IL VERDETTO (The Children Act) di Richard EyreChesil Beach e La ballata di Adam Henry sono usciti rispettivamente nel 2007 e nel 2014, ma i casi della produzione e della distribuzione cinematografica hanno fatto sì che i due film che ne sono stati tratti arrivino sugli schermi a una manciata di giorni di distanza l’uno dall’altro. Entrambi i romanzi, come anche le rispettive sceneggiature, sono firmate da Ian McEwan, uno dei più talentuosi scrittori inglesi della propria generazione e uno dei più amati dal cinema, che aveva già adattato per lo schermo Il giardino di cemento, Cortesie per gli ospiti, Lettera a Berlino, L’amore fatale, Espiazione. Viene quindi naturale paragonare i due film, e dirò quindi che Il verdetto (tratto da La ballata di Adam Henry; nell’originale il titolo sia di libro che di film è The Children Act, che designa la legge inglese per la tutela dei minori) mi sembra più riuscito, per intensità e compattezza drammaturgica e per la qualità complessiva dell’interpretazione. La protagonista della storia è Fiona Maye, giudice di una certa età che si occupa di cause legali con al centro bambini o minorenni. Il suo matrimonio si è ormai raffreddato in una consuetudine dove il proprio difficile lavoro viene al primo posto rispetto all’attenzione per il coniuge, che, dopo aver tentato inutilmente di attirare l’attenzione sui pericoli di logoramento del ménage, annuncia schiettamente che ha intenzione di concedersi un’avventura extraconiugale. Fiona si trova spesso a dover decidere su questioni delicatissime, come quando deve autorizzare l’intervento chirurgico per far separare due gemelli siamesi, intervento che comporterà la salvezza di uno ma la morte certa dell’altro. Ora, in un momento critico per la sua vita privata, deve affrontare il caso di un giovane testimone di Geova che, a pochi mesi dal raggiungimento della maggior età e quindi dell’autodeterminazione, rifiuta la trasfusione di sangue che potrebbe salvargli la vita in nome dei principi religiosi e di una sorte di esaltazione dell’io che avrà però come conseguenza quasi certa la sua estinzione. Fiona con la propria sentenza salva la sua vita, ma non senza averlo prima incontrato, irritualmente e senza reale necessità, in ospedale, dove il giovane è folgorato da questa donna matura e affascinante, venuta apposta per ascoltarlo e che canta per lui i versi di una ballata di Yeats. Una volta uscito dall’ospedale, il giovane Adam cercherà in tutti i modi di mettersi in contatto con Fiona, identificando in lei confusamente una maestra-madre-amante-mentore capace di guidare la sua esuberante inesperienza nel mondo (laico) della vita, dell’amore, dell’arte. C’è una sfumatura linguistica nella versione originale che va perduta nella versione italiana, dove il titolo onorifico della giudice, “Our Lady”, viene tradotto nel neutro e asessuato “Vostro Onore”, facendo scomparire dall’appellativo usato - anche ironicamente - da Adam sia quella sfumatura di rispetto e ammirazione verso il femminile (quasi un’espressione da amor cortese), sia quel senso di rapporto diretto e di appartenenza cancellato dal cambio del pronome possessivo. C’è un’altra frase che segna la morale del film, quando Fiona asserisce dall’alto del suo scranno che in tribunale si applica la legge, non la morale. L’incontro con Adam, che sembrerebbe configurarsi in un rapporto di stalkeraggio analogo a quello già raccontata ne L’amore fatale (che ha dato luogo a quello che ritengo il miglior adattamento da McEwan, a mio parere per certi aspetti addirittura superiore al romanzo), diventa invece l’occasione per mettere Fiona di fronte alla propria condizione esistenziale - dove la dedizione professionale ha finito per prevalere sui propri sentimenti -, al figlio che non ha mai avuto, alla propria affettività negletta. Sarà una crisi salutare, ma che avrà un prezzo altissimo. La regia di Richard Eyre (regista d’opera e di adattamenti teatrali) adotta uno stile piuttosto british, mantenendo a sua volta una certa distanza dai suoi personaggi e rifiutandosi pudicamente di sottolineare le svolte drammaturgiche (si veda la scena del bacio rubato da Adam a Fiona, in cui la macchina da presa sembra quasi impreparata e presa di sorpresa quanto la protagonista), concedendosi solo un flashback e qualche cambio di punto di vista non strettamente necessari. L’intensità drammatica della vicenda viene quindi quasi interamente ma efficacemente delegata all’interpretazione calibrata e sfumata di Emma Thompson (ma efficaci anche Stanley Tucci nel ruolo del marito, Fionn Whitehead in quello di Adam e Jason Watkins in quello del cancelliere/maggiordomo) e alla musica originale per pianoforte e archi di Stephen Warbeck (che nella scena cruciale del concerto natalizio giunge a sovrapporsi a quella degli interpreti).
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CHESIL BEACH - IL SEGRETO DI UNA NOTTE (On Chesil Beach) di Dominic CookeQualche anno fa pensavo che Ian McEwan fosse uno dei migliori scrittori viventi (ora sinceramente il mio giudizio si è intiepidito). Da suoi libri sono stati tratti numerosi film: da Il giardino di cemento a Cortesie per gli ospiti, da Lettera a Berlino a L'amore fatale e Espiazione, fino a Il verdetto e Chesil Beach, in uscita in Italia a distanza di pochi giorni. Chesil Beach, romanzo fondato sull'esitazione, sui gesti mancati, sull'attesa, non era forse il testo migliore per una trasposizione cinematografica, ma a crederci per primo è stato proprio McEwan, che ne ha scritto la sceneggiatura. La storia su svolge prevalentemente in un albergo sulla spiaggia omonima, nel Dorset. Siamo nel 1962, e come dice il poeta Philip Larkin - citatissimo per l'occasione, e che quindi mi permetto di citare anch'io -, l'era del sesso in Inghilterra è iniziata nel 1963, tra la fine della censura de L'amante di Lady Chatterley e l'avvento dei Beatles. Purtroppo per i due protagonisti, i giovani Edward e Florence, alla data del loro matrimonio a dominare è ancora la repressiva morale vittoriana con le sue rigide censure sociali e sessuali. Il sesso è un tabù, una pratica necessaria ma misteriosa di cui non è bene parlare, sicché i due studenti arrivano al giorno fatidico vergini e del tutto inesperti e impreparati a quello che li aspetta nella prima notte di nozze. Gran parte del libro e del film racconta quindi l'antefatto all'atto vero e proprio che aspetta di essere compiuto, che i due giovani attendono con ansia, trepidazione, preoccupazione, paura. Solo dieci anni dopo, comportamenti e costumi si saranno capovolti (non in meglio, si sospetta che il film voglia insinuare), ma in quella notte del '62 un gesto sbagliato, l'inesperienza, l'impazienza, l'incapacità di capirsi e di aspettarsi può ancora avere conseguenze catastrofiche. Nonostante l'affetto e l'affinità intellettuale tra i due giovani, la necessità di affrontare la scoperta e la sperimentazione della dimensione fisica dell'amore diventerà il fulcro intorno al quale esploderanno drammaticamente incomprensioni, sensi di colpa reciproci, incapacità di dialogo e di comprensione l'uno delle esigenze dell'altro. McEwan nella scrittura letteraria mette ancora una volta in luce il suo talento nell'analisi minuziosa del tempo rallentato e dilatato che segna la percezione dei momenti fatali, rendendo tutto il romanzo l'amplificazione esplosa di quelle poche ore che si riveleranno decisive per la vita intera dei due protagonisti. Il film punta invece di più, alla ricerca di una dimensione più convenzionalmente cinematografica, sul racconto del rapporto tra Edward e Florence, raccontandoci in flashback il loro incontro e lo sviluppo della loro relazione, i loro caratteri (resi anche attraverso le preferenze musicali: lui ascolta Chuck Berry e Little Richards, lei sviolina musica classica in un gruppo di musica da camera) i rispettivi contesti sociali (la famiglia di lui è piccolo borghese, quella di lei di livello più elevato e pretenzioso) e famigliari (la madre di Edward ha subito lesioni cerebrali a causa di un incidente; i genitori di Florence sono classisti, conservatori e autoritari). Ma proprio nella struttura risiede uno dei principali difetti del film, che, anziché costruire, custodire e far crescere la tensione crescente che ne dovrebbe essere la ragion d'essere, la spezza continuamente interrompendo il racconto della notte fatidica con continui e sfiancanti flashback, richiamati in modo meccanico e con scarsa necessità narrativa e drammaturgica. Quello che avrebbe dovuto e potuto essere il racconto di una notte fatale diventa, complice lo scrittore stesso, il più banale - e forse a sua volta frigido - racconto di un romance cui è negato il lieto fine. La regia non ha il nerbo per rimediare a questo errore, e imposta un racconto fiacco che dà sempre l'impressione del film in costume (lo è in realtà, ma nel senso deteriore: cioè con una rappresentazione esteriore e non realmente coinvolta nell'epoca che sta raccontando), che si conclude con le lacrimucce sui volti degli attori resi posticci dal trucco da anziani. Trovo poi che Saoirse Ronan (già in Espiazione e tre volte candidata agli Oscar) abbia in generale una fisionomia poco espressiva e l'ho trovata poco adatta al personaggio di Florence. E' vero che doveva impersonare un carattere frigido, ma l'ho trovata un po' troppo dura, sull'orlo di una spensierata mancanza di adesione al ruolo. Molto meglio Billy Howle (ma assai meno adatto al trucco da anziano rispetto alla Ronan), che ha dato al suo Edward l'interpretazione vibratile e nevrotica che conveniva, e che è forse la cosa migliore del film. SEARCHING di Aneesh ChagantySearching è innanzitutto un esperimento e una scommessa. E' uno di quei film giocati su un'idea di fondo, su una scelta radicale di narrazione (tipo, girare tutto un film in una fossa, come Buried, o dentro l'abitacolo di una macchina, come Locke, o in unico piano sequenza, come L'arca russa di Sokurov - ma ci aveva già provato Hitchcock -, o con un fondo colorato come unica immagine, come Blue di Jarman, o visto tutto attraverso le telecamere di sorveglianza, come Redacted di De Palma). L'ultimo esempio è forse quello che più si avvicina al caso di Searching – che ha però un precedente diretto in Unfriended -, che mette in scena esclusivamente immagini che si pretende siano sempre riprese di secondo grado, come schermate di computer, riprese da telecamere ambientali o da smartphone, o da apparecchi televisivi e altri monitor. La storia è gialla. Un'adolescente sparisce e suo padre cerca di scoprire cosa ne sia stato (fuggita, rapita, uccisa, suicidata? le ipotesi si susseguono e si alternano per tutto il tempo). Per farlo, aggirate le password della ragazza ed entrato nel suo account, usa soprattutto il pc, che gli rivela ben presto una figlia diversa dall'immagine che ne aveva lui, piena di segreti e di misteri. Attraverso telefonate, chat, mail, in genere in videocollegamento, il protagonista entra in contatto con molti sconosciuti che hanno più o meno conosciuto sua figlia, cercando di ricostruirne l'identità e il percorso, incorrendo com'è naturale in una moltitudine di false piste. Ad aiutarlo c'è una detective della polizia, madre a sua volta, molto coinvolta nel caso. In una girandola di false piste, scoperte e rivelazioni inattese, illuminazioni e colpi di scena, quello che vediamo sullo schermo cinematografico per gran parte del tempo è il desktop di un pc, sulla quale si susseguono le immagini di siti, portali, applicazioni (alcune molto familiari, altre meno note: ce n'è perfino una che offre lo streaming delle cerimonie funebri), dove i personaggi parlano e agiscono spesso dentro finestre di composite schermate multitasking, mentre dirette televisive permettono alla storia di uscire e di portarci sul luogo della sparizione. Difficile quindi valutare il film secondo i consueti canoni cinematografici (montaggio, piani di ripresa, fotografia, ecc., tutti da rimodulare in base all'assunto), anche se la presa di posizione non è così radicale e rigorosa come sembra: la regia si permette dei movimenti di macchina (chiamiamoli così) per esplorare parti diverse del monitor e sottolineare dei dettagli, o addirittura dei movimenti di macchina o degli zoom che avvicinano o allontanano i personaggi in inquadrature che si vorrebbero riprese da mezzi non manovrati da operatori umani. Inoltre fa la sua comparsa anche la musica extradiegetica, utile a sottolineare emotivamente una narrazione che altrimenti rischierebbe un deficit di pathos. Gli stessi attori si trovano costretti a una recitazione piuttosto stilizzata, spesso immobilizzati davanti ad una postazione di ripresa e raramente in reale interazione tra loro all'interno del set e dell'inquadratura. Paradossalmente, direi che il film, apparentemente formattato per una visione già “da monitor” - preferibilmente di pc, dove si sentirebbe indubbiamente “a casa propria” -, trova la sua dimensione ideale proprio al cinema, per la provocazione di quello schermo “servile” da computer che invade, corrompe e contagia con la propria viralità lo schermo nobile del cinema. Una provocazione che trasportata sullo schermo di un pc o di una tv verrebbe diluita e depotenziata, sia dal punto di vista estetico che culturale. Ma il film - nel suo ambito di esperimento estremistico ma anche in quello più comune della fruizione spettatoriale - può dirsi complessivamente efficace, sia nello sviluppo narrativo che incuriosisce fino alla fine senza annoiare, sia nella capacità di lanciare comunque, nell'ambito e nei limiti di un film di genere, alcuni temi di riflessione (da dibattito, si potrebbe dire: facile che vi troverete a discuterne con i vostri compagni di visione all'uscita del cinema). Quello più softcore, ma tuttavia non banale, riguarda evidentemente il rapporto tra genitori e figli, improntato spesso al non detto e alle false immagini che ciascuno proietta sugli altri; tanto da poter rendere i figli, come succede nel caso del film, al di fuori del contesto famigliare, sterilizzato e fondato in parte sulla recitazione di ruoli interiorizzati piuttosto che sulla messa in campo della propria reale individualità, dei perfetti sconosciuti. Quello più hard riguarda invece la pervasività delle tecnologie della comunicazione nell'epoca dei social, che finiscono per fagocitare le nostre personalità e le nostre vite. Se tutto il film sta dentro il monitor di un pc, e perché tutte nostre vite rischiano di essere in qualche modo riconducibili a dei “contenuti”, e alla rappresentazione di noi stessi che consapevolmente o inconsapevolmente affidiamo alle tecnologie informatiche e ai social media, dove passioni, gusti, abitudini, acquisti, spostamenti, eventi (da quelli quotidiani a quelli più decisivi ed epocali per le nostre esistenze come nascite, relazioni, matrimoni, separazioni, lutti, successi e insuccessi nello studio e nel lavoro, ecc.), vengono tutti dati in pasto e inghiottiti dai social, o registrati a nostra insaputa da applicazioni informatiche, telecamere e altri pervasivi e onniscienti mezzi di controllo. Come in Up, nel prologo del film si descrive in poche sequenze le fasi cruciali di un'intera vita famigliare, fino alla morte di uno dei due coniugi; ma se là si trattava ancora di un racconto classico, benché ellittico in modo scioccante (trattandosi di un film d'animazione poi ogni immagine è stata letteralmente creata), qui il tutto si dà come la compilation di una documentazione autoprodotta e preesistente, affidata a un'imperitura memoria informatica. La nostra vita è quindi già racconto (testuale, iconografico, audiovisuale), per quanto frattale e disgregato, che attende solo qualcuno che lo ricomponga in una trama (la rete) ricollegandone i nodi (i contenuti e le informazioni). La forma del giallo, con il suo meccanismo di indagine (già alluso nel titolo, che unisce i significati della ricerca della persona scomparsa, dell'indagine – anche epistomologica – e della ricerca come operazione che ciascuno di noi compie quotidianamente nella rete) è ovviamente quella che meglio si presta a raccontarci questa verità. Quasi 80 anni dopo l'opera prima di Orson Welles, la ricerca testimoniale e documentale che cercava di ricostruire la vita e l'identità del Citizen Kane diventa ora una ricerca delle verità nascoste nella virtualità della rete: la memoria storica (con quanto di soggettivo poteva contenere) diventa memoria informatica (con il miscuglio di realtà e – falsa - autorappresentazione che essa contiene). Una curiosità infine: mentre in un normale film straniero, ci si limita a doppiare - almeno in Italia - la parte audio, cioè i dialoghi e le eventuali voci fuori campo, in questo caso il doppiaggio ha investito l'intero ambito visivo del film, considerata l'enorme quantità di testi scritti mostrati sullo schermo ad ogni inquadratura (testi di mail e di chat, istruzioni di programmi e applicazioni, titoli e sottopancia televisivi, ecc.). Immagino che la digitalizzazione del tutto abbia aiutato: la cosa un po' straniante è però che stavolta contrariamente al solito non stiamo né udendo ma neppure vedendo il film originale... SOLDADO (Sicario: Day of the Soldado) di Stefano SollimaSoldado, lasciando da parte gli attori (con le carismatiche performance di Brolin e Del Toro) ha almeno tre padri. Uno è Taylor Sheridan, che ha scritto sia il precedente Sicario che Soldado, delineando personaggi, storie e ambienti dei due film. L’altro è Denis Villeneuve, il regista di origine canadese che ha diretto Sicario impostando toni e ritmi, personalità visiva e sonora. Il terzo è Stefano Sollima, il regista italiano di A.C.A.B., Gomorra - La serie, Suburra, al quale è stata affidata la regia del sequel. Partiamo in ordine sparso. Villeneuve ha indubbiamente impresso al prototipo una personalità potente e impegnativa. Forse tra i migliori metteur en scene in circolazione, spesso impegolato in sceneggiature discutibili (l’ultima impresa è l’ardua realizzazione del remake di un film di straculto come Blade Runner), specialista dei toni cupi e drammatici, con Sicario ha dato della lotta tra le “forze dell’ordine” statunitensi e i trafficanti di droga messicani (un tema non certo nuovo) una rappresentazione audiovisivamente potente e impressionante, scolpendo caratteri iconici monolitici ma perversamente affascinanti. Sergio Sollima ne riprende personaggi (non c’è più la protagonista femminile del primo episodio, la poliziotta novizia interpretata da Emily Blunt, mentre subentrano diversi altri character), i temi, gli ambienti rispettandone la continuità tonale, ma nello stesso tempo trovando una perfetta congenialità con i temi già oggetto (mutatis mtandis) del proprio cinema. Le atmosfere corrusche e aride di Sicario, la laconicità dei dialoghi, la secchezza delle sequenze d’azione, la rappresentazione mitopoietica di antieroi sporchi e scorretti, l’atmosfera sonora che produce un costante senso di tensione, le riprese dall’alto dei convogli, sono tutti elementi già presenti nel primo film che Sollima mantiene e cerca di intensificare. Nello stesso tempo però è difficile non vedere come i temi di Soldado - con i suoi antieroi che al di qua e al di là della legge si muovono con uguale durezza e spietatezza, scontrandosi duramente come altrettanti maschi alfa per la conquista del potere e del territorio, per la vendetta o per combattere il male (con il male) - si adattino perfettamente a chi, nel contesto della realtà italiana, aveva già parlato di poliziotti che si muovono ai confini della legalità, di camorristi in guerra, degli intrecci tra i mondi della delinquenza organizzata e quelli della politica e delle istituzioni. La sicurezza con cui Sollima prende le redini di un’impresa hollywwodiana è degna di nota, e la sequenza dell’assalto al convoglio degli Humvee nel deserto, visto per la maggior parte con la prospettiva di una ragazzina chiusa dentro un blindato che vede terrorizzata l’inferno scatenarsi attorno a lei, è a mio parere un pezzo di grande cinema. Nelle immagini di Sollima è inoltre costante la tensione tra le vicende individuali dei personaggi protagonisti (cui Brolin e soprattutto Del Toro - pur con un'interpretazione manierista - danno una fisicità scabra e tenebrosa), scolpiti come fossero eroi omerici, e l’astrazione di un livello superiore che ne fa pedine di un gioco che li trascende e stabilisce le regole cui devono sottostare. Se nella prima parte è soprattutto il primo aspetto a prevalere (con un rischioso incipit che inanella alcune sequenze “astratte” prima di arrivare a individuare alcuni dei protagonisti), la seconda si concentra soprattutto sugli individui, dei quali emerge gradualmente un’umanità fino a quel momento accantonata o dissimulata che porta diversi tra loro a trasgredire agli ordini ricevuti e alle regole loro imposte. Lungo gran parte del film, c’è quindi una ricorrente predilezione per le riprese dall’alto, spesso zenitali, attraverso cui occhi umani o inumani (da elicotteri, droni, cannocchiali, monitor), istanze di un superiore controllo, scrutano imperturbabili le tragedie umane, come i corpi dei migranti ridotti a macchie di calore nella visione notturna delle termocamere Flir montate sugli elicotteri delle guardie di frontiera. Decisivi per l’atmosfera tonale del film sono anche la fotografia di Dariusz Wolski (fotografo de I Pirati dei Caraibi, di alcuni Tim Burton e di tutta l’ultima produzione, fantascientifica e no, di Ridley Scott), che prende il posto di Roger Deakins (che proprio per Sicario era stato candidato all’Oscar), e la musica di Hildur Guðnadóttir, violoncellista e compositrice islandese che prende il posto del proprio maestro Jóhann Jóhannsson (anch’egli candidato all’Oscar e scomparso prematuramente dopo la realizzazione di Sicario), replicandone la drammatica e ansiogena tessitura fatta dall’onnipresente (forse troppo) glissato di bassi e di percussioni distorte con sonorità quasi industrial. Detto questo, probabilmente l’aspetto più debole dell’operazione è proprio nella sceneggiatura di Sheridan (premiato per la regia a Cannes per il suo primo film, I segreti di Wind River, nominato all’Oscar per la sceneggiatura di Hell or High Water), che torna ancora sui temi della frontiera dopo una trilogia che sembrava già conclusa. Ad un primo livello, possiamo dire tematico e ideologico, l’operazione di scrittura di Sheridan suscita già qualche perplessità per il modo in cui mitizza il ricorso alla violenza e all’astuzia cinica per perseguire obiettivi “nobili” come la lotta al terrorismo e al traffico di esseri umani e di droga. Matt Graver e Alejandro, i protagonisti “positivi” di Sicario e Soldado, il primo per “spirito di servizio” verso il Governo, il secondo per perseguire vendette personali, torturano, rapiscono, uccidono colpevoli e incolpevoli, grandi e bambini. A dare una cattiva immagine di sé sono semmai i livelli decisionali, i funzionari civili e militari, anche di altissimo livello, che approvano le strategie più sporche e impartiscono gli ordini più devastanti, salvo poi per convenienza rimangiarsi la parola lasciando cinicamente i propri agenti sul terreno abbandonati al loro destino o obbligati a compiti impossibili. Indubbia è invece la simpatia con cui si guarda ai “soldati” impegnati foot on the ground in queste guerre sporchissime dove ogni mezzo è lecito e gli scrupoli morali sono banditi. Ma la sceneggiatura di Sheridan mi ha suscitato qualche perplessità anche a un livello più tecnico e drammaturgico. Se la vendetta come motivazione dell’azione di Alejandro appare come un tema ripetitivo già sfruttato e apparentemente esaurito nel primo episodio, le dinamiche dell’operazione di rapimento e falso ritrovamento della figlia di un boss del narcotraffico ad opera di agenti americani sotto copertura è piuttosto macchinosa, e poco credibile è l’espediente che mette l’uno contro l’altro i due eroi “positivi” finora alleati. D’altra parte bisogna dire che altrove la sceneggiatura fa miracoli, come quando fa riemergere l’umanità di Alejandro e l’empatia per la ragazza rapita senza artifici melodrammatici, senza flashback e senza sprecare troppe parole (anzi, praticamente facendone a meno in una sequenza cruciale, che non vede neppure la ragazza come protagonista, dialogata con la lingua dei segni). Se già aleggiava echi lungo il percorso (quelle macchine nel deserto con i cadaveri sparpagliati intorno), avvicinandosi verso il finale il film sembra correre verso la spietata crudeltà post-western del McCormack di Non è un paese per vecchi. Ma sulla radicalità estrema del romanziere prevale la logica hollywoodiana: il film sterza, e tutti i personaggi primari e secondari vengono tenuti disponibili per un eventuale seguito di quella che si rivela, almeno nelle intenzioni, una saga che non finisce qui. I fili narrativi, anziché riannodarsi nel finale, si sfilacciano in un finale aperto, che lascia già con l’appetito morboso per la prossima puntata. FIRST MAN - IL PRIMO UOMO di Damien ChazelleTrovo singolare la convergenza su un medesimo tema, e la presenza di un analogo mood, in due tra i maggiori esempi di fantascienza adulta contemporanea, Gravity e First Man. Addirittura i titoli si richiamano e si rilanciano l'un l'altro in un richiamo alla sessualità e alla procreazione: il first man come elemento maschile fecondatore e la gravity come condizione di chi porta un peso, la gravidanza, si riecheggiano in due film con protagonisti assoluti nel primo caso un uomo (con una donna a terra in – dolce - attesa), e nel secondo una donna (con un uomo alle spalle che ne rende possibile l'avventura e la sopravvivenza), entrambi ambientati nello spazio “domestico” compreso tra la terra “madre” e le orbite satellitari, fino a quella luna verso la quale è diretta una missione “seminale” (un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l'umanità). Entrambi i film, anche se a colpo d'occhio non appare il tema dominante, radicano le storie personali dei rispettivi protagonisti in un lutto e in una mancanza, del tutto analoghi. Pur essendo uno una storia di pura fiction, l'altro ispirato a fatti reali e verificabili, entrambi i film hanno radicamento nella morte di una figlia bambina. Per quanto possa apparire azzardato a una visione superficiale, i due film mi sembrano raccontare una storia molto simile di elaborazione del lutto, attraverso un viaggio reale e simbolico, compiuto nell'astrazione dello spazio cosmico, in cui l'individuo è costretto a confrontarsi con se stesso, e il cui fine ultimo è il ritorno e la ri-generazione. Come quello dell'Odissea, il viaggio, qualsiasi sia la destinazione, e qualunque deviazione ed ostacolo possa incontrare nel suo svolgersi, è sotto l'egida del nostos (la parola greca che dà origine al termine italiano “nostalgia”), cioè del ritorno. Un ritorno che è un rientro in se stessi prima che sulla terra, dopo l'elaborazione di un lutto e il diretto e brutale confronto tra la vita e la morte. In Gravity (cui avevo dedicato un articolo scritto per "Segnocinema") la dottoressa Ryan Stone è l'unica sopravvissuta del proprio equipaggio e in First Man il percorso di Armstrong verso la missione lunare e verso la luna si svolge sotto il segno di presagi luttuosi, con la morte germinale della figlioletta e poi progressivamente di diversi amici e colleghi e i rischi di morte cui il protagonista è più volte sottoposto, in genere a causa delle avarie o del malfunzionamento dei vettori sperimentali cui è affidata la sua vita. La partenza da casa di Neil è preceduto dall'addio ai figli, che devono essere preparati al suo non-ritorno, mentre per lui sono già scritti i necrologi da leggere ai telegiornali se, come sembra quasi probabile, la sua missione fallirà e la sua vita sarà persa da qualche parte, per mancanza di ossigeno, per una rotazione eccessiva, per il malfunzionamento di qualche valvola, per un'esplosione improvvisa, per uno schianto contro le rocce lunari o per qualsiasi altro imprevisto banale o eccezionale incidente possa capitare. Come Ryan viene di nuovo partorita e rinasce dopo una gravidanza interstellare, emergendo dalle acque ed ergendosi di nuovo sulla terra, così Neil compie definitivamente la propria missione non mettendo piede su un satellite deserto e arido, ma riprendendo contatto (letteralmente, malgrado ci sia ancora il diaframma di un vetro a separarli) con la propria vita e con la compagna amata. Il punto di traguardo del lungo viaggio sono delle dita che si toccano con altre dita: non per mettere in contatto l'uomo con Dio, come in Michelangelo, o con l'alterità, come in E.T., ma per mettere in contatto l'uomo con l'umanità, la propria umile, preziosa, fragile e indistruttibile umanità. Per Kennedy l'impresa andava compiuta perché “difficile”; e solo Neil potrebbe (forse) dirci quanto. Come Astolfo vola sulla luna per recuperare il senno di Orlando, Armstrong persegue cupamente la propria missione, ormai tetra e fatale come un destino, per recuperare il proprio senno, la propria dimensione vitale ed esistenziale, la propria possibilità di tornare a vivere in un mondo che pure è capace di infliggere un dolore apparentemente insuperabile e irreparabile. Forse è proprio la morte a far sì che la missione di Armstrong possa compiersi. Forse è la disperazione per la morte della figlioletta che porta Neil a sfidare la propria sorte nello spazio, ed è la morte dei compagni che gli permette di approdare passo dopo passo alla partecipazione alla missione fatale. Si direbbe che Neil raggiunga la luna non solo per una propria ossessiva ambizione, per coronare un sogno dell'umanità intera, per celebrare la potenza tecnologica dell'uomo, per sconfiggere l'Unione sovietica nella lotta piena di simboli e di propaganda per la conquista dello spazio, bensì per compiere un rito mesto e intimo, paradossalmente sproporzionato rispetto all'investimento economico, tecnologico, politico, di volontà e di progresso che l'ha portato sulla superficie lunare: il compimento, l'apice del viaggio di Armstrong è un gesto semplice e quasi impercettibile - quasi la negazione di un gesto, il non trattenere, il lasciare andare -: quello di una mano che si apre, e che lascia cadere di moto proprio una collanina dentro un cratere lunare, altare, sepoltura o cicatrice sempre aperta che sia. Ma se First Man si rispecchia in Gravity, è nello stesso tempo d'altra parte la logica conseguenza della poetica d'autore di Chazelle, che in Whiplash, in La la land e in First Man racconta con diverse declinazioni (e attraverso diversi generi cinematografici classici, la success story, il musical, la science fiction) storie di ossessioni e di successo, sempre con la stessa morale, o con con la stessa amara constatazione: quanto costi e quanto appaia alla fine vacuo, anche se raggiunto, qualsiasi ambizioso obiettivo possa dominare la mente e la vita degli esseri umani. Così si chiede se valga la pena massacrarsi le mani e la vita per diventare il migliore dei batteristi; o se valga la pena raggiungere la fama e il successo nel mondo dello spettacolo, se il prezzo da pagare è lo smarrimento lungo la strada dell'amore della propria vita; o infine se valga la pena di mettere piede sulla luna, quando i nostri affetti e le nostre memorie dimorano sulla terra. Chazelle da parte sua affronta di nuovo, come già in La la land, l'impresa di coniugare il cinema classico con quello contemporaneo. Al primo sono da attribuire la linearità narrativa, l'andamento antiretorico e antieffettistico, la discezione del commento sonoro affidato al fedele Justin Hurwitz e l'importantissima presenza di una fotografia dalle tonalità vintage firmata da Linus Sandgren. Al secondo appartengono invece l'astrazione figurativa in talune sequenze e soprattutto l'instabilità emotiva continuamente ribadita dalle riprese con camera a mano – anche dove la sua presenza e i suoi movimenti rasentano l'impercettibilità – non solo nelle sequenze di movimento ma anche in quelle più intime e domestiche (il montaggio è di Tom Cross). D'altra parte lo sguardo di Chazelle, assume un'ottica simmetrica ed inversa a quella di 2001 Odissea nello spazio, che nel 1968, grazie alla visionarietà di Kubrick immaginava in un futuro fantascientifico astronavi immacolate, accoglienti e servizievoli (almeno finché non impazziscono) levigate e perfette da far danzare sulle note del Bel Danubio blu; qui invece si guardano con piglio quasi documentaristico i veicoli spaziali di quell'epoca, che si vedono e si sentono in tutta la loro pesante materialità, macchine che oggi appaiono rozze, di cui è percepibile nel film la fattura quasi artigianale e rudimentale. Il regista affida infine la missione del titolo a un Ryan Gosling tornato alla sua connaturale e dolente inespressività, regalando a Claire Foy (anche in Unsane di Soderbergh) un ruolo ancillare ma di notevole intensità. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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