OCCHIALI NERI di Dario ArgentoUn incidente automobilistico provocato dall'inseguimento di un serial killer priva la giovane prostituta Diana della vista, e il piccolo Chin dei genitori. L'assassino continuerà a perseguitarli fin quasi ai titoli di coda. Durante e dopo la visione di Occhiali neri il sentimento dominante che ho provato è una sconsolata desolazione. Il maestro italiano del brivido ha aspettato 20 anni a realizzarlo e l'ha portato a termine oggi, a dieci anni dal flop che sembrava definitivo di Dracula 3D, grazie alla figlia Asia che ha assunto il ruolo di produttrice esecutiva oltre che un ruolo comprimario. Il fallimento della Cecchi Gori che avrebbe dovuto produrlo nei primi anni 2000; la sceneggiatura dimenticata in un cassetto; lo scioglimento dei Daft Punk che avrebbero dovuto curare la colonna sonora; non erano tutti segni del destino che indicavano unanimemente che questo film non si sarebbe dovuto fare? E allora perché invece intestardirsi nel volerlo fare oggi? Non che vent'anni fa sarebbe stato meglio, Occhiali neri sarebbe stato brutto, inutile e vecchio anche 20 anni fa. Spiace che mentre il cinema italiano tenta un nuovo approccio al genere, un maestro riconosciuto come Argento non arrivi in soccorso a dare un suo contributo a sostegno. E' come se Dario non solo non avesse girato film, ma neppure ne avessi visti da allora. Per un po' guardandolo ho mantenuto il beneficio del dubbio. Quelle situazioni tirate via, quei poliziotti così imbranati, quella recitazione così dilettantesca, i primissimi piani della Pastorelli che non nascondono le imperfezioni della pelle del viso. E' lo stile di Argento, ho pensato. Che non imita, non vuole aggiornarsi, non cede a compromessi. E così ho aspettato una chiave di lettura, un twist, un guizzo ironico, un colpo di coda da maestro del brivido. E invece no, purtroppo no, ogni minuto una frustrazione. I dialoghi e la recitazione nei film di Argento sono sempre stati così, accessori di un giocattolo che funzionava per trovate visive, per il connubio tra immagini violente e musica, e che faceva maledettamente paura. Ma Occhiali neri va oltre; la recitazione scende al livello di una filodrammatica, ma poi si infila sotto il suo tappeto, rendendo inascoltabili battute già insulse sulla carta. L'abituale stile della Pastorelli (così congeniale all'Alexia sciroccata di Jeeg Robot) viene lasciato impietosamente andare alla deriva ben oltre l'orizzonte del naif; del bambino cinese ci si può chiedere se capisse l'italiano delle battute assegnategli; gli altri cercano di non elevarsi sopra il livello dei protagonisti per non sfigurare dando mostra di saper recitare. La storia è priva di logica e di credibilità, e forse non si è mai visto sullo schermo un serial killer così privo di carattere, di motivazioni, di fascino morboso, di modus operandi (tutti difetti che si possono legittimamente addebitare pari pari al film stesso). Niente mi è parso funzionare: non la fotografia (con tutti quei boschi notturni inondati di luce bianca), non la musica datata (del francese Arnaud Rebotini), non la consecutio logica, non le scene paurose, prive di pathos e di reale terrore, con Argento che sembra accontentarsi di filmare da vicino un paio di cruente agonie da sgozzamento organizzate dal vecchio sodale Sergio Stivaletti (mentre la terribile tortura cui il perfido maniaco sottopone le sue vittime consiste in una doccia con la canna dell'acqua). Il regista/autore sembra vanificare e distruggere puntualmente, con una sistematicità quasi sospetta, qualsiasi elemento che potesse conferire interesse narrativo, visuale o metaforico al film: l'eclissi, la cecità, il sesso, la situazione della prostituta cieca, la necessità di rieducarsi alla mobilità e all'orientamento, il rapporto con il bambino, la presenza dei cani (che sembrano messi lì solo per provocare i critici instillando il gusto perverso di battute feroci), la caccia, le ambientazioni. Anzi, se una metafora si può trovare, è forse quella della figlia/produttrice/istruttrice Asia, che deve guidare e orientare lungo il nuovo film un padre/regista dalla vista (cinematografica) ormai indebolita. Tutto annega in un'approssimazione tirata via alla svelta che sembra aspirare morbosamente all'apoteosi del dilettantismo; e spiace moltissimo dirlo, ma alla fine quello che si apprezza di più, con rispetto parlando, oltre alle tette e alle minigonne della Pastorelli, è l'estrema brevità del tutto.
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LA FIERA DELLE ILLUSIONI (Nightmare Alley) di Guillermo Del ToroSin dalle prime immagini La fiera delle illusioni ci immerge nel mondo del noir anni '30, quello de Il postino suona sempre due volte, per intenderci, immerso nei brulli paesaggi immortalati dalla pittura di Andrew Wyeth (cfr. l'immagine al fondo dell'articolo). Il vagabondo con un passato oscuro alle spalle (una casa in fiamme, un grosso involto nascosto in un buco nel pavimento) e in cerca di fortuna, il lavoro avventizio in un'America randagia che si sta risollevando dalla Grande Depressione, una coppia in cui insinuarsi, un libretto pieno di segreti, una cassa piena di veleno. Ma il film (tratto dal romanzo di William Lindsay Gresham, che aveva già avuto una traduzione per lo schermo nel 1947, con Tyrone Power protagonista, cui il film di oggi è sostanzialmente fedele dal punto di vista della struttura narrativa) è diretto e scritto da Guillermo Del Toro, un autore che ha una visione teratologica delle storie e della Storia, per cui tutta la prima parte del film è immersa in atmosfere dove al realismo della narrazione si mescola l'onirismo concreto dell'ambientazione, una fiera delle meraviglie piena di freaks (reali o prodotti con arte e cinismo), di fenomeni di natura, di trucchi escogitati per stupire il pubblico campagnolo, tra donne barbute e donne elettriche, nani e forzuti, uomini-bestia e feti deformi conservati sotto spirito. Ma è nel secondo atto che si rivela appieno la morale del film: quando tra ciarlatani e truffatori, maghi e illusionisti, spiritisti e mentalisti, dottori e psichiatri, sia che ci si trovi in una ruspante fiera di campagna che negli ambienti freddi ed eleganti dell'alta borghesia, si scopre che il mondo si divide sempre e solo tra ingannatori e ingannati. E a volte le due categorie possono anche coincidere, visto che ognuno nasconde in sé fragilità, debolezze e segreti rimossi che lo rendono indifeso davanti al fascino della seduzione e della costruzione (a volte innocua, a volte pericolosa) di una rappresentazione fittizia, prodotta a suo esclusivo uso e consumo, almeno finché l'impatto con la realtà farà esplodere la bolla dell'illusione. Del Toro allestisce un noir in purezza, preciso nelle atmosfere e avvolgente, di grande eleganza figurativa, immerso in atmosfere plumbee e invernali fotografate dal danese Dan Laustsen (già collaboratore in precedenza del regista spagnolo), diviso in due parti (con molti esterni nella parte rurale e una prevalenza di interni in quella urbana), raccontando in realtà una vicenda circolare di ascesa e caduta. I personaggi sono spesso inquadrati dal basso, non per esaltarne il titanismo, ma al contrario per ridimensionarli in una realtà più grande di loro, anche quando credono di dominarla. Gli attori del ricco cast (Bradley Cooper, Cate Blanchett, Rooney Mara, Toni Colette, Willem Dafoe) rispondono ad un progetto di stilizzazione, per cui sono utilizzati in funzione della caratterizzazione fisica e della loro storia di interpreti; tra tutti spicca per fascino ed efficacia la dark lady di Cate Blanchett, sinuosa e incantatrice come un serpente dalla pelle pallida, i capelli biondi e la bocca scarlatta. Il tema dell'illusione, o meglio della consapevole e pianificata fabbricazione dell'illusione, ha fatto pensare a molti che in realtà il film parli (anche) del potere affabulatorio e fascinatorio del cinema. La natura magico-illusionistico del cinema fu tematizzata da Orson Welles, che ad essa dedicò un film metatestuale come F for Fake (e che fece la sua ultima apparizione in tv, il giorno prima di morire, nei panni di un prestigiatore). Ma in questo caso il film parla, forse più che del cinema come linguaggio dell'illusione, del cinema come fabbrica delle illusioni. La molla che spinge i personaggi del film non è mai quella del desiderio di narrare una favola, di costruire una realtà estetica e morale alternativa: protagonisti e comprimari de La fiera delle illusioni sono mossi sempre da moventi utilitaristici: i loro inganni sono finalizzati a procurarsi prima di tutto denaro, e poi fama e potere, dal desiderio di affermazione, di rivalsa, di sopraffazione, di vendetta. Gli illusionisti del film vogliono dare ai loro clienti - usando strumentalmente a questo scopo tecniche psicologiche rudimentali o più raffinate - quello che loro desiderano vedere, che sia un bruto che stacca a morsi la testa di una gallina o che una ragazza morta che resuscita dall'oltretomba. Un po' registi che evocano ad arte una realtà fittizia, insomma, e un po' esperti di marketing che quella realtà la disegnano sulla misura dei bisogni dei loro spettatori/vittime. QUEL GIORNO TU SARAI (Evolution) di Kornél Mundruczó L'inizio di Quel giorno tu sarai è di una potenza ipnotica. Tre personaggi in abiti da lavoro entrano in una stanza nuda, sporca e senza finestre. In silenzio, cominciano a pulire pavimento e pareti, con secchiate d'acqua e spazzoloni. La mdp a mano segue in piano sequenza, mobile e senza stacchi, i tre personaggi nella loro silenziosa sarabanda, seguendoli come topi che si agitano in una gabbia, o come muti personaggi beckettiani impegnati in una missione insensata. Ma presto lo spettatore comincia a rendersi conto che acqua, calce, spazzoloni e la muta frenesia degli uomini non riusciranno mai a cancellare l'orrore di quel luogo, come tutta l'acqua del mondo e tutti i profumi d'Arabia non sarebbero mai riusciti a cancellare le macchie e il puzzo del sangue dalle mani di Lady Macbeth. Infatti da ogni crepa nei muri, da ogni fenditura, da ogni bocchetta della stanza gli uomini cominciano ad estrarre grumosi filamenti sempre più lunghi, e poi intere matasse aggrovigliate di capelli umani. Gli uomini sono attoniti dall'orrore, fino a che non sentono il lamento di un bambino, e allora da un buco sotto le lastre del pavimento di cemento estraggono una bambina piangente, nuda e sporca come la stanza, ma viva. In un apparente piano sequenza ininterrotto che si fa sempre più vertiginoso, gli uomini escono dalla stanza con la bambina in braccio ed emergono nell'esterno luminoso e freddo di un campo di concentramento in smantellamento, coperto di neve sporca. La bambina viene affidata ad un soldato con la stella rossa sul berretto e comincia la sua corsa verso il futuro, seguita ancora da una mdp che li segue da vicino, ancora senza stacchi apparenti, per librarsi alla fine nell'alto del cielo bianco, sopra la distesa delle baracche del campo di sterminio. Si chiude così Eva, il primo episodio, quasi muto, con la ri-nascita di una bambina direttamente partorita dal buco nero del basso ventre dell'orrore più sporco e profondo immaginabile. In Pieces of a Woman una donna, discendente da una stirpe che aveva conosciuto gli orrori del lager, elaborava un terribile lutto personale fino a trovare un nuovo motivo di consolazione e di speranza; in Quel giorno tu sarai (Evolution è il titolo originale del film, scritto ancora una volta con Kata Wéber e prodotto da Martin Scorsese) l'elaborazione del trauma si ripercuote attraverso le generazioni, in cerca di una via di fuga dall'odio, dalla violenza e dall'orrore. Se il film precedente iniziava con un parto e con una bambina morta in una casa pronta ad accoglierla e terminava con una nuova bambina arrampicata su un albero in mezzo a nuovi frutti, stavolta il film inizia con una bambina viva partorita dalla pancia degli inferi e finisce con un bacio. Da Eva, la prima donna - che anziché essere cacciata dal paradiso viene estratta dall'inferno - si passa a Lena, la figlia che si occupa dell'anziana madre nel secondo episodio a lei intitolato. Il conferimento di una benemerenza a Eva (ma lei deve trovare i documenti per provare di essere veramente ebrea, come una volta doveva invece nasconderlo per sopravvivere) diventa un'occasione per un confronto tra madre e figlia (come, al maschile, nel Maus di Spiegelman) sul peso dei ricordi e della memoria, sull'appartenenza, sull'eredità terribile di chi è sfuggito ad una condanna infondata e inspiegabile che ancora rimbomba nelle orecchie dei sopravvissuti e dei loro discendenti. Mundruczó introduce altre metafore (la scarica diarroica che fa dire dalla madre alla figlia, impegnata – di nuovo – a pulire il pavimento “abbiamo una vita di merda; tu in senso metaforico, io letterale”; la cascata d'acqua inarrestabile che irrompe nella casa a scompigliare l'ordine e i ricordi) e insiste ancora nel partito preso del piano sequenza, con virtuosismi (la mdp ad un certo punto esce dall'appartamento attraverso una finestra aperta e rimane sospesa nel vuoto ad osservare la scena dall'esterno) che rischiano di far prendere il sopravvento alla prodigiosa abilità tecnica a scapito del senso. Il terzo episodio è imperniato su Jonas, il figlio di Lena, studente liceale che malgrado voglia prendere le distanze da un passato ingombro di ricordi e tradizioni che non sente come propri, si trova ancora una volta esposto alle angherie di bulli che prendono a pretesto la sua razza per sfogare la propria ottusa e ignorante brutalità. Un apparente ininterrotto piano sequenza ci fa seguire le peregrinazioni di Jonas, che cerca evidentemente una sua strada per il futuro, tra la casa abitata da una madre imbrigliata suo malgrado in un passato che a lui non dice più nulla e il presente di una scuola dove essere un ebreo è sempre una colpa da scontare nell'umiliazione. Jonas si balocca truccandosi con piaghe e ferite che lui non ha mai conosciuto, e nel frattempo cerca con la forza dell'istinto una via d'uscita alle strettoie della vita. La trova in una ragazza; che arriva da un Paese, da una cultura, da una religione diversa dalla sua; e che è senza capelli (suo padre l'ha rapata perché non gli piacevano i capelli blu - e di che colore gli piacciono? le chiede lui – ma intanto vengono in mente quei capelli estorti rifugiatisi ostinati nelle fessure del lager nel primo episodio). In Pieces of a Woman il mondo e la speranza rinascevano con una bambina appollaiata tra i rami di un melo carico di frutti; qui il mondo rinasce nel bacio di due ragazzini appartati dal mondo, sulle rive di un fiume che scorre. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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