dei tempi; il modo in cui politica e media reagiscano in modo inadeguato, meschino e grottesco a tragiche emergenze che minacciano il genere umano (cambiamento climatico, pandemia) è già impietosamente sotto gli occhi di tutti. Leggi anche: 2021: LE DELUSIONI D'AUTORE 2021: I FILM ITALIANI DI GENERE (da Freaks Out a Diabolik...) NOIR IN FESTIVAL 2021 - 31a edizione: |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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