POVERE CREATURE! (Poor Things) di Yorgos LanthimosEsiste forse una correlazione tra la situazione narrata in Kynodontas, scritto in Grecia dallo stesso Lanthimos insieme al fido Efthymis Filippou, e quella di Povere creature! sceneggiato dall'australiano Tony McNamara partendo dal romanzo dello scozzese Alasdair Gray.
Si tratta in entrambi i casi di due “esperimenti” sul carattere e sulla natura umani: in Kynodontas con fini “educativi” e “morali”, in Povere creature! a fini “scientifici”. Nel primo un padre tiene segregati i tre figli in una villa suburbana, per tenerli lontani dalla corruzione del mondo, insegnandogli ad abbaiare per tenere lontani i “gatti feroci” che possono infilarsi nel giardino e storpiando il significato di parole comuni ritenute troppo compromettenti e pericolose. La figlia maggiore alla fine, alla ricerca disperata di emancipazione, tenterà una fuga, non sappiamo se destinata al successo. Nel secondo, uno scienziato pazzo e malato di ubris tenta di tenere segregata nella sua villa una giovane donna, trovata morta e incinta, nella cui testa ha trapiantato il cervello del feto che lei stessa teneva in grembo, e riportata in vita con scosse elettriche. Ma la ragazza, man mano che il suo cervello cresce, che progredisce nell'uso del linguaggio e che scopre le gioie del piacere sessuale, ben presto sfuggirà al suo padre/creatore/carceriere lasciando la sua fastosa e tenebrosa villa e il giardino in cui si aggirano animali ibridi e mutanti creati dalla folle chirurgia di Godwin Baxter. Entrambe le giovani donne poi si trovano ad un certo punto a sfogare nella danza la propria ansia di vita e di libertà: la “figlia maggiore” scatenandosi di fronte ai genitori allibiti sulla musica di un film proibito; Bella Baxter danzando sfrenata e disarticolata in una sala da ballo sotto gli occhi del suo preoccupato amante. Ma se il punto di partenza della poetica di Lanthimos si radica nella tragedia greca (le bizzarre prefiche di Alps; il mito di Ifigenia ne Il sacrificio del cervo sacro), con Povere creature! ci si sposta in un territorio decisamente neogotico. Il riferimento più diretto e più visibile è quello al Frankestein di Mary Shelley, e Lanthimos lo esibisce esplicitamente nel laboratorio di Godwin dove le scariche elettriche resuscitano il cadavere; ma la casa e il giardino londinesi di Godwin sono anche l'isola del dottor Moreau, dove Welles aveva immaginato un folle chirurgo dedito a mostruosi trapianti tra animali (e tra animali ed esseri umani); e Bella Baxter è anche un vampiro che prosciuga di energie e di soldi lo sventurato Wedderburn - che ad un certo punto finisce in una cella di manicomio come il Renfield di Bram Stoker -, o una sua versione femminile, come la Carmilla di Le Fanu che anticipò Dracula; o ancora è come Olympia, la fanciulla non umana uscita dai Notturni di Hoffmann che seduce con la sua danza perturbante. Alla fine del libro di Gray è la stessa Victoria, di cui Bella sarebbe la reincarnazione, a smentire la narrazione che la riguarda, e che lei attribuisce al suo “sciocco marito” che le ha cucito addosso una favola gotica e romantica, che, appunto, “puzza di tutto ciò che era morboso nel più morboso dei secoli”. McNamara e Lanthimos invece scelgono impavidamente di dare totale credito alla storia di Bella, impaginandola in una fastosa fantasia visiva che fa proprio del perturbante la propria ineluttabile cifra. Perturbante è in primo luogo, ovviamente, Bella, creatura/figlia del deforme professor Godwin, demiurgo dal viso deturpato, madre e figlia di se stessa, connubio di un corpo di donna e di una mente infantile, sgraziata nei movimenti e disarticolata – o oscenamente esplicita - nel linguaggio e nelle azioni, corpo estraneo impresentabile e destabilizzante gettato(si) viva e turgida di desiderio nel cuore della società come in precedenza si era gettata per morire nelle acque livide del Tamigi. Ma perturbante, in senso freudiano, è tutto l'universo in cui si trova a vivere la propria avventura umana (?) la bella Bella, tra città (Londra, Lisbona, Parigi) che “sembrano” Londra, Lisbona o Parigi senza esserlo, con una fisionomia artificiale continuamente deviata lungo gli assi del fantastico, sopra le quali (oltre che su un Mediterraneo solcato da una grande nave steampunk che emette fumi color pastello) splendono impossibili cieli psichedelici che sembrano usciti da un anime lisergico; mentre le strade sono attraversate da strani “cavalli a vapore” e i giardini sono abitati da animali che eccedono la possibilità di una reale esistenza giusto quel tanto che basta per risultare definitivamente ripugnanti. Ancora prima, è lo sguardo stesso ad essere deforme e innaturale, con gli ambienti espansi da grandangoli estremi e le prospettive rimodulate e deformate dalle lenti fisheye, come se gli interni fossero ripresi da un numero infinito di spioncini disseminati negli ambienti, mentre un trattamento simile subisce ironicamente anche la colonna sonora, popolata di suoni dissonanti e disarmonici. Nello stesso tempo, Povere creature! è una parabola femminista, o qualcosa del genere. In un mondo di maschi, delimitato ai quattro angoli dal folle Godwin, dall'innamorato Max McCandles, dal libidinoso Wedderburn, del marito/padrone Blessington, Bella nasce, muore, rinasce, evolve, sperimenta i piaceri perversi polimorfi dell'infanzia fino all'esplosione della libido; ma progredisce anche intellettualmente e moralmente, con un'etica tutta personale che le consente di prostituirsi senza alcuna remora (imprenditrice di se stessa che usa il proprio corpo come mezzo di produzione), ma anche di impietosirsi fino a gesti di generosità inconsulta (e ingenua) davanti alle miserie umane. Corpo desiderante e mente (sempre più) pensante Bella è anche un intrepido Pinocchio femmina creata dall'uomo ma all'uomo non più assoggettabile (au contraire...), che da burattino di carne si trasforma alfine in una donna. Una simile storia eccentrica sarebbe stata perfettamente nelle corde di un altro dei grandi autori imprevedibili della contemporaneità cinematografica, Lars von Trier (i titoli dei vari capitoli si accampano su sequenze mute e oniriche che ricordano i paesaggi lisergici e musicali che introducevano i vari capitoli de Le onde del destino), che ha spesso messo in scena il conflitto (culminante forse con Antichrist) tra ragione e istinto, tra un'istanza (pseudo)razionale maschile e una istintiva e affettiva femminile; in definitiva, per tornare di nuovo a categorie e terminologie freudiane, tra un Super-Io autoritario, prescrittivo, catalogatore, regolamentatore e costrittivo, tendenzialmente sadico e un Es desiderante, istintuale, affettivo, anarchico, spesso nella condizione di vittima rispetto al primo. Ma come la Grace imprigionata nell'universo astratto di Dogville che alla fine si ribella, anche la Bella di Povere creature!, errante come un Gulliver ipersessuato nel suo mondo gotico-vittoriano-art nouveau-psichedelico, non ha intenzione di subire le costrizioni (letteralmente) castratrici dei maschi. Lanthimos trova una complice assolutamente superba (entrambi figurano tra i produttori del film) in Emma Stone, creatura polimorfa dagli occhi grandi e dai lunghissimi capelli scuri, che dà spericolatamente a Bella anima e corpo, volto e nudità, gesti sgraziati e andature innaturali, parole nuove appena scoperte ed altre sfacciate e scandalose, accenti grotteschi e umoristici, crudeltà infantili e umana vulnerabilità. Intorno a lei Willem Dafoe, vittima e carnefice, carceriere in fondo permissivo, arrogante e consapevole della caducità umana, chirurgo folle dal volto e dal corpo deturpati dagli altrettanti folli esperimenti paterni, e poi Mark Ruffalo - che condivide con la Stone toni anche comici e quasi buffoneschi pressoché inediti nella filmografia di Lanthimos - e Rami Youssef. In un cast tecnico in gran parte ungherese, spiccano i decisivi contributi del direttore della fotografia Robbie Ryan, che passa con disinvoltura dal realismo minimalista di Ken Loach alla visionarietà barocca di Povere creature!, la scenografia immaginifica di Heath, Price e Mihalek, il trucco curato dal pluripremiato Mark Coulier, i costumi di Holly Waddington. Conquistati tra gli altri riconoscimenti il Leone d'oro a Venezia, un paio di Golden Globes e decine di candidature a premi vari, Povere creature! si presenta agli Oscar con undici nomination. Auguri.
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MAESTRO di Bradley CooperMaestro si apre con una citazione di Leonard Bernstein che dice: “Un'opera d'arte non risponde a delle domande, ne provoca; e il suo significato essenziale sta nella tensione tra le risposte contraddittorie” e si conclude icasticamente con Bernstein da vecchio, intervistato da una troupe televisiva, che si rivolge verso la telecamera e chiede “Altre domande?”
In mezzo ci sono i “pezzi” di Bernstein messi in scena da Cooper, le domande sulla su personalità sfaccettata, poliedrica e complessa, le risposte contraddittorie suscitate da una biografia trasformata a sua volta in “a work of art”. Il giovane Bernstein lo spiega alla sua futura moglie Felicia Cohn Montealegre fin dal loro primo incontro: entrambi sono già delle personalità composite, per storia famigliare e personale; quello che devono fare è quindi mettere insieme i pezzi delle varie parti di cui sono composte, in modo da trasformarle in una personalità unica e socialmente presentabile. Perché il mondo pretende che siamo una cosa sola, mentre Bernstein si sente plurale, multiforme, inafferrabile. Quando Felicia gli chiede se quello che desidera è veramente diventare il più grande direttore d'orchestra d'America, Lenny risponde esplicitamente, con la luce negli occhi “Io voglio tante cose”. Le avrà: Bernstein sarà il più grande direttore d'orchestra d'America, rivoluzionerà il musical con West Side Story, scriverà una delle più apprezzate colonne sonore cinematografiche per Fronte del porto, comporrà e dirigerà musica colta e musica sacra; conquisterà Felicia con il suo magnetismo, la sposerà e ne avrà diversi figli, ma parallelamente continuerà a coltivare le sue molteplici passioni omosessuali prima, durante e dopo il matrimonio con la donna che dichiara di avere amato. Probabilmente Cooper ha guardato alla figura di Bernstein come in uno specchio, o meglio in uno specchio frammentato in cui ha visto riflessa la propria poliedricità artistica di attore cinematografico e teatrale, di regista, sceneggiatore, produttore, autore e interprete di canzoni (per A Star Is Born accanto a Lady Gaga), ballerino (ne Il lato positivo e, paradossalmente, nello stesso Maestro). Se anche la struttura totale è complessa, articolata su tre segmenti non coincidenti tra loro per colore e formato (un prologo e un epilogo “contemporanei” a colori e a schermo pieno, cornice del racconto e nello stesso tempo metaracconto – l'intervista rilasciata alla tv da Bernstein anziano; una prima parte in formato 4:3 in bianco e nero; una seconda parte con lo stesso formato ma a colori), tutta la prima parte del film asseconda l'assunto teorico di una biografia “plurale” adeguando di conseguenza l'apparato stilistico della narrazione; ad una biografia “fluida” corrisponderanno quindi una fluidità temporale, con ardite ellissi (l'arrivo “istantaneo” a teatro per la sua prima esibizione), spaziale (nella stessa sequenza Leo esce da casa sua mezzo svestito e subito dopo tale e quale entra in una balconata della Carnegie Hall), di identità (in un apparente continuità di ripresa è Felicia ad inchinarsi ma Leo a rialzare la testa), di permeabilità tra realtà e finzione (Bernstein sul palco da spettatore si trasforma istantaneamente in uno dei marinai ballerini protagonisti del suo musical On the Town); analogamente lo stile di ripresa adotta buona parte degli stilemi a disposizione del regista: ellissi, montaggio alternato, carrellate, zoom, montaggio da musical, come anche inquadrature statiche (a volte giocate sulla profondità di campo, come nel primo colloquio da soli dei due). Gioca anche con cognizione di causa sull'espressività del bianco e nero (la scena della prova di recitazione in una stanza buia illuminata da una nuda lampadina o la suggestiva scena della figura della moglie che si staglia piccola e luminosa nel buio del backstage, ma minacciata espressionisticamente dall'ombra del marito direttore d'orchestra. Ma, benché sia dia conto della varietà ed eterogeneità della produzione musicale di Bernstein, così come della carriera parallela della moglie come attrice (mentre rimane completamente in ombra l'impegno politico dei due – per i quali lo scrittore Tom Wolfe coniò l'epiteto destinato al successo “radical chic” - a difesa dei diritti civili, a sostegno delle Black Panther e contro la guerra nel Vietnam), quello che appare interessare di più a Cooper è la fluidità sessuale di Bernstein e il suo rapporto con la moglie, amata e continuamente tradita. Sembra quasi – e non è esattamente un bene - che il regista nella seconda parte tenti di bloccare la personalità di Bernstein, prorompente nella prima parte, in una sorta di gabbia narrativa legata alla sua situazione coniugale di marito e padre. Mentre Bernstein si ribella tenacemente ai media e alla vita stessa che tentano di “inquadrarlo”, esplorando nuove strade musicali e nuove avventure (omo)sessuali al di fuori del matrimonio, anche lo stile di ripresa tira il freno a mano e si normalizza, prediligendo le riprese a camera fissa e i lenti movimenti di macchia, spesso in avvicinamento al soggetto della ripresa. Le discussioni decisive tra i due coniugi vengono riprese staticamente da lontano (nella scena in giardino) o a camera fissa in campo largo e a figura intera (la discussione in casa durante il passaggio della parata). Se c'è ancora movimento, significativamente, è soprattutto all'interno dell'inquadratura, come nella virtuosistica sequenza in cui Bernstein/Cooper dirige con istrionica veemenza coro e orchestra nel concerto nella cattedrale, all'interno di un lungo, lento e complesso movimento di macchina. Ma è di nuovo un piano sequenza la forma scelta da Cooper per descrivere l'agonia di Felicia sul letto di morte, che si apre con l'allegra entrata in stanza di Bernstein, in campo largo, fino a stringersi progressivamente sullo straziante primissimo piano del volto dei due coniugi. Il formato di proiezione si allarga nuovamente nell'epilogo, che rappresenta un Bernstein ancora affamato di musica, di amore e di sesso (ascolta i R.E.M. sull'autoradio e balla estaticamente in discoteca sulla melodia Shout dei Tears for Fears, accanto al giovane a cui ha appena impartito una personale lectio magistralis di direzione d'orchestra), ma che in una intervista televisiva rivendica con gli occhi lucidi l'amore - in bianco e nero - per la moglie perduta. Cooper firma un film d'autore – il film della vita? - in cui ha ambiziosamente e generosamente profuso tutto se stesso, assumendo i ruoli di produttore, soggettista, sceneggiatore, regista e interprete mattatore, calandosi anima e corpo in un personaggio bigger than life. Un plauso anche ai truccatori - lo vinceranno un Oscar? -, che lo rendono somigliante e credibilissimo in tutte le fasi di vita in cui Bernestein è raccontato, dalla giovinezza alla vecchiaia. Accanto a lui non sfigura assolutamente Carey Mulligan, a torto a volte ritenuta un'attrice monocorde e legata a ruoli cliché (basterebbe Una donna promettente a smentire un simile assunto), che a sua volta attraversa trasformisticamente, ma sempre con un'eccellente dose di sensibilità e adesione al personaggio, la storia di una donna vissuta in parte nell'ombra dell'ingombrante marito, passando dalla fascinazione e dall'ebbrezza della giovinezza alle disillusioni e alla sofferenza dell'età matura. Maestro ha avuto finora molte candidature, ma ancora non ha avuto riconoscimenti rilevanti. E' candidato anche a sette Oscar, miglior film, attore, attrice, sceneggiatura, fotografia, sonoro e trucco. Vedremo se stavolta (in precedenza Cooper ha già ottenuto nove candidature in vari ruoli) riuscirà a passare dalle notti da leoni alle notti da Oscar... PERFECT DAYS di Wim WendersDedico questo articolo a mio papà, che sta vivendo i giorni meno perfetti della sua vita. Nel 1985 Wim Wenders si reca a Tokyo alla ricerca delle tracce del cinema di Yasujirō Ozu. Dal viaggio ha origine un film, Tokyo-Ga (che si traduce, appunto, “viaggio a Tokyo”) in cui Wenders si trova, in una condizione di spiazzamento culturale, a confrontare le immagini del cinema di Ozu, autore rigoroso e astratto per eccellenza (è stato definito “il più giapponese degli autori giapponesi”), con le immagini della città contemporanea, caotica, rutilante, e - agli occhi di un occidentale - a volte kitsch e a volte incomprensibile. Quasi 40 anni dopo, il regista tedesco torna a Tokyo sulle orme di un progetto bizzarro e mai realizzato (un documentario sull'architettura contemporanea dei bagni pubblici di Tokyo) e di una sceneggiatura scritta insieme a Takuma Takasaki. Di Ozu si porta dietro il cognome del protagonista, Hirayama, che è lo stesso della famiglia al centro de Il gusto del sakè, ultimo film del regista nipponico. Ma anche stavolta, Wenders compie (e fa compiere) nel corso del film uno slittamento, attraversando quello un concetto fondamentale dell'estetica nipponica, quello del mono no aware, ovvero “quel sentimento di assorta contemplazione che si vive di fronte alla natura, alle vicende umane e all'accadere delle cose e che porta alla consapevolezza del carattere effimero e transitorio del tutto, a una sorta di dolente e matura accettazione dell'ineluttabilità del cambiamento” (Dario Tomasi a proposito del cinema di Ozu). Perfect Days – il Giappone è una lingua che sembra avere una parola per tutto - potrebbe probabilmente essere definito un shomingeki, ovvero un film sulla gente comune: Hirayama svolge un lavoro umile, occupandosi della pulizia dei bagni pubblici. Tutta la prima parte del film ce lo presenta nella sua vita sempre identica a se stessa, fatta di piccoli rituali: la sveglia, il ripiegamento del tatami, l'innaffiamento delle piantine, le abluzioni mattutine, la pulizia dei denti, la cura minuziosa dei baffi; il viaggio per recarsi al lavoro in macchina, accompagnato dalla musica americana delle sue audiocassette; il lavoro scrupoloso e coscienzioso di pulizia e gli spostamenti da un bagno all'altro; la pausa pranzo su una panchina di un parco, dove scattare una fotografia al sole che filtra tra le mobili fronde degli alberi; la cena nel solito fast food dove è un cliente conosciuto; poi il rientro a casa, la lettura serale disteso a pancia in giù sul tatami, il sonno. I suoi giorni liberi, dedicati alla cura di se stesso, sono altrettanto ripetitivi e rituali: l'indossare l'orologio, che nei giorni di lavoro non porta, ad indicare un tempo che ha valore per sé; la pulizia del corpo in un bagno pubblico; una pedalata in bicicletta al di fuori del traffico urbano dei giorni feriali; la cena in un ristorantino la cui padrona ha un occhio di riguardo per lui. I giorni di Hirayama sono perfetti, perché privi di turbamenti come di desideri. Il suo è un mondo fissato in un cristallo di tempo, che è un tempo passato, intangibile da parte della modernità. Le canzoni che ascolta sono classici americani che non vanno più in là degli anni '70, incise su audiocassette e ascoltate su una vecchia autoradio; per fare le fotografie usa una vecchia macchina analogica con rullino; per muoversi nel tempo libero usa la bicicletta e per lavarsi, ai bagni ipertecnologici che pulisce per lavoro, preferisce vecchi bagni pubblici, dove gli uomini si insaponano e si lavano nudi seduti l'uno accanto all'altro su sgabelli di legno. Ma non è solo la modernità ad essere tenuta al di fuori del mondo di Hirayama; sono anche le persone. Gli unici esseri umani che sembrano interessarlo sono quelli con i quali non è tenuto a comunicare nella maniera naturale: un bambino piccolo che ha perso la mamma, un senzatetto fuori di testa, una ragazza che mangia muta sulla panchina accanto a lui, con l'aria inebetita, uno sconosciuto con cui intrattiene una partita a tris che prevede una mossa ciascuna al giorno, su un foglietto che ciascuno dei due provvede poi a nascondere dietro lo specchio di un bagno pubblico, affinché l'altro lo possa trovare. Lo spettatore occidentale è colpito e affascinato dalla visione di uno stile di vita improntato alla semplicità, alla frugalità, alla correttezza e alla gentilezza, all'attenzione alle piccole cose, in contrapposizione alla vita che ciascuno di noi si trova a vivere, dominata dalla complessità, dall'iperinformazione, dalla smania per le novità tecnologiche, dal consumismo sfrenato, dalla superficialità diffusa. Ma a ben guardare Hirayama è solitario fino al solipsismo, taciturno fino all'afasia, appartato fino all'anaffettività, immerso in un presente immemore fino ad essere completamente privo di prospettiva (alla nipote insegna pericolosamente e con insolita allegria che “adesso è adesso, un'altra volta è un'altra volta”). Facendo un salto mortale all'indietro, Hirayama non è forse così dissimile dal un altro antieroe wendersiano, Philip Winter, un giornalista tedesco che in Alice nelle città fugge dagli Stati Uniti per tornare nella vecchia Europa, e che attraversando una serie di non-luoghi cerca di catturare l'essenza delle cose attraverso il medium freddo della fotografia; salvo poi ritrovare la propria anima, la propria identità e i propri sentimenti solo grazie all'incontro fortuito con una bambina di nove anni che si accompagna a lui per un tratto del suo viaggio solitario. Hirayama tenta a sua volta di catturare l'incatturabile - la permanenza nel cambiamento o il carattere transeunte di una realtà che sembra immutabile - fotografando dal basso verso l'alto le foglie degli alberi, mosse dalla brezza e trafitte da un barlume di sole (ebbene sì, sembra impossibile, ma anche per tutto questo la lingua giapponese ha una denominazione: è il komorebi). Fa sviluppare e stampare e le foto, le inscatola, le etichetta con la data, le archivia in un armadio. E' un tentativo illusorio di incasellare la più effimera delle realtà, di dominare il tempo, di esorcizzare il cambiamento, mentre immagini, sentimenti ed emozioni tornano a mescolarsi nella loro natura caotica nei sogni che vengono a visitare le notti di Hirayama (le riprese dei sogni, in bianco e nero, sono state realizzate da Donata Wenders, moglie del regista, fotografa che predilige la poetica del mosso, del fuori fuoco, del controluce). Ma il cambiamento, inevitabile, arriva, quasi impercettibile: è il bacio di una ragazza che gli sfiora una guancia; sono le dimissioni di un giovane collega di lavoro; è l'arrivo di una nipote ribelle che aspira alla sua compagnia (e che lui denuncia ben presto alla madre benestante, che arriva subito a riprendersela, abortendo sul nascere quell'esperienza di condivisione che invece cambiava la prospettiva esistenziale del Philip Winter di Alice nelle città); è la visione fugace di un abbraccio; è l'incontro non cercato con un uomo malato. Hirayama, di turbamento in turbamento, è costretto ad apprendere che, sia pur impercettibilmente, le cose sono destinate a cambiare. Con l'amico di pochi notturni minuti, gioca a tentare di calpestare invano ciascuno l'ombra l'uno dell'altro, scoprendo che le ombre mutevoli si muovono e sfuggono; e infine rinuncia a riporre le proprie ultime fotografie dietro le ante morte del suo schedario. Per citare un altro titolo storico wendersiano, non è altro che un falso movimento: uno slittamento leggero in una vita che prosegue identica; ma che nella sequenza finale suscita sul viso altrimenti impassibile di Hirayama un turbinare di emozioni che mescolano il riso al pianto, la gioia ad una dolorosa malinconia. Forse anche Hirayama, come Winter - sotto la lente del cinema di Wenders, che fotografa “oggettivamente” e che contemporanea trasforma il proprio “soggetto” di osservazione - ha scoperto di essere un essere umano immerso nella condizione dolceamara, tragica e ridicola, insopportabile e inevitabile, dell'umanità. Hirayama si trovava già d'altronde tra i due poli della poetica wendersiana, l'attrazione per il mondo giapponese e quello americano: tra il rigore formale e la spiritualità dell'Oriente e lo spettacolo delle emozioni e della complessità dell'Occidente. Se Hirayama coltiva in casa il suo piccolo giardino zen, innaffiando amorevolmente piantine in germoglio colte nel giardino di un tempio, le sue frequentazioni letterarie e musicali sono prevalentemente americane. All'arte stilizzata del suo Paese, l'uomo delle pulizie affianca le letture di opere forti, di potente realismo narrativo e psicologico, come quelle di Faulkner o di Patricia Higsmith (sareste molto sorpresi leggendo in Urla d'amore il racconto La tartaruga, con il cui protagonista la nipote di Hirayama dice di identificarsi). E similmente affronta ogni nuovo giorno e ogni levarsi del sole (siamo nel Paese del sol levante...) ascoltando canzoni che parlano in lingua inglese della house of the rising sun o del morning sun che sale su una baia californiana (peccato che il distributore non abbia pensato di fare tradurre i testi delle canzoni); ed è ancora la voce ruvida e dolorosa di Nina Simone a ricordare ad Hirayama che un nuovo giorno inizia, e che ci si può sentire bene - malgrado tutto - in un'alba tutta nuova:
Birds flying high, you know how I feel Sun in the sky, you know how I feel Breeze driftin' on by, you know how I feel It's a new dawn It's a new day It's a new life for me, yeah It's a new dawn It's a new day It's a new life for me, ooh And I'm feeling good SALTBURN di Emerald FennellSaltburn è decisamente un film la cui contemporaneità è testimoniata anche dall'interesse e a volte dall'acceso favore che ha riscosso sui social media. Eppure al suo interno spira una certa aria di déja-vu, forse favorita dall'atmosfera vecchia Inghilterra (che per antonomasia è conservatrice e tradizionalista) che si respira nella magione della famiglia coprotagonista del film. Certo, non si tratta della nobiltà inglese delle buone maniere, del rispetto dell'etichetta e dei tè delle cinque, bensì della versione piena di vizi e tare che si può trovare ad esempio nella saga letteraria della famiglia Melrose raccontata da Edward St Aubyn.
Poi c'è il tema dell'intruso che si insinua in un ambiente sociale per corromperlo e distruggerlo dall'interno: con analogie che vanno dal Teorema di Pasolini Cabaret di Bob Fosse al polacco The Hater di Jan Komasa (se non l'avete visto vi consiglierei di recuperalo), fino a titoli emblematici (anche se forse l'indiretto prototipo è rintracciabile nel cecoviano Il giardino dei ciliegi) come The Servant o Parasite. Per non parlare de Il sacrificio del cervo sacro, dove Barry Keoghan interpretava già il ruolo del corpo estraneo che si insinua come un tumore maligno all'interno di una famiglia allo scopo di distruggerla, cosa che probabilmente ha indotto la regista a fargli indossare un paio di corna cervine durante la lunga scena di una festa. La Fennell imposta da subito la narrazione sul rapporto tra due personaggi maschili, Oliver Quick (che racconta una storia famigliare lacrimevole, tra la reale biografia dello stesso Keoghan e il dickensiano Oliver Twist; ma il personaggio si rivelerà quick, svelto e senza scrupoli, nel perseguire i propri obiettivi) e il fortunato Felix Catton: l'uno (Keoghan, nella realtà figlio di un'eroinomane morta di overdose) povero, brutto e dal carattere non privo di meschinità e ambiguità: l'altro ricco, bellissimo e con un animo aperto e generoso, anche se ovviamente un po' snob (Jacob Elordi, il cui cognome già ingloba la parola lord...), facendolo raccontare dallo stesso Oliver, in un'ambigua cornice narrativa che rimane indecifrabile fino alla fine. Dopodiché segue due strategie narrative: la prima è appunto quella di condurre un racconto cinico e amorale mantenendo un'ambiguità che si dissolverà solo nel finale (nel racconto comunque i conti non tornavano e non era difficile immaginare un twist finale che colmasse i buchi drammatici - e lo fa fin troppo). La seconda è quella di trasmettere il senso di disagio morale anche sul piano visivo, quasi tattile, disseminando il film di liquidi corporei come si trattasse della bava di una lumaca paziente e malefica: con masturbazioni assortite (in coppia o solitarie, tra cui una sulla terra fresca di una fossa cimiteriale), sputi, sudore, sperma, feticismo (è già celebre la scena in cui il protagonista lecca con voluttuosa avidità il buco di scarico della vasca da cui è defluita l'acqua nella quale Felix si è masturbato), cunnilingus conditi di sangue mestruale, fino alla danza finale in totale nudità, con l'evidente obiettivo di épater le bourgeois, cioè di stupire e scandalizzare i benpensanti. Lo schema etico e drammaturgico si rivela speculare e antinomico rispetto a quello del promettente esordio di Una donna (appunto) promettente: lì una giovane donna (Carey Mulligan, che è presente anche qui, quasi irriconoscibile, in un cameo) sacrifica se stessa per un progetto di giustizia e di doverosa vendetta; qui un giovane uomo sacrifica tutti gli altri per un cinico ed egoistico progetto di autoaffermazione. Se nel primo film la Fennel ricorreva ad una simbologia visiva cristologica, mariana ed angelica, qui ovviamente oppone all'inverso un'ironica simbologia demoniaca, come le già citate corna sulla testa di Oliver o il labirinto dentro cui consumare le proprie vittime sotto l'effige incombente di un Minotauro a sua volta cornuto, o la pertinente simbologia animale che decora i titoli di coda con falene, ragni, serpenti, ecc. Di nuovo molta attenta anche la scelta dei brani in colonna sonora, che include titoli che dicono già tutto come Destroy Everything You Touch o Murder on the Dance Floor. Tutto appare però stavolta un po' troppo voluto, con una ricerca dello scandalo un po' troppo insistita e studiata a tavolino; salvo poi scivolare nell'utilizzo di facili cliché, con maggiordomi impassibili e magioni infinite, e soprattutto con la rappresentazione dei ricchi come una congrega di viziati e viziosi, resi vulnerabili e indifesi dalla loro stessa corruzione, omosessuali, bisessuali, ninfomani, depressi, euforici, dipendenti da sostanze, che prendono il sole nudi ma giocano a tennis in smoking con la racchetta in una mano e la bottiglia di champagne nell'altra. Barry Keoghan, che già era balzato all'occhio con una manciata di ruoli da non protagonista (Il sacrificio del cervo sacro, Gli spiriti dell'isola), qui si prende la ribalta relegando i belli (Elordi, la Pike, la Oliver) al ruolo di proprie inconsapevoli marionette. IL CINEMA DI ASIA, AFRICA E AMERICA LATINA (E TRE MINISERIE PER GRADIRE)CINEMA DEGLI ALTRI MONDI Attenzione che non ho finito e anche qui troverete delle belle scoperte e film da vedere (se non ne avete già avuto l'occasione) provenienti da Asia, Africa e America latina. Di alcuni film (coreani, iraniani, egiziani, argentini) ho già parlato, a volte assai bene, in altri capitoli di questo excursus. Tra i film visti anche nei festival, che sono usciti in Italia nel corso dell'anno, rimane da dire di alcuni titoli. Inizierei ancora dall'Iran con KAFKA A TEHERAN, diretto da Alireza Khatami e Ali Asgari. Nove stilizzati quadri (più uno, apocalittico) di ordinaria burocrazia in Iran, dove le regole sono dettate da un regime teocratico ottuso e autoritario. Un film coraggioso ed icastico (non privo di amaro umorismo), che in Iran non vedrà nessuno; ad Ali Asgari di ritorno da Cannes è stato ritirato il passaporto e imposto il divieto di girare altri film. Dall'altra parte del mondo arriva un altro film interessante, appassionante e istruttivo (perfino, anche qui, con qualche tocco di umorismo), ARGENTINA 1985 di Santiago Mitre con un istrionico Ricardo Darin: dopo la caduta del regime militare, la giustizia civile porta alla sbarra i responsabili politici e militari di un enorme mole di crimini commessi contro oppositori veri o presunti. Molto bello anche IL FRUTTO DELLA TARDA ESTATE, opera prima della regista tunisina Erige Sehiri. In unità di tempo (una giornata dall'alba al tramonto), di luogo (un frutteto) e azione (il lavoro dei e delle braccianti), si svolge un racconto politico e sentimentale, con una grazia quasi rohmeriana. Una trama abbastanza scontata (un uomo addolorato strappato alla sua solitudine dall''energia, dall'ingenuità e dall'amore di un bambino) è ampiamente riscattata dall'ambientazione nelle steppe mongole e dalla vitalità incontenibile e dall'aderenza al personaggio del giovanissimo protagonista. Buoni sentimenti, sorrisi e un po' di commozione: L'ULTIMA LUNA DI SETTEMBRE è diretto ed interpretato da Amarsaikhan Baljinnyam. Meno convincente MEDITERRANEAN FEVER, che racconta un'amicizia virile tra due palestinesi ad Haifa, metafora di un malessere esistenziale profondo. Maha Haj, anche regista del film, ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura della sezione Un certain regard a Cannes 2022, ma proprio lo script mi è sembrato il punto debole del film, soprattutto nell'innesco e nell'epilogo. Anche Diego Lerman è regista, sceneggiatore e anche produttore dell'argentino IL SUPPLENTE: pure in questo caso le vicende individuali si mescolano con quelle sociali e politiche, ma a mio giudizio in modo piuttosto confuso. Piazzo qui arbitrariamente anche PAST LIVES, anche se il film è di produzione statunitense. La regista e sceneggiatrice Celine Seong è di origine sudcoreana, naturalizzata canadese e residente negli Usa, e il film segue il suo percorso biografico da Seoul a New York via Toronto, impaginando una storia di amore non realizzato sulle orme di In the Mood for Love, ma in un'ottica femminile, forse femminista. Il film mi è sembrato complessivamente un po' freddo e perfino scostante, ma le decine di candidature raccolte sono lì a smentirmi... APPENDICE: TRE MINISERIE
Tanto per gradire, vi dico anche delle tre miniserie che ho guardato nel 2023: buona QUESTO MONDO NON MI RENDERA' CATTIVO, di Zero Calcare (che tuttavia devo guardare con i sottotitoli), profondamente deludente LA VITA BUGIARDA DEGLI ADULTI di Edoardo De Angelis, un progetto che a mio parere fallisce il bersaglio. Ma quella che mi è piaciuta di più non è propriamente una novità. Molto bella e godibile, tra il drammatico e l'umoristico, con una forte componente grottesca e paradossale, ma senza mai trascendere nel caricaturale o nell'irrealistico, è CATCH-22, tratta da Comma 22 di Joseph Heller e ambientata in una base di bombardieri Usa a Pianosa, durante la seconda guerra mondiale. E' una serie datata 2019, marchiata dalla personalità di George Clooney, che la produce, ne ha diretto degli episodi e l'ha interpretata. Notevole l'interprete protagonista, Cristopher Abbot, e c'è anche un bel cameo di Giancarlo Giannini. Leggi anche: NUOVI AUTORI, OGGETTI NON IDENTIFICATI E CINEMA DI GENEREI NUOVI AUTORI (TRA SORPRESA E SCONCERTO) Parlo qui di due registi che avrebbero potuto benissimo essere inseriti nel capitolo dedicato agli autori con la A maiuscola, ma che metto qui perché mi sembra che con i loro ultimi film abbiano fatto un salto reputazionale, ottenendo un'attenzione critica e mediatica che finora gli era mancata, almeno in Italia. Si tratta dello spagnolo Rodrigo Soroyen, già molto stimato in patria (Il regno era stato candidato a 13 Goya, 7 dei quali vinti), che gira con AS BESTAS uno scabro e intenso dramma rurale (con un soggetto molto simile a Il vento fa il suo giro, del nostro Giorgio Diritti), e Justine Triet con la sua radiografia di un matrimonio già in pezzi, e ricostruito seguendo diverse prospettive in un coinvolgente e calibratissimo giallo psicologico e giudiziario dalla sceneggiatura esemplare. ANATOMIA DI UNA CADUTA ha già vinto a Cannes e agli Efa, ma sorprendentemente non è stato candidato dalla Francia ai premi Oscar. Avendo apprezzato moltissimo il suo esordio nel lungometraggio, Una donna promettente, sono rimasto abbastanza deluso dall'opera seconda di Emerald Fennell, SALTBURN, storia di un parassita piccolo borghese che erode dall'interno una ricca famiglia. La storia ne riecheggia altre e la descrizione dell'ambiente dei ricchi (omosessuali, bisessuali, ninfomani, alcolisti, drogati, che prendono il sole nudi e giocano a tennis in smoking, con la racchetta in una mano e la bottiglia nell'altra) mi è sembrata piena di cliché. Per Barry Kehogan, che si era già fatto positivamente notare in ruoli borderline di coprotagonista, potrebbe essere il salto di livello. Un caso giudiziario, ispirato a fatti reali, è al centro de LA VERITA' SECONDO MAUREEN K., con un titolo italiano (quello originale è La syndacaliste) che già mette in dubbio la veridicità dei fatti. Isabelle Huppert si fa carico con la sua suprema naturalezza dell'ambiguità del personaggio, ma il film di Jean-Paul Salomé non è memorabile. Anche TAR di Todd Field è imperniato su un ritratto femminile controverso e conflittuale: la parabola discendente di un'affermata direttrice d'orchestra è l'occasione per una riflessione sui rapporti di potere, professionali e interpersonali da una prospettiva non comune. Impostazione rigorosa, grande interpretazione della Blanchett, ma finale un po' eccessivo nell'illustrare il degrado del personaggio. Un'altra regista in un'annata ricchissima di firme femminili: Sarah Polley, che vanta una carriera da attrice più nutrita di quella da regista, realizza con WOMEN TALKING un rigoroso pamphlet femminista, dove tutto rimane fuori dallo schermo tranne le parole di un lungo dibattito tra donne che scaturisce dal verificarsi di una serie di violenze all'interno della comunità. Messa in scena punitiva per lo spettatore e, se posso permettermi di contraddire la giuria che gli ha assegnato l'Oscar per la miglior sceneggiatura, anche l'impianto dialogico e dialettico mi sembra discutibile. Interessanti e riusciti anche alcuni film dedicati a bambini e adolescenti, tra definizione dell'identità sessuale, rapporto con il padre e famiglie in (ri)formazione, come il belga CLOSE di Lukas Dhont (Girl), l'inglese AFTERSUN, bella opera prima di Charlotte Wells, e l'irlandese THE QUIET GIRL, di Colm Bairéad, primo film irlandese ad ottenere la candidatura all'Oscar come miglior film straniero. Lieve fino all'inconsistenza e produttivamente modesto mi è sembrato invece l'italiano I PIONIERI, con cui Luca Scivoletto esordisce nel lungometraggio di finzione, con un gruppo di bambini aspiranti scout comunisti nella Sicilia nel 1990; MyMovies lo colloca giustamente a cavallo tra Cosmonauta e Moonrise Kingdom. In Italia intanto molte attrici e attori hanno deciso di debuttare nella regia; a parte il caso dei casi, il C'è ancora domani della Cortellesi, ispirato creativamente al cinema italiano tra neorealismo e (ri)nascita della commedia, tra i debutti più notevoli dell'anno annovererei PALAZZINA LAF, in cui Michele Riondino racconta un pezzo del travagliato rapporto tra la sua città (Taranto) e l'acciaieria che ne condiziona il destino, la vita e la morte. Un film politico di nero umorismo, che rimanda alle sulfuree commedie all'italiana di Petri, Monicelli o Scola. Generoso anche il tentativo di Micaela Ramazzotti, che però con il suo FELICITA' si tiene troppo ancorata al suo cliché interpretativo. Anche Rocco Papaleo mantiene la sua congeniale immagine dimessa e malinconica; lo SCORDATO del titolo del suo ultimo film allude appunto alla dimensione esistenziale (e anagrafica) di chi non si sente più in armonia con la realtà e con il presente. Il protagonista si sdoppia del suo alter ego giovanile in un film non memorabile. Metto infine qui, non so quanto a proposito, tre film che pur avendo ottenuto, almeno nei primi due casi, ampi consensi da parte della critica mi hanno suscitato un sincero sconcerto, probabilmente dovuto ad una totale incomprensione da parte mia. Tre “oggetti non identificati”, a cominciare dalla forma filmica (dalle foto che inserisco qui sopra è evidente che tutti si sono persi...). Cominciamo dall'argentino TRENQUE LAQUEN, firmato da Laura Citarella, un film di quattro ore ondivago e inconcludente, che sembra scritto giorno per giorno su un canovaccio che ondeggia tra generi e interessi; poi c'è GIGI LA LEGGE, di Alessandro Comodin, ritratto bizzarro di un vigile urbano di provincia, vicino al grado zero del cinema (e dell'interesse, per quanto mi riguarda), ma premiato a Locarno; e poi c'è forse il film (se così lo si può chiamare) più brutto dell'anno, LA PRIMAVERA DELLA MIA VITA, inspiegabile, inqualificabile e ingiustificabile (neppure come bravata tra amici) avventura cinematografica di Colapesce e Di Martino, firmata da Zavvo Nicolosi. CINEMA DI GENERE Raggruppo qui un po' di film di genere giallo e noir, horror e avventura (non ho visto film che si possano classificare come pura fantascienza quest'anno e non vado di norma a vedere film di supereroi, commedie italiane, ecc.). Tra i noir spiccano almeno un paio di titoli italiani. Il primo è il sorprendente e notturno L'ULTIMA NOTTE DI AMORE di Andrea Di Stefano, con l'ottima coppia Favino-Caridi; il secondo (con un cast che comprende di nuovo Favino, e poi Mastandrea, Servillo, Giannini, oltre all'esordiente Gianmarco Franchini) è ADAGIO, dell'esperto Stefano Sollima, di ritorno dalle trasferte hollywoodiane; un pò programmatico ma con bravi attori, buone metafore, ottime location, visionarietà e uno spirito forse più vicino al noir francese che a quello americano. Più leggero (qui il crimine è la duplicazione illegale di audiocassette nell'Italia anni '80), ma divertente e riuscito è MIXED BY ERRY, in cui Sydney Sibilia torna a raccontare le sue storie di imprenditori sui generis, sognatori che travalicano regole e leggi. Una storia nera è in fondo anche quella raccontata da Ivano De Matteo in MIA, storia della relazione tossica di un'adolescente, vista però con gli occhi del padre. Più inserito nei canoni del genere ma decisamente meno riuscito dei precedenti è COME PECORE IN MEZZO AI LUPI, firmato da Lyda Patitucci. Visto il primo episodio e lette le sconsolanti recensioni confermative dei successivi, ho evitato di seguire la trilogia di Diabolik, un'occasione creativa e produttiva per il cinema italiano clamorosamente sprecata dai fratelli Manetti. Per quel che ho visto, e visti gli esiti di film come The Killer, di cui ho già parlato altrove, l'Italia la fa insomma da padrone in un genere che non pareva il suo più congeniale. Un paio di film di ambientazione esotica ma di produzione europea, con differenti esiti: LA COSPIRAZIONE DEL CAIRO mi ha convinto decisamente meno del precedente Omicidio al Cairo dell'egiziano Tarik Saleh, mentre è uno dei film migliori dell'anno a mio parere HOLY SPIDER, dell'iraniano Ali Abbasi. Un serial killer movie cupo e spietato (ma in realtà molto più di questo) ambientato nella città santa di Moshhad, che getta una luce cruda sulla società iraniana maschilista ed ipocrita. Passiamo invece nel regno della fantasia con un terzetto di personaggi mitici in trame giallo-avventurose. Piuttosto trascurabile THE PALE BLUE EYE, giallo ottocentesco che ha la particolarità di mettere in scena come personaggio Edgar Allan Poe; francamente abbastanza brutto ASSASSINIO A VENEZIA, del veterano Kenneth Branagh, che trascina Poirot e il giallo di Agatha Christie nell'improbabile ambientazione di un Halloween veneziano d'epoca e in una mistura tra giallo e atmosfere gotiche e orrorifiche. Sostanzialmente inutile e fuori tempo massimo, anche se si tratta di un dignitoso divertissement, l'avventuroso INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO, che poteva sfruttare meglio l'invecchiamento del personaggio, la tematica del tempo e le possibilità delle nuove tecnologie. In campo horror il titolo migliore (anche non sono per niente sicuro che possa essere annoverato tra le uscite del 2023) mi è sembrato SPEAK NO EVIL, dell'esordiente Christian Tafdrup: nessuna entità sovrannaturale ma un male ordinario, inesorabile e senza spiegazione; inquietante e con una frase da ricordare: quando una delle vittime chiede ad uno dei carnefici il perché delle loro azioni, questi risponde “Perché ce lo avete permesso”. Con un titolo assonante, non è male neppure TALK TO ME, esordio dei fratelli australiani Philippou. M. Night Shyamalan propone un'altra delle sue visioni apocalittiche in BUSSANO ALLA PORTA, un invasion movie dove l'orrore irrompe nella dimensione domestica, innescando un meccanismo alla Il sacrificio del cervo sacro; qualche suggestione, ma il film sembra tirare un po' troppo una corda narrativa non troppo robusta. Assolutamente trascurabile M3GAN, prodotto Blumhouse con una sorta di cugina cattiva di Barbie, e piuttosto dimenticabile anche THE OFFERING, horror ebraico ambientato in un obitorio chassidico. C'è anche una commedia nera, che però si annacqua ben presto con le (pretese) lacrime di commozione dei migliori sentimenti: NON COSI' VICINO, che è un non così necessario remake dello svedese Mr. Ove, che sembra costruito su misura per un Tom Hanks naturalmente un po' imbolsito dall'età. Come ho già detto non sono un appassionato di biopic; bene il film su Troisi, LAGGIU' QUALCUNO MI AMA, dedicatogli da un concittadino autorevole come Mario Martone; meno appassionanti EMILY, dedicato all'autrice di Cime tempestose dall'attrice Frances O'Connor che esordisce alla regia, o DALILAND, ispirato alla vita eccentrica del pittore surrealista e diretto da Mary Harron, specialista di film biografici.
L'unico lungometraggio di animazione che ho visto quest'anno è MANODOPERA, del francese Alain Ughetto, storia di emigrazione raccontata a passo uno, poetica ma un po' rigida. Leggi anche: GLI AUTORI, I MAESTRI E THE BIG THREE, |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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