BONES AND ALL di Luca GuadagninoVerrebbe da chiedersi come mai il cannibalismo, in varie declinazioni, è negli ultimi tempi al centro di tante narrazioni contemporanee. Ai casi d’autore si affianca tutta una produzione, molto spesso mainstream e rivolta al pubblico giovane o adolescenziale, che affronta il tema attraverso la riproposizione di figure classiche della letteratura e del cinema dell’orrore come i vampiri e gli zombi, che hanno dilagato ormai in forma coerentemente virale nelle filmografie di tutti i continenti e tutte le latitudini, e che hanno coinvolto anche figure insospettabili come l’Hazavavicius di Coupez! (“contagiato” dal nipponico Zombie contro zombie).
Siamo lontanissimi dallo sguardo compiaciuto etnico-morboso dei cannibal movie alla Deodato; i protagonisti non sono più i selvaggi che vivono in selve esotiche, ma le brave studentesse adolescenti di Raw della Ducorneau, le famigliole di Wea Are What We Are di Mickle, i raffinati intellettuali di Divorati, primo e finora unico romanzo del Signore del body horror filosofico, David Cronenberg. Siamo lontani anche dalle metafore socio-politiche di Romero, dalla concezione hobbesiana dell’homo homini lupus, o dalle divertite riflessioni sulla dimensione consumistica del cannibalismo dello stesso Cronenberg romanziere. Ad essere vampiri o cannibali sembrano piuttosto essere persone “normali” in una società “normale” o “normalizzata”, segnate da un destino iscritto nel sangue e nell’ereditarietà, che le rende aliene al consesso umano, diversi ed eccezionali, come copie invertite e negative dei supereroi, intimamente rosi dalla loro fame/sete e dal senso di colpa. Sono due adolescenti affamati, autoemarginati, orfani di genitori mostruosi, condannati ad una vita segreta e perennemente in fuga anche i due protagonisti del romanzo della scrittrice (vegana) Camille DeAngelis, adattato da David Kajganich e portato dallo schermo da Luca Guadagnino. Difficile dire cosa abbia portato il regista italiano (alla sua prima trasferta oltreoceano) a sposare il genere horror, prima rifacendo il Suspiria di Dario Argento, ora con Bones and All; poi progettando (a quanto dice lui stesso) addirittura un remake de La mummia. Bisogna dire però che, dopo un Suspiria goffo, poco pauroso e poco ispirato, infarcito di pretesti storico-intellettualistici (il terrorismo tedesco, i campi di sterminio) pseudo-nobilitanti, nel nuovo film sembra trovare una dimensione a lui molto più consona. Il contesto storico-politico rimane stavolta nello sfondo sonoro, evocato appena dalle voci delle radio o delle tv. All’interno di un contesto horror molto efficace, capace, com’è doveroso, di istillare disagio e disgusto nello spettatore, il film imbastisce invece una solida tessitura interna che parla delle relazioni umane e dell’amore; di amicizia, solidarietà, solitudine; della necessità di avere padri e madri e del bisogno di staccarsene; del bisogno di avere dei figli in cui rivivere e a cui trasmettere le proprie conoscenze; del tempo che passa e della memoria. Bones and All è uno strano horror on the road - e sempre per dirla all’anglosassone è anche un romance, un boy meets a girl movie, un coming of age - con ambientazioni open air o in ambienti domestici (tutti ben fotografati da Arseni Khachaturan) e ordinari, con pochissime uccisioni, moltissimi racconti raccapriccianti e profluvi di sangue, pervaso da una sporcizia sanguinolenta che cerca una nuova estetica della bellezza delle immagini e contemporaneamente genera una nausea disturbante. Ma tutto il suo percorso è costellato di separazioni e ricongiungimenti famigliari – in entrambi i casi traumatici -, di fotografie e memorie domestiche, di lettere e di audiocassette tramandate dai padri e dalle madri, di sorelle lasciate indietro e ritrovate, di madri che cullano neonati alla finestra, di vecchi che cercano di trovarsi la figlia che non hanno avuto respirandone l’odore (Mark Rylance, attore shakespeariano, è magistrale nell’impersonare un drop out malinconico e solitario, assettato di carne e di consanguineità), di cannibali che cercano di inventarsi fittizie e trasversali fratellanze, di appartamenti dove ogni dettaglio racconta una storia ed evoca un ricordo; di incolpevole rimorso verso il proprio passato e di preoccupazione per un futuro maledetto da una fame inesauribile. Belli e dannati, esemplari di una gioventù cannibale e legati da un amore altrettanto cannibale, Maren e Lee attraversano insieme la loro educazione sentimentale, sessuale e carnale; corpi estranei destinati a fondersi in un finale dovuto ma non del tutto convincente. Se precedenti di teen-horror romantici non mancano (la saga di Twilight tra tutti), Bones and All vira verso una dimensione più radicale. Come in Black Hole, la graphic novel archetipica di Charles Burns, la scoperta della sessualità passa attraverso la scoperta del proprio e dell’altrui corpo, in quella mutazione che trasforma i corpi dell’infanzia nei corpi dell'adolescenza, improvvisamente alieni, mostruosi, tentatori e ripugnanti, generatori al contempo di paura e di disgusto, di colpa e di attrazione, di meraviglia e di desiderio; di fame di un frutto proibito conturbante e carnale. Guadagnino fa una cosa che gli piace e gli riesce bene, filmando i corpi dei suoi adolescenti, quello efebico di Chamalet e quello imperfetto e acerbo della Russell (premiata a Venezia insieme alla regia di Guadagnino), ma glissa sulla rappresentazione del sesso (l’unica scena vista di scorcio riguarda un rapporto omosessuale che è in realtà una trappola mortale). In una storia carnale nella sua essenza, il regista mette in scena un amore adolescenziale sostanzialmente casto, cui fa da contrappunto la colonna sonora dalle tentazioni elegiache di Trent Reznor e Atticus Ross, una delle scelte a mio parere meno riuscite del film. Salvo diventare un amore bones and all, un amore che divora e si fa divorare. Da uno spunto risibile, il film complessivamente forse più convincente di Luca Guadagnino.
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NOTTE FANTASMA di Fulvio RisuleoRisuleo dice di aver cominciato a scrivere Notte fantasma da un'immagine (un poliziotto che costringe un giovane a ballare con una donna) e dall'idea, oggetto di discussione con gli amici, di un poliziotto fuori di testa, ovvero il tema dell'esercizio del potere da parte di un uomo psicologicamente disturbato. Un'idea quest'ultima molto di attualità, visto i pazzi che si divertono a lanciare missili micidiali, quelli che uccidono ragazze per un ciuffo fuori posto, o quelli freddamente lucidi che infliggono al mondo intero i loro mostruosi deliri imperiali (e magari il finale fosse, almeno in qualche caso, analogo a quello del film). La declinazione del tema prevede stavolta che un ragazzo romano (figlio di immigrati), venga fermato di notte da un poliziotto in borghese (purtroppo per lui ha comprato un po' di fumo in un giardinetto per fare un piacere agli amici) e venga da questi praticamente tenuto in ostaggio per tutta una lunga notte, trattato di volta in volta come un criminale, come una vittima divertente, come un giocattolo, come un compagno d'avventure, o come un figlioccio putativo. Tra paura e sconcerto, il giovane Tarek si vede trascinato in un'odissea notturna di incontri e di scontri (umani e automobilistici), danze forzate e posti di blocco, visite familiari ai vivi (la figlia del poliziotto) e ai morti (in un cimitero deserto). Dall'archetipico Cattivo tenente in poi si erano già visti poliziotti fuori di testa; si erano già visti film che descrivevano la loro parabola narrativa tutto in una notte fino alle prime luci dell'alba che dissolvono i fantasmi notturni; e si erano già visti film di strana coppia, con personaggi apparentemente lontanissimi e inconciliabili che alla fine trovavano un loro umano punto d'incontro. Nulla di particolarmente innovativo quindi nel progetto narrativo di Fulvio Risuleo, che oltretutto gira con un budget visibilmente limitato. Di nuovo c'è l'idea di girare un neo-noir italiano, girato in una Roma assai poco cartolinesca, nelle strade notturne semideserte, tra archi, ponti, cunicoli sotterranei, colombari, e di mescolarlo (per sua stessa ammissione) con il genere nazionale per eccellenza, quello della commedia all'italiana, confrontandosi a distanza in particolare con la strana coppia formata da Gassman e Trintignant ne Il sorpasso di Dino Risi. Il vero asso nella manica del film è rappresentato dalla scelta di casting che affida il ruolo di Tarek al giovane esordiente Yothin Clavenzani, con un fisico totalmente anticinematografico e una recitazione naif, pettinato e vestito in maniera sciatta e ordinaria, credibilissimo nella parte del ragazzo qualunque spaventato e disorientato piombato improvvisamente in un'avventura sgradevole e dagli esiti imprevedibili. Il suo aguzzino (dal volto però umano) è interpretato da Edoardo Pesce, che torna a lavorare con Risuleo dopo Il colpo del cane e che ha l'occasione di sviluppare in un ruolo da protagonista il carattere da villain già ammirato in film precedenti come Fortunata, Cuori puri o Dogman. Con risultati forse un po' inferiori alle aspettative, probabilmente anche perché la sua cattiveria deve essere continuamente trattenuta al fine di costruire un personaggio ambivalente, che deve essere pronto a svoltare verso risvolti più umani. In effetti forse quello che manca al film è un senso maggiore del pericolo; una mancanza che toglie un po' della tensione necessaria al noir avvicinando maggiormente il genere del film in definitiva a quello del confronto/scontro di caratteri. AMSTERDAM di David O. RussellE' un bel pasticcio Amsterdam. Titolo breve, secco, apodittico, ma che rimanda però solo ad una parentesi nella storia del film, dove si configura quello che per i tre protagonisti rimarrà un paradiso perduto e rimpianto (senza peraltro che nessuno degli attori abbia effettivamente messo piedi nella città olandese). E poi una definizione dei personaggi che attribuisce la voce narrante ad un protagonista (Christian Bale), che racconta la storia di amicizia e di amore tra tre personaggi (lui, Margot Robbie e John David Washington), ma che si frantuma in una galleria composita di figure che faticano a rimanere secondarie, anche per le scintillanti scelte di cast (Rami-“Freddie Mercury”-Malek, Taylor Swift, Mike-“Austin Powers”-Myers, Anya-“la regina degli scacchi”-Taylor-Joy, Michael Shannon, Zoe Saldana, Chris Rock, Robert-“nientepopodimenoche”-De Niro. E poi apparente unità di stile, al servizio però di una narrazione asincronica, ondivaga e divagante. Dove si accumulano molte cose. Ad esempio, solo per dirne alcune, il dramma, la commedia, il giallo chandleriano, la spy story, l'avventura, il film bellico, la love story, il buddy movie, la rievocazione storica, il racconto politico, lo svelamento complottistico, l'antirazzismo, l'ucronia; e poi Jules e Jim a pioggia, e Chinatown, e Casablanca, e Addio alle armi e Il grande dittatore; l'arte surrealista, i filmati di repertorio, il potere dell'immagine, il fascino del mostruoso e del bizzarro, l'allusione al nostro infelice presente storico-politico. Eppure la mole di citazioni, di temi, di generi, di attori iconici, non bastano a produrre un bel film. Non basta neanche David O. Russell, che con una mano scrive e con l'altra dirige, e che pensa di essere intelligente, brillante, originale e anticonvenzionale, ma che non riesce a trovare una misura in grado di suscitare l'interesse dello spettatore, né a far spiccare il volo al film, né visivamente (malgrado il fascino indubitabile ma episodico) né narrativamente. I molti motivi di attrazione sembrano non ingranare l'uno nell'altro, o non si avviano per niente. La narrazione ristagna, divaga, si ripete, senza che questo andamento sbandato riesca a conseguire una reale necessità poetica o anche semplicemente ludica. Una didascalia iniziale avverte che molto di quello che si vede è realmente accaduto, ma anche questo non è del tutto vero, e prima di arrivare al finale in cui si svela il complotto (storicamente accertato anche se non punito) che ha visto coinvolti loro malgrado gli inconsapevoli protagonisti, e che conferisce il senso dell'operazione e il portato politico del film, arriva dopo quasi due ore di narrazione estenuante, dove si sorride ogni tanto, si gustano le performance degli attori, e per il resto ci si annoia senza rimedio, chiedendosi pigramente dove Russell voglia andare a parare. Intanto gli attori vagano qua e là, discettano di amore e di amicizia, di solidarietà e di fedeltà, di rispetto e gentilezza, di ingenuo anticapitalismo; mostrano cicatrici e perdono occhi, scoprono complotti e fanno discorsi, zigzagando tra fronte di guerra, ospedali, ville lussuose, fumose strade newyorkesi anni '30, una pseudo-Amsterdam bohemienne dal sapore parigino. Peccato, perché ci sono una montagna di motivi per dire “che peccato”. Ad iniziare dalla rievocazione di un episodio storico poco conosciuto (un progetto di colpo di stato da parte del potentato politico-economico americano, che guardava come un modello le dittature europee coeve instaurate da Mussolini o dal giovane Hitler), che riecheggia esplicitamente le tentazioni golpiste di Donald Trump culminate nell'assalto a Capitol Hill; e poi il cast così bello (che non si lascia per nulla intimidire dall'inconsistenza della storia) e così sprecato, molto più ispirato di quanto non lo sia il film stesso; e poi l'intelligenza di Russell, che traspare anche dietro il fallimento; e Robert De Niro, che ormai le sue interpretazioni migliori le regala esclusivamente ai margini dei film di Russell (vedi Il lato positivo, che resta il suo film più riuscito); e poi la Robbie, che è una grande attrice (vedi alla voce Tonya), ma che rischia di non farsene accorgere, offuscata dalla sue indicibile bellezza per la quale non so trovare aggettivi... |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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