TITANE di Julia DucorneauUna bambina molesta viaggia in macchina con il padre esasperato. Quando lei si slaccia la cintura di sicurezza e lui si volta stizzito per sgridarla, perde il controllo dell'auto che finisce fuori strada. La bambina si spacca la testa contro il finestrino; vediamo i chirurghi aprirle il cranio e inserire una piastra di titanio. Viene imbragata in una struttura di metallo e rieducata al movimento. Quando esce dall'ospedale con una terribile cicatrice sulla tempia abbraccia la macchina e la bacia amorevolmente. Qualche anno dopo si esibisce in un motor show in un ballo lascivo, strusciandosi sulla carrozzeria di un'auto coperta di fiamme. Quando esce viene abbordata da un ammiratore; mentre si baciano attraverso il finestrino dell'auto lei si sfila dai capelli uno stiletto e glielo pianta in un orecchio. Lui muore tra le convulsioni vomitandole bava su una spalla. Lei va a casa e si fa una doccia. Quando sente dei tonfi che fanno tremare le pareti della casa, esce nuda in garage e si fa scopare da una grossa Cadillac rombante e abbagliante che la mette incinta. Sto spoilerando? Un pochino sì, ma questo è solo quello che accade nei primissimi minuti del film, in un triplice prologo, a seguito del quale sorgono nello spettatore una constatazione e una domanda: la prima è che Titane non è un film per tutti i gusti; la seconda riguarda cos'altro la regista Julia Ducornau ha intenzione di farci vedere per il resto delle quasi due ore di durata del film. La risposta, non esaustiva, comprende rapporti sessuali lesbici e para-incestuosi, aborti e parti non ortodossi, scambi di genere e di identità, omicidi raccapriccianti e atti di autolesionismo, corpi nudi gonfiati dagli steroidi o da gravidanze mostruose, volti sfigurati e corpi bendati e mortificati, danze tra pompieri maschi e una colonna sonora eclettica e pervasiva (una delle scene più cruente – se è possibile fare una classifica – ha per sottofondo sonoro Nessuno mi può giudicare cantata da Caterina Caselli; nel precedente Raw – un horror alimentare – la rappresentanza della canzone italiana toccava invece a Nada). Quando la Ducornau pensava a come sarebbe stato definito Titane e il suo cinema, le venivano probabilmente in mente aggettivi come “disturbante” e “fiammeggiante”; in preda ad una sorta di horror vacui quindi aspira a riempire ogni inquadratura con gesti violenti o immagini repulsive - a cominciare dal volto maschile e deturpato della protagonista Agathe Rousselle o dal corpo gonfio e illividito di Vincent Lindon – e infarcendo la colonna sonora di inquietante sound design, della musica di Jim Williams, di canzoni pop e folk, di solenni echi barocchi. Titane discende evidentemente, in una prospettiva che possiamo definire approssimativamente come femminile, dal cinema di David Cronenberg, ma anche in questo caso l'effetto di accumulo e di saturazione prende alla gola: l'impressione è che la regista, tra gravidanze mostruose, confusioni gender, Nuova Carne e erotismo per le macchine abbia voluto versare tutti i film dell'autore canadese (da Brood a Inseparabili o a M Butterfly, da Videodrome a Crash), nel contenitore turgido di un'unica opera mutante. La sceneggiatura infatti non si accontenta di seguire una linea narrativa paradossale e grottesca, ma le moltiplica, intrecciandone diverse tra loro, e pretendendo inoltre di coinvolgerci pure in un melodramma psicologico tra padri e figli, facendo incontrare due personaggi che trovano l'uno nell'altra la compensazione alle proprie lacune esistenziali. Ma se il coinvolgimento emotivo, volenti o nolenti, è assicurato dal bombardamento audio-visivo che lascia poco respiro, la richiesta di immedesimazione deve superare, oltre che una gigantesca sospensione dell'incredulità, vista l'improbabilità estrema delle situazioni, anche la repulsione suscitata dai due protagonisti, sia fisica – il volto antipatico della Rousselle è ulteriormente e variamente sfigurato dai danni subiti e il corpo di Lindon è deturpato dai lividi delle iniezioni e da una muscolatura ipertrofica – che morale – alle prese con una psicopatica assassina non precisamente simpatica e con un uomo che vuole credere a ciò la cui incredibilità salta agli occhi, spingendo il povero Lindon in situazioni alle soglie del ridicolo. Un cinema che indubbiamente varca i confini: della logica, del buon gusto, della credibilità, della coerenza, delle identità, dei generi sessuali, delle differenze tra uomo e donna, tra corpo e psiche, tra carne e metallo, tra organismo e meccanismo, tra naturale e artificiale. E' la nascita (letterale) del nuovo cinema ibrido, fluido e mutante del futuro? Alcuni, tra cui i giurati del Festival di Cannes, l'hanno visto così. O è un film fatto per épater le bourgeois, fino alla sazietà e alla nausea, con un'operazione cyberpunk dal forte retrogusto anni '80? C'è chi dice no: leggi in Face/Off perché invece secondo Oruam Norac TITANE prefigura (?) il cinema del futuro. Mettete un like o un commento per farmi capire quale vi convince di più?
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QUI RIDO IO di Mario MartoneMario Martone si potrebbe definire un regista glocal: che affronta temi universali ma con un radicamento inestirpabile nel proprio territorio. I titoli stessi della sua filmografia marcano il territorio e geolocalizzano la sua opera, tra Capri e il Vesuvio, Napoli e il Rione Sanità. E gli stessi titoli ne rivelano la formazione e la passione per il teatro, dal Teatro di guerra al Sindaco del Rione Sanità.
Ancora teatro quindi, e ancora e sempre Napoli: dopo aver portato sullo schermo, attualizzata, la sua prima regia teatrale da De Filippo, affrontata con curiosa tardività con il già citato Il sindaco del Rione Sanità, stavolta il regista si e ci immerge in un sontuoso film che è doppiamente in costume, ambientato in una compagnia teatrale di inizio '900, per raccontare uno scorcio della vita di Eduardo Scarpetta, altro nume tutelare del teatro napoletano. L'assunto di fondo - teatro e vita si compenetrano e si confondono nella storia del grande drammaturgo - è chiaro fin dall'inizio, con l'andirivieni della macchina da presa davanti e dietro le quinte e con Scarpetta che tratta la compagnia come una famiglia e la famiglia come una compagnia teatrale, da cui attingere per affidare i ruoli. Scarpetta è così contemporaneamente e senza distinzione di ruoli autore e regista, capocomico e attore, pater familias e patrigno, marito e amante, in un corto circuito continuo tra vita e finzione teatrale. Gomito a gomito convivono come in un harem di cui lui è il sultano incontrastato la moglie, le amanti, le attrici; i figli e i figliastri. Dalla moglie ufficiale ha tre figli, ma uno è forse frutto di una relazione della moglie con il re Vittorio Emanuele II; dalla nipote della moglie ne ha avuto altri tre, che si chiamano Eduardo, Titina e Peppino (di cognome fanno De Filippo); e poi ne ha un'altra manciata non riconosciuta tra cui forse Ernesto Murolo. Perché in effetti l'altro grande tema sotteso a tutto Io rido qui (la scritta che campeggia sulla sua villa al Vomero, come a voler separare l'ambito pubblico da quello intimo e privato, la maschera dalla persona, cose che Scarpetta appare invece totalmente incapace di fare), è quello della paternità. L'argomento è tematizzato esplicitamente: come in uno specchio distorto e anche crudele, è Eduardo De Filippo, figlio illegittimo di Scarpetta, a dover recitare in Miseria e nobiltà un ragazzino che per un intrigo si finge figlio di un altro personaggio, fino al riconoscimento del proprio padre reale (che, sia sul palco che nella vita, è sempre Eduardo Scarpetta) e alla relativa agnizione (sul palco, ma non nella vita) con abbraccio. Il protagonista di Miseria e nobiltà, e la maschera preferita di Scarpetta stesso, è inoltre Felice Sciosciammocca, nato come una filiazione del personaggio tradizionale di Pulcinella, ma che di questi ha finito per prendere il posto per fama e favore popolare. In un'emblematica scena onirica, l'unica se non sbaglio di tutto il film, Scarpetta/Sciosciammocca sale sul palco di un teatro deserto dove giace disteso il cadavere di Pulcinella, che a sua volta nasconde sotto la mascherina nera il volto imbiancato di Scarpetta stesso. Scarpetta ha dunque ucciso il suo padre teatrale simbolico, ma tiene in mano con ferrea volontà le redini della sua famiglia allargata, resistendo al conflitto edipico con il figlio che ambisce ad avere una propria autonomia artistica, e replicando uno schema familista/autoritario dove il personaggio di Peppeniello di Miseria e nobiltà viene via via passato da un figlio all'altro, seguendo il ritmo implacabile della crescita anagrafica (e, ancora in una filiazione simbolica, sarà Totò ad ereditare la commedia e a renderla immortale anche dal punto di visto iconografico, grazie al cinema, che ai tempi di Qui rido io era ancora agli albori). Ancora una questione di paternità oppone Scarpetta al Sommo Poeta, quel Gabriele D'annunzio che ha da poco portato sulle scene teatrali il suo dramma La figlia di Iorio. Scarpetta si incaponisce a realizzarne una parodia, Il figlio di Iorio, per la quale si ostina a chiedere il permesso dell'autore, che nicchia, sembra divertito, non glielo concede mai esplicitamente, salvo querelarlo per plagio una volta che l'opera buffa arriva sul palco. Parodia o “contraffazione”? A chi spetta veramente la paternità dell'opera? Scarpetta lotta per difendere la propria, trovandosi a combattere non solo contro un nuovo padre nobile, ma anche contro i “figli” simbolici di questi, i propugnatori del teatro d'arte, nobile e impegnato, contro quello burlesco e ridanciano di Scarpetta. La Commedia che combatte contro la Tragedia – quella stessa affrontata tante volte e in tante declinazioni proprio dallo stesso Martone nella sua carriera teatrale -, la maschera che ride (“qui io rido io”) contro quella che piange, la Miseria contro la Nobiltà. Di nuovo insomma uno scontro tra un padre nobile – il teatro – e un figlio popolano e popolare – la farsa alla Scarpetta. Disattendendo le tesi difensive di Benedetto Croce, chiamato come perito a proprio favore, che ritiene che Il figlio di Iorio sia semplicemente e autenticamente “brutto”, ma non può essere considerato un reato, Scarpetta ottiene la sua vittoria legale e giudiziaria facendo quello che sa fare: recitando la propria ilare difesa in pieno tribunale, per la gioia di sostenitori e giudicanti, e per quella (ebbene sì, Servillo è da applauso in un ruolo che sembra cucito sulla sua misura) degli spettatori al cinema. Scarpetta dimostra di essere padre di se stesso facendo quello che sa fare - rappresentandosi per quello che è, essendo quello che non può fare a meno di essere, incarnando quella che è l'essenza della napoletanità –: 'nu teatro. E il cerchio si chiude. P.S.: detesto cordialmente la canzone napoletana. Nel film (con piena ragion d'essere, anche se a mio parere è troppa, soprattutto nelle scene in cui il cantato si sovrappone a scene dialogate) ce n'è una tonnellata... COMEDIANS di Gabriele SalvatoresDopo aver italianizzato il testo del britannico Trevor Griffiths (che lo scrisse nel 1975); dopo averlo portato in scena al Teatro dell'Elfo in un'indimenticabile edizione nel 1986 (sul palco c'erano – occhio alla data - Paolo Rossi, Silvio Orlando, Claudio Bisio, Antonio Catania, Gigio Alberti, Bebo Storti, Renato Sarti, Gianni Palladino, Roberto Vezzosi, Giorgio Giorgi); dopo averne, due anni dopo, esploso e proiettato sullo schermo cinematografico il nucleo drammaturgico in Kamikazen, ultima notte a Milano (il cast comprendeva molti dei predetti nomi e in più conteneva apparizioni di Diego Abantuono, Aldo Baglio e Giovanni Storti, David Riondino, Lucia Vasini, Nanni Svampa, Gino & Michele, Mara Venier, Valerio Staffelli); dopo tutto questo, nel 2021, Gabriele Salvatores torna un'altra volta ancora a Comedians. Dal 1986 sono passati 35 anni (il tempo vola; in mezzo è arrivato anche un premio Oscar e una seconda candidatura), gli ultimi due funestati da una pandemia cui Salvatores ha tentato di reagire cucendo insieme il film collettivo Era primavera. E' probabilmente gratuito, ma non assurdo, leggere Comedians come un film post o infra pandemia. Quando portò in scena per la prima volta Comedians, Salvatores aveva 36 anni; oggi ne ha più o meno il doppio; e se allora il testo sembrava una miniera inesauribile, un universo in espansione, potenziale generatore di mille storie, di mille rivoli narrativi e drammaturgici, ora il regista agisce in senso diverso. Asciuga, riduce, riporta il testo all'essenziale, il più vicino possibile al testo originale di Griffiths. Certo, molte battute sono intraducibili, certi personaggi vanno ricontestualizzati dalla Manchester anni '70 alla realtà italiana (l'irlandese dell'originale diventa, come nelle versioni precedenti, un meridionale), ma Salvatores toglie ogni orpello, ogni deviazione, ogni aggiunta, ogni invenzione, perfino ogni percepibile aggiornamento cronologico; non solo dallo sviluppo della pièce, ma anche dalla sua messa in scena (a settembre 2020 si raccontava ad esempio di una scena di burlesque in un night, con tanto di pubblico e ballerina in abiti succinti, di cui nel film non è rimasta la minima traccia), realizzando un film per il cinema di stretto impianto teatrale. Un breve prologo; tre atti canonici, un epilogo. Il primo e terzo atto si svolgono in una polverosa aula scolastica (come forse non ne esistono più) mentre fuori è buio e infuria il temporale. Nel primo atto sei aspiranti comici (o stand up comedian, all'inglese) si preparano per un'audizione, cui sarà presente Celli, un impresario in grado di offrire contratti teatrali e addirittura televisivi, e ripassano gli insegnamenti impartiti loro dal loro maestro Barni; nel terzo, nella stessa aula, i sei si ritrovano, tra dubbi e rinfacci reciproci, ad affrontare il verdetto dell'impresario. Il secondo atto prevede un cambio di scena e si svolge nel teatro dove avviene l'esibizione. Ma ogni contesto è cancellato; teatro, pubblico, talent scout, tutto rimane invisibile in un buio totale che lascia alla ribalta solo i sei commedianti che si giocano il futuro in una manciata di minuti, sotto il cono luminoso dell'occhio di bue. Ma a confrontarsi, in Comedians, non sono solo i sei attori, ma anche due concezioni della comicità: quella umanistica e quasi terapeutica propugnata da Barni, per il quale la comicità deve essere un lavoro di ricerca che deve far riflettere lo spettatore sulle proprie debolezze e sulle proprie contraddizioni, per aiutarlo a superarle; e quella incarnata da Celli, l'impresario pragmatico fino al cinismo, per la quale la comicità è intrattenimento, distrazione dai problemi quotidiani, per necessità compiacente verso un pubblico che va blandito e intrattenuto, non infastidito, annoiato o – peggio - imbarazzato. Qualcuno ce la farà, qualcuno no. Qualcuno terrà fede alla propria poetica e agli insegnamenti del proprio maestro, altri li tradiranno in nome della sete di fama e successo. Alcuni riusciranno forse ad uscire dalla mediocrità delle proprie vite e dei propri mestieri; altri, il giorno dopo, torneranno a recitare nella commedia della vita, dove c'è posto proprio per tutti. Salvatores dirige un film autunnale, dall'atmosfera cupa e claustrofobica, dove gli albori dei sogni di gloria dei protagonisti sono raccontati con toni paradossalmente già crepuscolari e dove una storia che parla di comicità, con protagonisti dei comici interpretati da attori comici, riesce tutto sommato nell'intento di far ridere poco. Gli stessi attori sono frenati, trattenuti dal regista sui toni bassi di clown già tristi; alla fine ad emergere sono Walter Leonardi, cui spetta il ruolo più estroverso; Natalino Basso, il comico che non ride mai e non fa mai una battuta, perfetto nel mantenere il sottotono assegnatogli; e Christian De Sica, di equilibrio impeccabile nel non togliere ad un personaggio antipatico un tocco di umanità e di verità. BECKETT di Ferdinando Cito FilomarinoE' sorprendente trovare la firma di Ferdinando Cito Filomarino in calce a questo action-movie pieno di lotte e inseguimenti nel catalogo Netflix. Il regista ha infatti diretto in precedenza un unico film, Antonia, un ritratto prezioso e delicato della poetessa Antonia Pozzi suicidatasi negli anni '30 in giovane età. E non si tratta del solito caso del regista europeo rapito da Hollywood e messo ai remi di qualche galera-blockbuster: Beckett è infatti un progetto europeo concepito da cineasti milanesi, scritto e diretto dallo stesso Cito Filomarino, prodotto dall'amico Luca Guadagnino (con dovizia di mezzi: cast internazionale, varietà di location, molte riprese in esterni), girato in Grecia, con una struttura narrativa all'americana ma un afflato politico più europeo. Il canovaccio è schiettamente hitchcokiano, con un uomo comune americano (come in Intrigo internazionale) invischiato (all'estero, come ne L'uomo che sapeva troppo) in intrighi criminosi e costretto a fuggire e a svelare le oscure macchinazioni in cui è rimasto suo malgrado coinvolto; situazioni già ampiamente citate e omaggiate nel Frantic di Polanski. Stavolta si tratta di un turista americano che, dopo un grave incidente d'auto avvenuto per colpa sua, e in cui ha trovato la morte la sua compagna, sul punto di togliersi la vita per il rimorso, si trova paradossalmente a lottare con le unghie e i denti per conservarla, inseguito da spietati assassini, alcuni dei quali vestono le divise della polizia. Dal paesino dell'entroterra montuoso greco in cui si trova comincerà una lunga e affannosa fuga fino ad Atene. Ma raggiunta l'ambasciata americana le sue peripezie sono tutt'altro che finite. Siamo in una Grecia in piena crisi economica, assoggettata alle pesantissime condizioni della Ue e del Fmi, scossa dalla nascita di movimenti di sinistra (v. Syriza) e dal tramare nell'ombra di movimenti di estrema destra (v. Alba Dorata). Il thriller si tinge ben presto di tinte politiche, richiamando alla memoria i film di Pollack (I tre giorni del condor) o di Pakula (Tutti gli uomini del Presidente) della New Hollywood degli anni '70. Il film ha ricevuto sugli aggregatori di giudizi opinioni tiepide o contrastanti. Troppo americano? Troppo europeo? In realtà Cito Filomarino gestisce bene le sue ambizioni, dosa saggiamente spettacolo e discorso politico, pieni e vuoti narrativi, senza mai far calare la tensione, inanellando abilmente in corsa personaggi e situazioni, con uno sguardo sulla Grecia, i suoi abitanti e i suoi paesaggi, che non cade mai nello stereotipo all'americana. Dall'inizio alla fine il film non abbandona mai il suo personaggio, imponendo a John David Washington (già campione di football - e ai suoi eventuali stuntmen) un notevole tour de force fisico e interpretativo. Un corpo non a caso “nero” e sempre più trasandato, inseguito da uomini in divisa sulle rotte percorse da tanti immigrati, ma anche aiutato da tante persone generose incontrate sul suo cammino. La sceneggiatura offre qualche ambiguità e riserva nel finale qualche prodezza di troppo al suo eroe per caso e per forza; ma Beckett traccia comunque con bella disinvoltura ed autorevolezza una via italiana ed europea al thriller d'autore. ESTATE 85 (Eté 85) di Francois OzonAlexisOzon è un regista discontinuo che ha girato film improntati ad uno stretto realismo e altri estremamente stilizzati o decisamente metaforici, drammi contemporanei e film in costume, film liberi e assoluti e altri che corteggiavano i generi cinematografici codificati. Estate 85 è uno strano prodotto, abbastanza difficile da definire. Si tratterebbe di una classica storia boy meets girl, ma nella variante omofila boy meets boy: di fronte alle scogliere bianche di Le Tréport, in Normandia, Alexis è infatti salvato dalle acque, dove è naufragato con una barchetta a vela, da David, che non ci mette molto a sedurlo. David è più grande di lui, più temerario e sfrontato, più ricco (aiuta la madre in un negozio di articoli – metafora – da pesca), più affamato di vita e di avventura. Insieme vivranno nello spazio di un'estate una breve ma intensissima storia d'amore, che attraversa in un lampo bruciante tutte le tappe: conoscenza, attrazione, seduzione, innamoramento, desiderio, sesso, amore, avventura, libertà, assuefazione, tradimento, abbandono, fino ad un epilogo tragico. Che però è solo metà della storia, perché noi ne ripercorriamo le vicende a posteriori, attraverso la rielaborazione di Alexis, intento a scrivere un diario chiarificatore per sé e per gli altri, e per l'assistente sociale e un suo ex-insegnante che indagano sull'accaduto in visto di un processo che si dovrà celebrare. Il gioco con i generi è ambiguo: si ha l'impressione Ozon giochi a raccontare il suo film come se fosse Il tempo delle mele (uscito 5 anni prima) in versione omo, quando le carte si scoprono con una citazione eclatante (in colonna sonora stavolta, viste anche le circostanze del primo incontro e il valore metaforico del testo, c'è Sailing di Rod Stewart). Ma fin dal prologo si sono poste delle premesse noir (con la passione necrofila del protagonista, la prefigurazione di una morte e della presenza di un cadavere), che dovrebbero dare una svolta al tono del racconto. Ma non siamo dalle parti del quasi contemporaneo dramma pure francese de La ragazza con il braccialetto; a sorpresa, il noir si stempera (nella fedeltà al titolo del libro di Adam Chambers da cui è tratto, Danza sulla mia tomba), riprende vigore il melodramma giovanile (non senza divertimento) e lo scioglimento sfiora un inaspettato happy end. Eppure la morte (quella narrata nel film è quasi un'anticipazione) incombe dietro la scogliera di questa estate luminosa, piena di salsedine, di vele al vento, di corpi nudi, di sfrenate corse in moto: poche settimane dopo i fatti narrati, mentre Ozon sta per compiere 18 anni, Rock Hudson è uno dei primi personaggi pubblici a morire di Aids e l'avvento funesto della malattia cambierà per sempre il modo di vivere la sessualità, in particolare quella omosessuale. Le aspettative dello spettatore vengono spiazzate e deluse quasi quanto quelle di Alex, che ha un modo di vivere la propria storia d'amore tutto differente da quello del suo compagno. Cosa abbiamo visto/vissuto, insomma? Probabilmente null'altro che questo: la rievocazione di un tempo dell'innocenza, già pronto a trasformarsi in dolore. E' lecito chiedersi come sarebbe stata accolta criticamente (e quanto sarebbe stata tollerabile) una narrazione con un analogo tasso di convenzionalità se si fosse trattato della storia d'amore tra un ragazzo e una ragazza anziché tra due ragazzi maschi? Difficile dirlo; certo Ozon dissemina il film dei propri temi delle proprie predilezioni, come il tema della scrittura già presente Nella casa, o quello del travestitismo in Una nuova amica, o quelli già più volte trattati del lutto o dell'omosessualità Efficaci i due giovani protagonisti, Benjamin Voisin e Félix Lefebvre, entrambi insigniti del premio Lumiere e candidati al Cesar; le madri dei protagonisti sono Isabelle Nanty (già vista ne Il favoloso mondo di Amelie) e l'ineffabile Valeria Bruni Tedeschi, a proposito della quale persiste l'eterno dilemma: non sa recitare o recita con sublime arguzia la vita delle persone che nella vita reale non sanno di dover ben recitare? BOYS di Davide Ferrario-TSpiace sempre parlare male di un film, e ancora di più parlare male di un film italiano. D'altra parte si vedono di più i difetti delle cose che ci stanno più vicino (all'opposto di questo paradosso ci sta il favore spesso sproporzionato di cui gode l'esotico cinema d'Oriente agli occhi della critica occidentale). Faccio questa imbarazzata premessa perché Boys mi è proprio sembrato un film poco riuscito. L'idea forse era buona, riunire un gruppo di attori italiani non più giovani e fargli interpretare i componenti di una rock band di un certo successo negli anni '70; dare ai quattro (uno in realtà è il fratello più giovane del quarto componente, scomparso anni prima) l'occasione di un'ultima fiammata di notorietà, quando un giovane trapper è indotto a realizzare la cover di un loro vecchio pezzo per acquistare i favori della critica più snob e attempata; e spedirli ad ottenere il consenso alla cessione dei diritti anche da parte della ex-cantante della band, che ora vive nella campagna molisana; così i quattro intraprendono un viaggio che ha finalità commerciali ma anche un viaggio sentimentale nel passato. Ma ben poco funziona nel film, a cominciare dal disegno dei personaggi che è fiacco. Sia come gruppo sia individualmente i personaggi non brillano certo di simpatia e di vitalità. Nel presente ciascuno si è adattato alla prosaica realtà dei tempi e dell'età, ma anche dal loro passato, per quel che è dato saperne, ben poco emerge dello spirito rock, ribellistico e politico degli anni '70. I quattro musicisti sembrano degli anziani non particolarmente vivaci, abbarbicati al totem delle loro vecchie canzoni; i pezzi della band erano stati scritti dal membro scomparso e loro continuano a macinare i loro immutabili pezzi del passato, mentre ben poca altra musica si ascolta nel film che non siano i loro brani (scritti e musicati nella realtà da Mauro Pagani). Anche il viaggio attraverso l'Italia ha ben poco di quello che ci sia spetta dall'avventura on the road, in un itinerario praticamente privo di paesaggi e di contesto sociale. Il racconto si disperde in zone morte, tra una lunga sequenza in piscina o le gag (poco o affatto divertenti) sul tumore alla prostata di uno dei protagonisti e sulle sue conseguenti difficoltà erettili. Per il resto ci si aggira nei territori della prevedibilità, tra revival di storie sentimentali, il trapper convenientemente stupido e ottuso e la sua agente prevedibilmente antipatica e stizzosa, la cover ovviamente oscena (ma perfino il video trap che dovrebbe essere parodistico è sciatto e privo di verve) e nessuno dubita di come andrà a finire all'atto della firma del contratto. Purtroppo non funziona nemmeno il comparto attoriale, che avrebbe potuto essere l'ancora di salvezza del film. Ferrario mette insieme un quartetto d'attori (Storti, Paolini, Marcoré, Tirabassi) di formazione diversa ed eterogenea (un cabarettista, un attore teatrale, un eclettico conduttore-imitatore-attore-musicista e un attore di cinema-tv-teatro) e impone loro un registro costantemente sottotono, in surplace, che non riesce però mai a dare un guizzo né ai singoli personaggi né alle dinamiche di gruppo, fornendo l'impressione alla fine di un ensemble poco affiatato. Né Ferrario riesce nell'intento di conferire fascino o funzione comica ai personaggi, maschili e femminili, di contorno. Un'occasione sprecata; a pensarci a posteriori, anche il titolo del film, che è quello della band, suona profeticamente privo di fantasia e di spirito. FIRST REFORMED - LA CREAZIONE A RISCHIO (2018) di Paul SchraderSiamo arrivati al momento in cui diversi registi, di differenti generazioni, hanno stilato con le proprie opere più recenti una sorta di bilancio della propria esistenza e della propria carriera cinematografica. E' il caso di Woody Allen, che con il suo Festival ripropone in forma definitiva la propria visione del Cinema e della Vita (e della Morte) con il consueto garbo e humor; di Martin Scorsese, che con The Irishman ricapitola e sigilla con lucidità l'epopea del proprio cinema sullo sfondo della Storia americana; di Pedro Almodovar, che con Dolor y Gloria mostra limpidamente il processo con cui l'autobiografia si fa cinema (e viceversa). Lo stesso discorso si potrebbe fare per Paul Schrader, che, alle soglie dei 75 anni, con First Reformed (disponibile su Netflix), nel 2017 torna alle fonti del proprio cinema e le rievoca intrecciandole alle reminiscenze del cinema più amato. Interessato fin dalla tesi di laurea (dedicata a Ozu, Bresson e Dreyer) alle tematiche della trascendenza e a quelle dell'innocenza e della colpevolezza dell'essere umano, Schrader pone direttamente al centro del suo film la figura di un sacerdote. Toller (letteralmente, colui che riscuote il pedaggio, ma anche colui che suona le campane della chiesa) è un pastore di mezza età (interpretato da Ethan Hawke che mette a disposizione il suo sofferente volto di ex-ragazzo sciupato), di una piccola chiesa storica di una città di provincia, tormentato dai sensi di colpa per aver spinto ad arruolarsi il figlio che ha poi trovato la morte in Iraq, morte che ha decretato anche la fine del suo matrimonio. Toller beve, scrive un diario in cui riflette sul proprio operato, i propri dubbi, e quelli che ritiene i propri peccati di orgoglio, e intanto tenta di prendersi cura delle anime della propria comunità. Il suicidio di un parrocchiano che gli aveva confessato la propria angoscia per il precipitare della crisi ecologica e la sorte della Terra, e che non vuole vedere il proprio figlio nascituro crescere in un mondo devastato dall'inquinamento e dai cambiamenti climatici, e il rapporto con la sua giovane vedova (che nel garage di casa ha trovato tra le cose abbandonate dal marito anche un giubbotto esplosivo), finirà per sconvolgere definitivamente il suo fragile equilibrio. Anche se può non sembrare a prima vista, First Reformed riprende il nucleo tematico e le figure simboliche di Taxi Driver (già replicate in un'altra variante, ad esempio, ne Lo spacciatore), la sceneggiatura di Schrader portata magistralmente sullo schermo nel 1975 dallo stesso Martin Scorsese, in un film epocale e seminale. C'è il Moralista, che ha conosciuto il Male del mondo (Bickle in prima persona nella guerra del Vietnam, Toller con la morte del figlio in – un'altra – guerra “senza giustificazione morale”, in Iraq); un mondo corrotto e degradato (in un caso la New York violenta e sporca piena di prostitute, e pornografia, spacciatori di droga e violenza; nell'altro l'intero pianeta, portato sulle soglie della distruzione totale dall'azione sconsiderata dell'umanità, animata solo dalla fame di profitto); l'Innocenza corrotta (la baby-prostituta in Taxi Driver; il povero Michael portato a concepire atti di violenza dalla propria disperazione morale, e ancor più la sua vedova lasciata da sola ad attendere la vita che verrà – il cognome dei personaggi è Mensana, il cui significato latino di certo non sfugge a Schrader); l'individuazione nel Potere costituito dei mali della società (il senatore Palantine da una parte; il sindaco, il governatore, i membri della congregazione religiosa, l'industriale inquinatore sponsor della Chiesa dall'altra); l'Azione di giustizia concepita dai protagonisti sotto forma di strage cruenta (con tanto di vestizione rituale preparatoria): nello stesso tempo punizione simbolica dei malvagi e dei corrotti e testimonianza attraverso il proprio sacrificio del male del mondo e del rifiuto etico di essere conniventi con esso. Il ritorno alle origini del proprio peculiare nucleo tematico e narrativo si intreccia però strettamente, come dicevo all'inizio, all'omaggio non certo gratuito al cinema da Schrader più amato. Adeguandosi anche nello stile severo e sobrio della narrazione (con l'importante eccezione dell'incongrua sequenza onirica, in cui Toller e Mary Mensana, sdraiati uno sopra l'altro come in una doppia crocifissione, sorvolano prima meravigliosi panorami naturali, e poi paesaggi sconvolti dalla devastazione portata dall'azione dell'uomo), Schrader cita alcuni dei suoi Maestri attraverso opere che avevano per protagonisti figure di religiosi. Innanzitutto naturalmente Il diario di un curato di campagna, citazione lampante in quanto anche in First Reformed la cornice narrativa è fornita dal diario che il protagonista decide di tenere e che lo vediamo spesso intento a scrivere (lo stesso Bickle di Taxi Driver ne teneva a sua volta uno). La questione dell'etilismo, la malattia, l'esame di coscienza attraverso la scrittura, il rapporto con un altro religioso più realista e pragmatico, le immagini del prete che scrive o corre in bicicletta sono tutti elementi che derivano dall'opera di Bresson. Ma una terza opera completa il quadro dei riferimenti: si tratta di Luci d'inverno, di Ingmar Bergman, di cui ritroviamo i paesaggi invernali, il parrocchiano in attesa di un figlio e ossessionato dai timori per il futuro dell'umanità, l'appuntamento rinviato, il suicidio con un colpo di fucile, la donna innamorata del prete e da questi rifiutata. First Reformed appare quindi in definitiva come un canovaccio con la struttura di Taxi Driver, sul quale Schrader intesse e disegna le figure ispirate dal cinema amato di Bresson e di Bergman. Se Schrader aveva scritto la sua sceneggiatura capolavoro in gioventù, in un momento di depressione e di solitudine, a 70 anni suonati lo troviamo a firmare un film altrettanto se non più desolato e insoddisfatto (forse anche di se stesso), dove il malessere esistenziale di Travis Bickle si espande ad una dimensione cosmica ed escatologica, e dove ancora forte è l'ambizione di trascendere le brutture del mondo, o di ribellarglisi, rinfacciandogli con violenza i suoi peccati ed espiando i propri in un martirio cruento. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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