MOLLY'S GAME di Aaron SoskindC'è una categoria di film, di produzione statunitense, che fa costantemente capolino nelle stagioni cinematografiche degli ultimi anni. Non so se abbia un nome: si potrebbe chiamare business class movie o forse upper floors movie. Sono film che si svolgono nei centri nevralgici della finanza, dell'economia, delle istituzioni governative, degli ambienti della new economy, dei nuovi imperi dell'economia digitale. Ne esistono diverse varianti, in giacca e cravatta o in felpa, biografici o storicizzanti, briosi o pallosi; li accomuna la descrizione di ambienti e meccanismi spesso sconosciuti alla massa degli spettatori, l'uso di un linguaggio specialistico, a volte accompagnato da intento didascalico (non esente dall'utilizzo di opportuni sussidi audiovisivi in forma di schemini, diagrammi, ecc.), i toni in genere freddi seppur talvolta non privi di ironia, l'esclusione o la marginalizzazione di aspetti action o erotico-sentimentali.
Appartiene a suo modo a questa categoria Molly's Game, diretto da Aaron Sorkin, qui al suo esordio nella regia, ma già premiatissimo sceneggiatore – a proposito – di titoli come The Social Network e Steve Jobs. Il film, proclamandosi a gran voce ispirato a una storia vera, si addentra a esplorare il mondo del gioco d'azzardo nell'alta società (i giocatori – in genere compulsivi e praticamente nella totalità maschi – provengono dal mondo del cinema, dello show-biz, della finanza e dell'impresa), all'interno del quale ci guida una sorta di Virgilio al femminile, la Molly (Bloom, proprio come l'eroina dell'Ulysses di Joyce) del titolo, personaggio reale e già autrice di un libro sulle proprie vicende. Una talentuosa, intraprendente e anomala imprenditrice in tailleur e scollature che scopre un modo per arricchirsi in modo rapido, sicuro, e quasi quasi legale. Voi quanto pensate possa essere interessante un film su un'organizzatrice di partite di poker? Poco? Pochissimo? Ebbene, Molly's Game mantiene pienamente le aspettative. Mi è venuto abbastanza immediato il confronto con Tonya, che ho appena recensito. Ci sono parecchi elementi che accomunano i due film: la protagonista femminile, eponima in entrambi i titoli, la volontà di autoaffermazione, il conflitto con genitori autoritari e prescrittivi, l'ambientazione sportiva (o ludica), la funzione strumentale e marginale dell'aspetto ludico-sportivo, con l'accantonamento di tutti gli stereotipi dei rispettivi generi cinematografici, lo sconfinamento delle attività delle protagoniste sul terreno dell'illegalità, il procedimento giudiziario a loro carico, il racconto a posteriori della propria esperienza (quello di Molly con un libro, quello di Tonya attraverso le interviste filmate), il ritmo cinetico, il montaggio creativo, e così via. Purtroppo, però, tutto quello che funziona in Tonya sembra non funzionare in Molly's Game. Tutto il vorticoso montaggio della prima parte, dopo il prologo sciistico, con l'utilizzo di immagini di repertorio, diagrammi di gioco, cambi di scena, flasback continui, ecc., sembra tanto un escamotage per cercare di rendere più accattivante un contenuto tutt'altro che coinvolgente. Tutto sa di più-o-meno-già-visto, e focalizzare la storia su un personaggio algido e un po' frigido (il film abbonda in scollature, ma di sesso o sentimenti amorosi neanche a parlarne; e la Chastain è l'attrice giusta per trasmettere una sensazione anerotica) non aiuta certo lo spettatore ad appassionarsi alla materia narrata. Pur ambientato in un mondo frequentato, oltre che dalla crema dell'alta società, da malavitosi, mafiosi russi, creditori di debiti di gioco che riscuoteranno chissà con quali mezzi quanto gli è dovuto, modelle di Playboy, droghe, tutto nel film suona anodino e tutto sommato ordinario. Niente sesso, niente minacce, niente violenza (tranne un'unica sequenza), niente dipendenze pericolose, niente vite distrutte dalle perdite al gioco, niente disperazione. La protagonista semplicemente organizza partite e accumula soldi, compulsivamente, inutilmente, chissenefregamente. Sorkin poi, viziato da tutti i premi vinti (Oscar, Golden Globe, tutti i premi possibili per le sceneggiature – in genere nel suo caso non originali), eccede nello zelo e realizza un film scrittissimo e parlatissimo (uno dei più parlati della storia del cinema?), in cui oltre ai personaggi c'è la voce fuori campo della protagonista (la cui presenza è giustificata dal libro autobiografico da lei scritto) che non sta mai zitta un secondo, raccontando, spiegando, giustificando, pontificando, analizzando, autoanalizzando. Passando dalla prima alla seconda parte (frammentata negli andirivieni temporali) le cose se è possibile peggiorano con l'intervento di una temibile svolta moralistica (se non volete spoiler sul finale fermatevi qui, tanto ci siamo capiti): dopo l'arresto infatti la cinica e avida Molly Bloom si scopre un animo da eroina della privacy, difendendo con pudica intransigenza l'onore e la quiete famigliare dei suoi facoltosi e spendaccioni clienti, di cui fino a poco prima sfruttava vizi e debolezze per arricchirsi indiscriminatamente. L'avvocato che la difende, prevedibilmente, non può resistere al fascino di una persona tanto proba e onesta e il giudice che se la trova davanti elegante e giudiziosa non può che riconoscerne la nobiltà d'animo e perdonarla con magnanimamità. Finito qui? Dell'agnizione con il padre psicoanalista ma fedifrago (Kevin Costner), che sfogava su di lei a forza di severità e negazione dell'affetto paterno il rancore per il fatto che da bambina avesse assistito al suo tradimento coniugale ve l'ho già detto? Ecco perché lei cercava di dominare attraverso la padronanza sul gioco gli uomini potenti, era una vendetta contro il padre! E parole, parole, parole.
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TONYA di Craig GillespieUn cartello all'inizio avverte che il film è "tratto da interviste assolutamente vere, totalmente contraddittorie e prive di qualsiasi ironia con Tonya Harding e Jeff Gillooly". Il materiale di partenza, quindi, è incredibilmente, paradossalmente vero. Il confronto con i filmati originali è impressionante per la corrispondenza anche dei particolari più grotteschi e apparentemente inventati, come - ma è solo un esempio - il pappagallino che fruga con il becco nell'orecchio della mamma di Tonya durante un'intervista filmata. Quanto all'ironia, il regista Craig Gillespie (Lars e una ragazza tutta sua) e lo sceneggiatore Steven Rogers ne iniettano in abbondanza in una storia sgangherata, dandogli una forma cinematografica smagliante e travolgente; e se la verità viene problematizzata fin dalle prime sequenze (aggiungendo alla finzione della rielaborazione filmica quella dei veri personaggi che la falsificano e la nascondono), e forse non si conoscerà mai completamente, le contraddizioni vengono messe in bella copia, con i personaggi che si accusano di mentire l'un l'altro, magari con degli a parte nel bel mezzo di un'azione scenica, rivolgendosi direttamente allo spettatore dallo schermo. Tonya è una storia di squilibrati mentecatti, come chiosa uno dei personaggi stessi del film. La vicenda è iscritta per sempre negli annali delle cronache, sia di quella sportiva che di quella nera, e ruota intorno al ferimento della pattinatrice Nancy Kerrigan, nel 1994, alla vigilia dei campionati nazionali di pattinaggio, di cui furono accusati un'altra pattinatrice, e cioè la Tonya Harding del titolo, suo marito e un amico di questi. Tonya è stata un'atleta eccezionale, l'unica americana e la seconda donna nella storia a eseguire la figura del triplo axel, (dis)educata da una madre anaffettiva e crudele; il secondo è un giovane innamorato ma violento e inconcludente, il terzo un paranoico sedicente agente segreto. Chi ha ordinato il sabotaggio ai danni della rivale? Tonya, con la complicità degli altri due? O gli altri due all'insaputa di lei? O il solo Shawn preda dei suoi deliri? Impossibile dirlo. Ma accanto o prima dell'accertamento della verità dei fatti storici, Tonya offre alcuni formidabili ritratti. Innanzitutto quella della protagonista (il titolo originale, I, Tonya, rivendica un'eponimia ancora più affermativa), una donna complessata dal terribile rapporto con la madre e impegnata in una violenta ma combattiva relazione con l'uomo che amava e che forse le rovinò la vita e la carriera per sempre. Tonya ha modi rozzi e sgradevoli, ma è dotata di un'abilità tecnico-artistica assolutamente fuori dalla norma. I suoi modi e il suo comportamento risultarono inaccettabili per la buona società della disciplina del pattinaggio (femminile e aggraziata per eccellenza; la Harding, una volta esclusa dal pattinaggio, tanto per dire, si dedicò al pugilato), che tese sempre a emarginarla e a sminuirne i reali meriti sportivi. Inoltre, Tonya offre anche uno spaccato della società americana, divisa tra bigottismo e perbenismo da una parte e da un'anima profonda e greve dall'altra, povera, violenta, frustrata, alla quale il Sogno americano è negato perfino quando avrebbe tutti i meriti per conquistarlo. Uno spaccato che si può leggere anche in una chiave politica riferita all'attualità, l'epoca in cui una maggioranza di bianchi amareggiati, impoveriti, frustrati, impauriti e vogliosi di riprendersi quello che sentono come loro e da cui si sentono espropriati hanno votato il vecchio miliardario che promette l'”America first”. Gillespie racconta con uno stile veloce e coinvolgente, umoroso e tempestoso come la sua protagonista, brillante e divertente (malgrado la drammaticità delle situazioni raccontate, di cui si sarebbe potuto immaginare tutt'altro trattamento). Le spettacolari, frastornanti sequenze di pattinaggio (Margot Robbie + controfigure + cdi) non sono mai fini a se stesse, né hanno molto spazio le tradizionali dinamiche drammaturgiche dello sport movie incentrate su rivalità, competizione, scontri, punteggi, classifiche, sfide all'ultimo secondo o all'ultimo punto. Tonya mette al centro le persone, costringendoci a simpatizzare con un personaggio tutt'altro che facile. Ottima l'interpretazione della Robbie, che legittimamente ha conteso l'Oscar alla McDormand di Tre manifesti; quest'ultima alle prese con un personaggio addirittura vicino alla tragedia greca, e pertanto più premiabile: forse Margot ha scontato la maledizione di Tonya, offrendosi – convintamente, visto che ha partecipato anche alla produzione del film – in un personaggio controverso e poco accattivante, per il quale si è resa meno bella di quanto sia in realtà (gli spettatori maschi molto probabilmente se la ricorderanno in versione ultra-sexy in The Wolf of Wall Street). Stessa sorte toccata anche a Sebastian Stan, che ha dovuto essere sullo schermo meno bello e affascinante di quanto sia in realtà. Tra parentesi: non mi è mai capitato prima di farlo, ma complimenti anche ai truccatori (e ai costumisti), impegnati a rendere visibili anche sui visi e sui corpi degli attori l'epoca di svolgimento del film, lo status sociale dei personaggi, il loro carattere e finanche l'umore e la psicologia degli stessi. Ottimo anche il cast dei secondi ruoli: Allison Janney si aggiudica addirittura l'Oscar per il suo ingrato ma impeccabile e a suo modo fascinoso ritratto di una madre algida e priva di sentimenti alla Crudelia Demon: ma è fortissimo anche Paul Walter Hauser nel ruolo di Shawn, pericoloso come una bomba inesplosa ma dall'aria e dalla mente torpida e perennemente sonnacchiosa, e defilata ma ben collocata Julianne Nicholson nel ruolo dell'insegnante e allenatrice. IO SONO TEMPESTA di Daniele LuchettiUn ricco imprenditore, che gongola dell’ostentazione della ricchezza e del potere di influenza, ottenuti con metodi non proprio legittimi, si becca una condanna per frode fiscale che si ritrova a scontare ai servizi sociali, a contatto con miserabili – poveri, vecchi, malati, immigrati – e con un’operatrice inflessibile. Luchetti nega di essersi ispirato alle vicende berlusconiane, anche se è difficile pensare che la prima ispirazione per il film non sia venuta proprio da lì. E’ evidente come Luchetti (autore di film bellissimi come Mio fratello è figlio unico ma anche di scivoloni tremendi come I piccoli maestri) tenti di aggiornare temi e toni della commedia classica all’italiana, con richiami piuttosto evidenti ai suoi classici: il personaggio interpretato richiama le famose interpretazioni di Gassman, la banda di truffatori ricorda quella squinternata de I soliti ignoti e il personaggio di Boccuccia quello di Capanelle proprio in quel film; Germano infine instaura con il protagonista una dinamica che ricorda alla lontana quella di Trintignant con Gassman ne Il sorpasso, anche se il suo personaggio è decisamente più scafato e l’esito morale della vicenda è invertito. Siamo infatti in un’epoca post-ideologica, e, come negli esiti più tardivi della commedia italiana classica, i personaggi non sono divisi tra buoni e cattivi, in schieramenti di tipo etico-politico. Semmai, la morale sembra essere quella che tutti sarebbero disposti a diventare berlusconoidi (ricchezza e status conseguiti con spregiudicatezza e senza troppi scrupoli morali e di legalità), se solo opportunamente stimolati. L’unico personaggio che si oppone alla corruttibilità dilagante e pervasiva è quello dell’operatrice sociale, interpretato da Eleonora Danco (attrice teatrale, drammaturga e regista), che è ritratto con dileggio come una fanatica isterica e moralistica, condannata a farsi suora a causa del suo integralismo e della sua rigida indesiderabilità sessuale. Non c’è l’affettuosa superiorità con cui Monicelli guardava ai semplici de I soliti ignoti, né l’affascinata disapprovazione con cui Risi guardava al vitalismo spregiudicato de Il sorpasso, e neppure lo sguardo comprensivo ma giudicante con cui venivano dipinti tanti personaggi di Gassman o di Sordi. Il tono stesso con cui è girato il film (già sperimentato da Luchetti con Arriva la bufera), una farsa grottesca in cui la prosaicità e il realismo del modello della commedia all’italiana si accompagna alla fotografia di Luca Bigazzi che alza il livello di surrealtà, alla musica mozartiana di Carlo Crivelli, che tenta di iniettare un’aria di levità fiabesca al tutto, e da un setting che attinge agli stranianti paesaggi montuosi kazaki (ritrovati in Abruzzo) e a scenografie sempre più grandi dei personaggi che le abitano, come l’hotel in cui abita Tempesta rende piuttosto arduo trarre un bilancio morale del film, che, dal punto vista della riuscita cinematografica, rimane oscillante. Qualche momento divertente infatti è azzeccato, uno spunto di riflessione c’è, gli attori sono naturalmente in parte (cosa, oserei dire, prevedibilissima), ma l’adesione e l’empatia emotive e intellettuali dello spettatore stentano a scattare, e alcune citazioni, come quelle di Shining e di Jules e Jim, sembrano davvero incongrue e fuori luogo. CHARLEY THOMPSON di Andrew HaighLa distribuzione italiana ha mutato il titolo originale, Lean On Pete, che sarebbe il nome del cavallo, coprotagonista nella parte centrale del film, con un più onesto Charley Thompson, che è invece il nome del ragazzo protagonista, in scena dalla prima all’ultima inquadratura. Si perde però il significato dell’originale, che significa più o meno “appoggiarsi a Pete”. Con la sfumatura paradossale che Charley cerchi conforto e sostegno appunto in un cavallo: perché Charley, sedici anni (o 17, o 18, come mente a secondo dell’occasione), è un ragazzo solo. La madre l’ha abbandonato quando era piccolo, la zia (forse l’unica persona che l’abbia veramente amato) abita in un posto lontano e sconosciuto, il padre, distratto e egoista, è finito all’ospedale gravemente ferito da un marito geloso. Charley trova un sostituto paterno in Les Montgomery, un allevatore di cavalli che praticamente lo adotta e gli insegna un mestiere, e uno materno o qualcosa del genere in Bonnie, una fantina, e un fratello putativo in Lean On Pete, un cavallo da corsa. Ma quando scopre che Les e Bonnie sono implicati in un sistema dove i cavalli vengono drogati per vincere, e vengono mandati al macello quando non sono più in grado di farlo, Charley decide di salvare Pete e di fuggire. Andrew Haigh, regista britannico qui alle prese con i grandi spazi dell’interno degli Stati Uniti, ci spinge a empatizzare con un giovane fatalmente destinato alla sconfitta: squattrinato, ingenuo, inesperto (non sa neppure montare il cavallo con cui viaggia), senza conoscenze e senza punti di riferimento. Il ragazzo attraverso il deserto, fa sporadici incontri, cerca di rintracciare la zia con i pochi indizi che ha a disposizione. Lungo la strada ruba (un furgone con rimorchio, un cavallo, benzina, cibo) e pesta un uomo con un arnese di metallo; eppure conserva fino alla fine il suo candore e la sua innocenza, attraverso il suo lungo itinerario solitario e commovente. Non che Haigh abusi di toni melodrammatici o ruffiani; al contrario la sua direzione è asciutta e sobria: praticamente nessuna musica, una macchina da presa mobile e percepibile, che pure non tenta mai di superare i limiti della naturale visibilità. Esemplare del suo approccio la descrizione del rapporto tra Charley e Pete: mentre il primo riversa sul compagno di avventura il suo affetto, il suo bisogno di ascolto e di comprensione, il secondo rimane quello che è, un cavallo, anche bizzoso, senza nessun artificio retorico che faccia pensare che l’animale capisca o simpatizzi in alcun modo con il suo nuovo padrone. Come Charley rimane un personaggio positivo anche se compie azioni disdicevoli, così i personaggi che incontra non sono mai caratterizzati in senso completamente buono o cattivo: come il padre che trascura colpevolmente il figlio, pur amandolo davvero; o come Les, paterno e nello stesso tempo laido; come Bonnie, amichevole, ma indifferente agli scrupoli morali e affettivi di Charley; come i reduci dalle missioni militari all’estero, protagonisti di episodi orrendi ma amichevoli nell’accogliere il fuggiasco, o come l’homeless che lo ospita, salvo diventare aggressivo e violento una volta ubriaco. Personaggi emblematici di un’America bianca depressa e impoverita, che cerca di arrangiarsi come può, a sua volta priva di sostegni e di punti di riferimento, e senza nemmeno più l’afflato giovanile del povero Charley, che non si arrende all’ineluttabilità della bruttezza e della durezza del mondo adulto, capace ancora di compassione. Il toccante finale rifiuta toni consolatori, benché non chiuda alla speranza di un futuro migliore per il suo giovane eroe, interpretato con adesione fisica ed emotiva dal diciottenne Charley Plummer, cui la giuria di Venezia 2017 ha attribuito il premio Marcello Mastroianni come miglior attor emergente. Benché tratto da un romanzo di Willy Vlautin (edito anche in Italia da Mondadori con il titolo “La ballata di Charley Thompson”), con un passaggio dalla prima persona narrante del libro al racconto decisamente “in terza persona”, il film mi ha ricordato certe pagine di Cormac McCarthy, con gli infiniti viaggi dei suoi giovani cow-boy attraverso le sconfinate pianure americane. Benché in buona parte privo della violenza e della crudeltà che caratterizzano le pagine di McCarthy, Charley Thompson ne condivide il senso della solitudine, il minimalismo nel racconto dell’avventura e dell’azzardo del caso, i profili di giovani uomini che affrontano con virile dignità le difficoltà del proprio viaggio esistenziale e i rispettivi ingrati destini. 28° Festival del cinema africano, d'Asia e d'America Latina |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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