IL 2018 AL CINEMA - SECONDA PARTE: I MAGNIFICI 7 (+7+7): GLI IMPERFETTI, I COERENTI, I PREFERITI12/30/2018 GLI IMPERFETTI:Tralascio tanti film buoni o discreti, di cui è valsa comunque la visione. Passando a opere che mi hanno interessato di più, comincio da un gruppetto di film imperfetti per diversi motivi e in misura assai differente, che però mi sembrano meritevoli per differenti motivi. Dentro questo contenitore ci stanno film di autori che stimo moltissimo e altri di autori che non citerei mai tra i miei preferiti in assoluto. A cominciare, un po' per snobismo al contrario, da due registi italiani regolarmente bistrattati, ma autori di spicco in un cinema italiano medio che per fortuna vantano un buon seguito di pubblico: lo scombiccherato Napoli velata e il corale A casa tutti bene, rispettivamente di Ozpetek e di Muccino. Di scarso credito ha goduto anche Doppio amore di Ozon (un autore che ha altre volte ha avuto la critica dalla sua parte), a mio parere un intrigante thriller erotico che discende dalla linea Hitchcock-De Palma incrociato con Cronenberg. Tra gli italiani, anche se con un film in un certo senso di routine, mi sembra poi che Sollima abbia fatto un'ottima figura hollywoodiana dirigendo il seguito di Sicario, Soldado. Strampalato (forse meno di quanto sembra, come cerco di dimostrare nella mia recensione) ma simpatico anche Troppa grazia, di Zanasi (?). Kechiche persegue un'idea di cinema che mi intriga molto (penso di aver scritto una recensione di una certa sagacia interpretativa), ma con Mektoub perde decisamente la testa per i culi femminili. Affascinante, ma un po' stucchevole. Un altro capolavoro cercato, ma mancato: Cold War di Pawlikowski. Forse l'ho affrontato con aspettative eccessive, dopo aver apprezzato tanto Ida. Grande regia, fotografia e interpreti, ma su una sceneggiatura talmente ellittica da risultare lacunosa. Quindi: Gli imperfetti:
I COERENTI:Tra i film in certo modo più compatti e coerenti, anche se magari “minori” per ambizioni, citerei insieme Charley Thompson e Senza lasciare traccia, il primo di Andrew Haigh e il secondo di Debra Granik, due bei ritratti di adolescenti ai margini della società. Altre storie di giovani in Girl, diretto da Lukas Dhont e con Victor Polster lo stupefacente interprete di un gender-drama, e Sulla mia pelle, di Alessio Cremonini, che racconta con sobrietà la triste sorte di Stefano Cucchi. Moltissimi hanno stroncato Tutti lo sanno, ma secondo me Fahradi ha diretto un film molto buono, benché non folgorante come alcuni dei suoi precedenti. Se non fosse per le eccessive somiglianze con L'imbalsamatore, considererei Dogman di Garrone un film eccellente, prematuramente escluso dalla corsa agli Oscar. Tra i film di animazione (anche Coco e Gli incredibili 2 sono pixarianamente belli), citerei invece il film di un regista che invece in generale non amo molto: è L'isola dei cani, di Wes Anderson; lo stile freddo e un po' meccanico del regista (amante della simmetria e di un'impassibilità vagamente keatoniana) trova una sua ragion d'essere nell'incontro con la stop motion, con il mondo animale e soprattutto con l'”impero dei segni” nipponico. Quindi: I coerenti:
I MIEI PREFERITI:Siamo giunti ai magnifici sette. Li cito in ordine sparso. Inizio, in via eccezionale, con un film inedito in Italia ma passato per il Festival del cinema africano, d'Asia e America latina di Milano: si tratta di Matar a Jesus (titolo internazionale Killing Jesus), di Laura Mora Ortega: nato da uno spunto (purtroppo) autobiografico è un revenge movie anomalo che tratteggia con grande sensibilità e intensità il rapporto tra una studentessa colombiana e un coetaneo che lei sospetta possa essere il sicario che ha ucciso suo padre. Una sorpresa positiva (pur nella sua sgradevolezza) è stato Il sacrificio del cervo sacro, di un autore “antipatico” come Yorgos Lanthimos: malgrado un finale un po' deludente, forse il vero horror dell'anno, un algido incrocio tra film dell'orrore e tragedia greca, sulla scia di Haneke e di Kubrick. Craig Gillespie, che avevo perso di vista dopo l'interessante Lars e una ragazza tutta sua, ritorna alla grande con Tonya, un film che mi ha riconciliato con il genere biografico, che non amo molto: un cast eccellente su cui svetta Margot Robbie in un'interpretazione che vale una carriera, uno stile sulfureo, un ritratto acidissimo della società americana contemporanea. Altre sono conferme: non altrettanto capace di suscitare innamoramento quanto lo struggente La la land, il First Man di Chazelle è un'ottima conferma di un talento e di una poetica d'autore coerente e sentita. Martin McDonagh realizza quello che è forse il suo capolavoro, Tre manifesti a Ebbing, Missouri, con un cast eccezionalmente efficace e una sceneggiatura audace e strepitosa che scava nella violenza che cova nella società americana. Graditissimo ritorno alle vette di un cinema militante e nello stesso tempo estremamente divertente di Spike Lee con il suo Blakkklansman: una storia vera incredibile, una sceneggiatura imperfetta che si fa perdonare grazie alla passione politica, un culture study su cinema e blackness. Un'altra sorpresa imprevista è stata Summer (Leto), ancora un film biografico (ma tanto l'ho scoperto ai titoli di coda), in cui Kirill Serebrennikov resuscita con tenerezza echi di nouvelle vague cinematografica nel raccontare la new wave del rock russo degli anni '80, attraverso personaggi di ascendenza cechoviana. Quindi: I miei preferiti:
LE ATTRICI E GLI ATTORI:Protagonisti e no, conferme e scoperte (in ordine casuale):
Willem Dafoe (il Van Gogh definitivo in At Eternity's Gate) E poi... le mie delusioni d'autore.
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Tempo di bilanci?
Quest'anno ho visto un centinaio di film “di stagione” (ho guardato alle date in cui li ho visti e non a quelle di uscita in Italia), di cui una ventina visti in festival e rassegne e per ora inediti in Italia. Lasciamo da parte questi ultimi (tranne un'eccezione) e facciamo finta di eleggere i film migliori del 2018. Anzi, comincerò da quello che non è andato nell'annata cinematografica (cliccando sui titoli evidenziati in blu potete leggere le recensioni in Into the Wonderland). Un modo sicuro e relativamente semplice per rendersi impopolari. Beh, ci sono stati film francamente brutti. Per fare solo qualche esempio, tra i film che proprio non mi sono piaciuti ci sono titoli come Un figlio all'improvviso, Tito e gli alieni, Nome di donna, Ride (quello di Rondinelli, non quello di Mastandrea che ha dei motivi d'interesse), Molly's Game. Mettiamo che di questi e di altri non valga la pena parlarne. Poi però ci sono i film premiati e strapremiati, che non mi hanno convinto. La forma dell'acqua, Corpo e anima, Il filo nascosto, Chiamami con il tuo nome (e ancora meno, aggiungo, mi ha preso il remake di Suspiria firmato sempre da Guadagnino, in uscita il primo gennaio). Film tutti con motivi d'interesse, ovviamente. Ma che, direi, come dicono gli amici di Segnocinema, “non ho sentito”. Ci sono poi film che mi sono sembrati particolarmente deboli, ma che sono firmati da autori molto apprezzati (anche per l'impegno politico del loro cinema), ma che non sono mai stati tra i miei preferiti: alludo a titoli come Una questione privata dei Taviani o a La casa sul mare di Guediguian. Poi c'è una lunga serie di delusioni d'autore. Si tratta di opere di registi che ho molto apprezzato (sempre con i dovuti distinguo) in altre occasioni, e che perciò spero di vedere di nuovo al loro meglio. Parlo di Luchetti (Io sono tempesta), di Sorrentino (con l'ambizioso progetto di Loro), di Virzì (Notti magiche), di Van Sant (Don't Worry), di Soderbergh (decisamente meglio La truffa dei Logan che Unsane), uno Spielberg addirittura doppio e quasi agli antipodi, ma entrambi al di sotto delle aspettative (The Post, Ready Player One), di Cantet (L'atelier); e poi di un Polansky un po' stanco (Quello che non so di lei), un Haneke manieristico (Happy End), un Winding Refn ormai perso in un formalismo astratto e fine a se stesso (Neon Demon). ...ma anche... i miei magnifici sette... COLD WAR (Zimna Wojna) di Pawel PawlikowskiL'amore ai tempi della guerra fredda: Wiktor e Zula si amano appassionatamente, si prendono, si lasciano, vengono separati, si ricongiungono, si perdono, corrono verso il proprio destino al di qua e al di là della cortina di ferro, tra la Polonia degli anni '50-60, uscita in macerie dalla guerra e ritrovatasi sotto il giogo comunista, la Berlino divisa, la Jugoslavia del blocco orientale, la Parigi notturna e bohemienne della scena jazz. Pawlikowski porta sullo schermo una storia molto sentita, trasfigurando quella vissuta dai propri genitori, in un arco di tempo di una quindicina d'anni, ma adottando uno stile ellittico che rischia da una parte di non fornire sufficiente sostanza al racconto (che si attarda anche in numerosi inserti musicali), dall'altra parte di rendere oscuri alcuni passaggi narrativi anche cruciali. Assai poco ci viene mostrato della passione che dovrebbe divorare i personaggi e guidarne il destino, e altrettanto poco veniamo a sapere di quelle traversie dei personaggi che rimangono fuori scena, tra matrimoni, figli, spionaggio, clandestinità, prigionia, ecc. E' difficile ad esempio capire perché (se non per una ragione simbolica) una delle scene cruciali del drammatico finale sia ambientata in una chiesa diroccata che avevamo già visto all'inizio del film, ma attraverso gli occhi di un altro personaggio, e che costituisce quindi un ritorno significativo per lo spettatore, ma non per i personaggi, che non sono mai stati prima in quel luogo e che pure lo scelgono come teatro di una decisione fatale. Pawliwoski sembra confidare molto nella forza iconica e nella cinegenia drammatica dei propri attori/personaggi (il pianista tormentato di Tomasz Kot, la bionda fatale di Agata Kulesza, già interprete di Ida, che la macchina da presa sceglie dall'inizio tra le molte aspiranti cantanti/danzatrici dell'accademia Mazowsze per non abbandonarla mai più, neppure nelle scene di gruppo) e punta su una narrazione frammentata, che non sempre predilige gli snodi drammatici naturali del racconto. Adottate alcune scelte estetiche radicali (il formato quasi quadrato 1/1,33, che toglie respiro all'inquadratura comprimendo i personaggi in una scena ristretta, e il bianco e nero profondo e contrastato della fotografia, scelto dopo aver scartato una serie di opzioni-colore che potessero rendere la temperie cromatica dell'epoca e dei luoghi), Pawlikowski centellina gli episodi impaginandoli con una regia elegantissima (giustamente premiata a Cannes), che gioca i raccordi su una raffinata simmetria e che abbassa il baricentro dell'inquadratura relegando (pur in maniera meno accentuata che in Ida) i primi piani nella parte inferiore dello schermo, portando i personaggi al centro naturale dell'inquadratura solo in rare occasioni. Se l'impossibilità di Wiktor e di Zula a vivere insieme è segnata anche dall'innaturale condizione geopolitica in cui si trovano a vivere nell'epoca in cui la guerra fredda divide non solo i territori e le città, ma anche le famiglie, le persone e le coscienze, l'impossibilità di vivere sia in patria (in una condizione di oppressione) che all'estero (in una condizione di estraneità) allude all'ambivalenza in cui tanti si trovarono a vivere, soprattutto in Europa, tra i modelli violentemente contrapposti di un'utopia socialista degradata e fallimentare e di un Occidente dove la presunta libertà si paga a caro prezzo (il locale dove si esibisce Wiktor si chiama L'eclipse, allusione tanto alla tecnica dell'ellissi che alla mancanza di luce). Le opere si giudicano in sé, e non sempre è corretto paragonarle ad altre in termini di riuscita e qualità, ma mi viene spontaneo il confronto, sia pur in termini differenti, con altri due film. Cold War condivide infatti con il precedente capolavoro di Pawliwoski, e parlo sempre di Ida, diversi elementi, come l'ambientazione storico-geografica, alcune tematiche di fondo (tra le quali il conflitto tra due diverse concezioni della vita), alcune scelte estetiche (il formato, il b/n, le inquadrature), la predilezione per la musica jazz; ma, pur con i suoi motivi di interesse, mi sembra complessivamente decisamente meno riuscito in termini di struttura e di necessità narrativa. Come pure mi sembra inferiore a un'opera per certi versi analoga e per certi versi agli antipodi come La La Land. Il paragone può forse apparire azzardato, ma i due film sono accomunati da diversi elementi, quali le professioni artistiche dei protagonisti, la musica jazz come meta delle aspirazioni del protagonista, l'impossibilità di vivere insieme un amore contrastato dai caratteri e dalle vicende della vita, in cui lo stesso successo artistico non garantisce appagamento né serenità, ma anzi sembra in contrasto con la felicità sentimentale. Cold War sembra tradurre la spettacolarità hollywoodiana del film di Chazelle in una versione d'autore europea, più consapevole, cupa e di maggior peso specifico, priva ovviamente della sua forza gentile, lieve e ironica, ma anche del suo struggente romanticismo. VAN GOGH - SULLA SOGLIA DELL'ETERNITA' (At Eternity's Gate) di Julian SchnabelVan Gogh è forse il pittore o l'artista generale preferito dal cinema, che gli ha dedicato film biografici più o meno romanzati, film d'animazione (il sorprendente Loving Vincent, che aveva già avuto un precedente nei Sogni di Kurosawa), documentari. I motivi sono facili da intuire: il suo impeto rivoluzionario nella pittura, la sua vita sregolata (anche se molto infelice), la sua aura di genio incompreso, la vita in povertà, la morte misteriosa (oltre ad aneddoti stuzzicanti come l'amicizia con Gaugin, l'orecchio automutilato immortalato in un autoritratto, ecc.). Stavolta ad avvicinarsi alla sua figura e alla sua arte è un altro artista appassionato della vita di artisti (Basquiat, Prima che sia notte sul poeta cubano Reinaldo Arenas; ma in fondo anche Lo scafandro e la farfalla parlava di un uomo che, come un artista, ricrea la realtà con la forza della propria immaginazione), Julian Schnabel, che ha coinvolto nella scrittura del film uno dei più grandi ed eccentrici sceneggiatori di tutti i tempi, Jean-Claude Carrière (a lungo collaboratore di Bunuel, poi autore delle sceneggiature di film come Il tamburo di latta, L'insostenibile leggerezza dell'essere, Valmont, Cyrano, Il Mahabharata, ecc.). Il Van Gogh di Schnabel non aggiunge molto in termini biografici rispetto a quello che già sapevamo; il suo vuole essere uno sguardo d'artista vicino all'artista, per cui i fatti passano decisamente in second'ordine rispetto alle idee di Van Gogh sull'arte (che emergono in diversi dialoghi, tra cui quelli con il più disinvolto amico Gaugin, con un prete, con l'amatissimo fratello Theo, ecc.) e alle sue sensazioni ed emozioni. Emerge da una parte la consapevolezza del pittore sulla novità e sul portato rivoluzionario e anticipatore della sua arte (ai cancelli dell'eternità, come recita il titolo originale), dall'altro il suo anelito a fondersi con gli elementi naturali - l'aria, la terra, i campi, la luce del sole, i cieli nuvolosi o notturni - in un anelito panico e appassionato che trasfigura la realtà in una pittura quasi materica, dai colori accesi e violenti, lontana dalla pittura accademica del tempo (che lo rifiuta come un eretico o semplicemente come un pittore rozzo e incapace) ma anche dagli esiti degli Impressionisti che pure partivano anch'essi dal desiderio di avvicinarsi alla natura atmosferica. La narrazione, piuttosto classica, è svolta con uno stile invece moderno, con la camera a mano ad inseguire le peregrinazioni anelanti, i campi e controcampi nei dialoghi, la camera fissa sul primo piano del pittore con la testa fasciata, le sfocature, i movimenti che portano la macchina da presa a perpendicolo rispetto al corpo (malato, morto) dell'artista. Se la stragrande maggioranza dei film biografici sugli artisti peccano in aneddotica, trasformando le biografie degli artisti in pittoreschi romanzi dove spesso il personaggio protagonista diventa un nevrotico o un debosciato, di cui è difficile capire la grandezza o l'originalità, tralasciando in gran parte o del tutto la riflessione sulla rispettiva produzione artistica, At Eternity's Gate – e questo è un grandissimo pregio – si orienta invece in una direzione completamente opposta. Non tutto però funziona nelle troppo lunghe due ore di un cinema positivamente ambizioso che appunto non intende raccontare eventi o episodi (rimangono fuori campo l'abbandono di Gaugin e il gesto con cui si recide l'orecchio, e la morte violenta viene liquidata in poche immagini), ma aspira da una parte alle idee e alla riflessione sull'arte nel suo formarsi (nella testa, negli occhi, nelle sensazioni e nelle emozioni dell'artista) e nel suo realizzarsi (nella tecnica, nell'uso dei colori, nel gesto della pennellatura, ecc.). A rendere memorabile il film è però la straordinaria interpretazione (si potrebbe parlare di immedesimazione o di incarnazione, malgrado tra l'attore e il personaggio ci sia un'enorme differenza di età – l'artista morì a 37 anni, l'attore ne ha 63) di Willem Dafoe, che ci trascina con il suo sguardo determinato e insieme sperduto, dolce eppure visionario, all'interno dell'anima del pittore. Dafoe (che insieme a Schnabel ha perfino dipinto dei “Van Gogh” durante le riprese) si candida immediatamente, oltre che ai Golden Globe e ai prossimi Oscar, a diventare per eccellenza l'immagine definitiva di Vincent Van Gogh sugli schermi cinematografici. BEN IS BACK di Peter HedgesChissà perché non tradurre il titolo in italiano. Comunque Ben (Lucas Hedges) è tornato (e con lui anche Julia Roberts, in un'interpretazione appassionata): è stato in una comunità di recupero per tossicodipendenti, e dice che il suo sponsor (cioè il suo tutor) gli ha consigliato di tornare a casa per le vacanze di Natale. La madre (interpretata appunto dalla Roberts; in quasi tutte le recensioni probabilmente leggerete la definizione "madre coraggio") lo accoglie con entusiasmo frenato dal sospetto ma alimentato dalla speranza; i due fratellini stravedono per lui ma il nuovo compagno della madre e la sorella più grande sono alquanto diffidenti, visti i risultati disastrosi dei precedenti tentativi di reinserimento in famiglia di Ben. E' da parecchio mi pare che non si vedeva un addiction movie così esplicito nella tematica, come se ne facevano e se ne vedevano parecchi in passato. La situazione qui è in un certo senso addolcita nel contesto (la famiglia di Ben è benestante e per molti versi modello - anche interrazziale) e nelle motivazioni (Ben era in fondo un bravo ragazzo, indotto alla dipendenza a causa di una terapia sbagliata prescritta dal suo medico) Nella prima parte Peter Hedges (regista nonché padre del giovane primo attore, che dichiara degli spunti autobiografici nel soggetto) si innesca un dramma famigliare, che ruota intorno al rapporto tra madre e figlio e si allarga alla famiglia e alla comunità; ma poi il film prende un'altra direzione quando – scomparso il cagnolino di casa, forse rapito – madre e figlio si mettono sulla strada, nella notte di Natale, alla sua ricerca. Il road movie notturno diventa una sorta di via crucis in cui il ragazzo ripercorre le tappe della sua depravazione, che si estende ai luoghi e alle persone della tranquilla e insospettabile cittadina in cui abitano e in cui si svolge l'azione (i posti dove si è drogato, i compagni di sventura, gli spacciatori e i clienti, gli uomini con cui si prostituiva, gli episodi luttuosi), dall'altra un pretesto narrativo per approfondire i rapporti tra madre e figlio messi faccia a faccia in una dimensione intima e drammatica, e dall'altro ancora assume le cadenze quasi thriller dell'indagine e della ricerca. Non tutto scorre perfettamente nella sceneggiatura (a cominciare dal risibile pretesto che dà origine alle peregrinazioni dei due), ma il confronto tra i due personaggi e i rispettivi interpreti funziona (più represso Hedges, che deve contenere ogni sua reazione emotiva, che si tratti di gioia del ritorno, rimorso, rabbia, frustrazione, tentazione, voglia di redenzione; più libera e completa Julia Roberts, che ha l'occasione per manifestare un'ampia gamma di emozioni, come la speranza, la paura, il dubbio, la gioia, il dolore, la disperazione, dimostrandosi un'interprete matura e all'altezza del compito) e il meccanismo narrativo è congegnato per tenere gli spettatori appesi fino all'ultimo alle sorti (e, letteralmente, al respiro) della madre e del figlio perduti in un'amara notte americana. IL GIOCO DELLE COPPIE (Doubles vies) di Olivier AssayasIl gioco delle coppie ha tre titoli. Quello italiano è ingannevole solo in parte, ricorda un po' incongruamente un gioco televisivo di parecchi anni fa, e induce nello spettatore una falsa aspettativa verso una giocosa commedia erotica, cosa che il film non è, o è solo in parte. Quello internazionale, con cui è stato presentato alla Mostra di Venezia, benché annunci perentoriamente Non Fiction, pone l'accento sulla confusione tra realtà e rappresentazione, che è anch'esso uno dei temi del film (almeno nei termini della liceità del travaso del vissuto biografico nell'opera d'arte). Quello originale francese, infine, Doubles vies, è quello che meglio l'ambivalenza e la doppiezza che nel film è tematizzata come opposizione non solo tra biografia e finzionalità, ma anche e soprattutto tra vita pubblica e vita intima. Ma nessuno dei tre titoli vi prepara a quello che vedrete (e soprattutto sentirete) realmente, e cioè una serie quasi ininterrotta di dialoghi (a due o più voci) sulla situazione dell'editoria e della letteratura nell'età contemporanea di Internet, dei social media e degli e-book, sui confini della letteratura autobiografica e sul diritto di “rubare” dalla vita reale per creare personaggi letterari (ma in fondo riconoscibili), sulla comunicazione politica e sulla sua etica. Discussioni dotte sui massimi sistemi (ma in declinazioni anche molto pratiche e tecniche), che si alternano alla minima moralia della quotidiana vita sentimentale dei protagonisti, che giostrano in una ronde schnitzleriana dove l'editore tradisce la moglie (attrice teatrale passata alla fiction televisive) che lo tradisce con lo scrittore in crisi da lui rappresentato, che tradisce la propria compagna che lavora per un noto personaggio politico... Tra vita reale e vita letteraria o sulle scene (il gioco si spinge al punto da far telefonare il personaggio interpretato dalla Binoche alla Binoche “reale”) da una parte, e vita sociale, dove ognuno recita una parte e vita intima, dove nei letti ruoli e affinità si rimescolano dall'altra, scorrono le vite di personaggi ben calati nella contemporaneità e nello stesso tempo eterne figurine della commedia delle coppie alla Maurivaux. Ci sono due cose su cui non ci si deve ingannare: la prima è che malgrado la girandola di adulteri e di storie di sesso, ne Il gioco delle coppie l'erotismo è solo nelle parole, e questo vale sia quando si parla di relazioni amorose sia quando parla di libri e di nuove tecnologie. La seconda è che malgrado la descrizione possa risultare scoraggiante, non si tratta di una film inverosimilmente palloso, bensì indubbiamente colto e intellettuale, (ma) anche intelligente, brioso, stuzzicante, divertente. Il gioco delle coppie è, oltre che naturalmente un film di attori (Guillaume Canet, Juliette Binoche, Vincent Macaigne, Nora Hamzawi, Christa Théret), un cinema di parole e di idee che non ha molti paragoni (lo stesso Assayas ha citato L'albero, il sindaco e la mediateca, un film del 1993 di Eric Rohmer, uno che di dialoghi se ne intendeva), profondamente radicato nella cultura e nel cinema francese (ma immensamente superiore alla media delle commedie d'oltralpe arrivate sui nostri schermi negli ultimi mesi), umanizzato dalla malizia tutta umana dei sentimenti e dell'umorismo. Da vedere (e da ascoltare); anche se – mi rendo conto – non per tutti. SUSPIRIA di Luca GuadagninoSì, lo so. Ho esagerato col titolo, a volte ci si fa prendere la mano del gusto della battuta. Ma prima di tutto, ovviamente, davanti al nuovo Suspiria, viene da chiedersi: perché? Per rifare un classico, ci vuole un'idea forte. E il Suspiria di Dario Argento, classe 1977, un classico lo è. Di un cinema sadico, se vogliamo anche trash, ma un episodio estremo e memorabile di cinema fantastico e visionario. Guadagnino quest'idea forte ce l'aveva? Dobbiamo per caso andarla a cercare nella sceneggiatura scritta da David Kajganich (che già ci aveva provato riscrivendo L'invasione degli ultracorpi di Don Siegel), che ricolloca la vicenda in un periodo storico-politico molto marcato, ambientandola nell'epoca in cui l'originale fu girato, in una Berlino divisa, straziata dalla lotta armata della Raf e dal terrorismo internazionale legato alla questione palestinese, scioccata dalla violenza forse di Stato della vicenda Baader Meinhof? In una Germania in cui non si sono affatto spenti gli echi della tragedia del nazismo e dell'Olocausto? Forse, anche se il tutto sembra piuttosto facile e gratuito, come non riescono a trovare una forte ragione poetica e drammaturgica i riferimenti all'infanzia della protagonista in una comunità rurale dell'Ohio, segnata da una religiosità morbosa e da un fortissimo senso del peccato. Cosa c'entra tutto questo con la pacifica congrega di streghe un po' represse un po' isteriche e litigiose che gestisce la scuola di danza di Berlino? Né il contesto storico-politico né gli elementi biografici della protagonista sembrano agganciarsi alla storia al centro del film, in cui il fuori (in un film avarissimo di esterni) e il dentro della scuola e dei suoi recessi rimangono bene separati e distinti, così come il passato di Susie rimane piuttosto ininfluente nel caratterizzare un personaggio poco delineato e motivato. Non c'è profondità, né eco, né necessità, e l'ambientazione rimane un fattore esteriore e in fondo gratuito. In effetti non ricordo bene (l'ho visto qualche giorno fa) come faccia il film a occupare le due ore e mezza della sua durata. Non è un effetto perversamente ipnotico, piuttosto la mancanza di interesse e il senso di sopore che un film di questo genere è l'ultima cosa che dovrebbe indurre nello spettatore. A meno che non si tratti di un film dell'orrore, ma di una metafora storica travestita da film dell'orrore. Ma, come dicevo, non ci sto. Già il prologo con Patricia dallo psicoanalista (in una sequenza loffia piena di inquadrature di dettaglio che dà l'idea che il regista non sappia bene cosa inquadrare e perché) la dice lunga sulla mancanza di nerbo e di tensione che caratterizzerà purtroppo tutto il seguito. Susie ha degli incubi che ci vengono mostrati a flash, e che assomigliano di più a installazioni o fotografie di arte contemporanea piuttosto che a visioni sovrannaturali o dell'inconscio. La prima scena horror, l'unica veramente disturbante e quindi la più pubblicizzata, arriva a circa 40 minuti dall'inizio; la seconda dopo 80 minuti; la terza a 120, e a sua volta assomiglia assai più a un'esibizione di danza contemporanea coreografata così-così e banalmente illuminata da neon rossi piuttosto che a un sabba demoniaco. Qui compare una strega mostruosa nuda, obesa e dalle carni decomposte, che inforca sul naso un paio di occhiali da sole; avrebbe potuto essere forse un elemento disturbante e straniante, se le cose prima fossero andate in modo diverso: a questo punto, invece, sfiora solo il ridicolo involontario. Qui muoiono inoltre a uno a uno, tra fontane di sangue, un gran numero di personaggi, che non abbiamo mai imparato a riconoscere e di cui quindi non ci importa sostanzialmente nulla. Perché in queste due ore e mezza oltre a non aver costruito tensione e paura, Guadagnino non ha neppure costruito personaggi di qualche spessore o interesse. La protagonista (Dakota Johnson sembra fare una fatica più fisica che espressiva) è una figurina che balla e miss Blanc una zitella un po' stereotipata; in un mondo dove le figure maschili sono assenti (tranne un paio di poliziotti ridicoli e ridicolizzati), il prof. Klemperer è forse quello più propriamente argentiano (e non esattamente in senso positivo) per la goffaggine con cui è delineato (la Swinton, che ama l'androginia e il travestimento, si è presa entrambi i ruoli e anche un terzo; almeno lei forse si sarà divertita). Le altre - ballerine, streghe e insegnanti - sono solo comparse senza spessore e senza personalità. Suspiria di Dario Argento, oltre agli effetti speciali raccapriccianti messi in scena, era un tripudio di invenzioni scenografiche (Giuseppe Bassan), fotografiche (Luciano Tovoli), musicali (Goblin). Chi l'ha visto non può dimenticare il suo eccentrico palazzo degli orrori, i suoi colori saturi fino al delirio, l'incalzare angosciante della colonna sonora di Stivaletti. In Suspiria di Guadagnino gli ambienti si normalizzano in un edificio piuttosto anonimo fronteggiato da un muro; i colori si spengono e si raffreddano, con il rosso che si aggiunge solo progressivamente e tardivamente nel finale (dal sangue della suicida ai costumi delle ballerine sino a dilagare nella sequenza del sabba); le musiche (di Thom Yorke dei Radiohead – massimo rispetto) sono malinconiche e per nulla ansiogene, e il loro apporto, sia pur voluto in chiave di contrasto, risulta inefficace. Perfino il lettering dei titoli di testa e di coda, per quanto accattivanti possano apparire, hanno un giocoso gusto pop che poco ha a che fare con lo splatter gotico che avrebbe dovuto essere la fonte d'ispirazione. Il nuovo Suspiria ha inoltre il torto di arrivare dopo il Neon Demon di Winding Refn (e, parlando di Madri, sembra citare anche il recente pasticcio di Aronofsky), che già recentemente aveva reso un tacito ma dichiarato omaggio al capolavoro di Argento, proprio attraverso la fotografia, le scenografie, la messa in scena di un gineceo bello e perverso; ma adottando a sua volta l'approccio di un horror esangue e senza tensione, cerebrale e astratto nella concezione e formalista alla visione, privo di pathos e di tensione, di brividi e di strette allo stomaco.
Non saprei dire a chi può piacere Suspiria 2018: non credo a coloro che avevano adorato e acclamato il dramma sulla passione amorosa di Guadagnino, Chiamami con il tuo nome, che ora si troveranno strapazzati da intenzioni raccapriccianti; non credo neppure a chi (come me) ricorda ancora quanta paura gli avesse fatto l'horror di Argento e si ritroverà indifferente davanti alle lungaggini e ai balletti del nuovo film; e non credo neppure ai giovani che non hanno visto l'originale e che sono cresciuti con il new horror, che sbadiglieranno nei 40 minuti che separano un climax dall'altro. Non è piaciuto a Dario Argento (per non parlare di Asia, che ha perso l'ennesima occasione di pensare prima di parlare): e lui è uno che di horror se ne intende. LA DONNA ELETTRICA (Kona fer í stríð) di Benedikt ERlingsson |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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