KILLERS OF THE FLOWER MOON di Martin ScorseseLeo, Bob e Marty Scommetto che se vi chiedessi se Di Caprio e De Niro, attori feticcio a fasi alterne del regista, avessero lavorato insieme in un film di Martin Scorsese, prima di Killers of the Flower Moon, dopo averci fatto mente locale, avreste risposto di no. Eppure Di Caprio, prima di Killers of the Flower Moon, ha realizzato cinque film con la regia di Scorsese, dal 2002 al 2013, e De Niro addirittura otto, dal lontanissimo 1973 fino al 2019 di The Irishman; eppure i due sembrano non essersi mai incrociati sul set del regista. E invece sì. Nel 2015 Scorsese girò un cortometraggio, The Audition, che doveva servire in realtà a pubblicizzare una nuova rete di casinò orientali (Manila, Macao, Giappone) – lui che le grandi case da gioco li aveva descritti con ben altri toni in Casinò – in cui il regista in persona compare nel ruolo di se stesso: ovvero un regista con un nuovo progetto che invita, appunto, Robert De Niro e Leonardo Di Caprio a raggiungerlo in Oriente. Per un attimo i due pensano di recitare finalmente insieme in un film del Maestro, ma scopriranno immediatamente che entrambi si trovano in lizza per lo stesso ruolo, l'uno contro l'altro, con esiti spassosi. Ora che Martin e Robert hanno ormai superato ciascuno gli 80 anni d'età e Leonardo è sulle soglie dei 50, il momento e il piacere di vedere i due attori insieme in un “vero” film del loro mentore (in The Audition forse il ruolo verrà affidato al terzo incomodo Brad Pitt) sono finalmente arrivati e, lo dico subito, è valsa la pena di aspettare. Bob e Leo sono rispettivamente zio e nipote; il primo, William Hale è un possidente allevatore di bestiame in Oklahoma, uno dei cittadini più eminenti di Fairfax, che tiene buoni rapporti sia con la comunità bianca che con quella indiana, entro la cui riserva sorge la cittadina; il secondo, Ernest, è un nipote spiantato, reduce dalla Prima Guerra Mondiale (non proprio un eroe di guerra: lui si occupava delle cucine), che torna a mettersi sotto l'ala protettrice dello zio, che si fa amichevolmente e modestamente chiamare King, il re. Osage Nation e oro nero Ma c'è un prologo. Facciamo un passo indietro: Killers of the Flower Moon inizia in realtà con una sequenza ambientata tra i nativi americani della tribù Osage, che stanno seppellendo per sempre la pipa rituale (si dice che siano stati anche i precursori dei fumatori di marijuana): i tempi stanno cambiando, le tradizioni e la cultura originarie stanno sparendo e quelle dei bianchi stanno definitivamente prendendo il sopravvento. E' vero che le cose cambieranno, ma non esattamente come il chief Osage preconizza: gli Osage erano stati allontanati dapprima dal loro territorio d'origine, il Missouri, verso l'Arkansas, poi, mano a mano che l'avidità dei bianchi metteva gli occhi su nuovi appetibili territori, verso il Kansas, e infine verso l'Oklahoma. Ma qui, ironia del destino, il terreno in cui è insediata la riserva Osage comincia spontaneamente a eruttare petrolio. Siamo negli anni '20 del '900, quando i mezzi di trasporto a motore stanno iniziando a prendere il sopravvento su tutti gli altri, e i giacimenti di petrolio stanno già configurandosi come la meta di una nuova corsa all'oro (nero). Ecco quindi che la vita degli Osage cambia da un giorno all'altro: gli ex-cacciatori di bisonti e razziatori si trasformano in ricchissimi possidenti, acquistano case, macchine e abiti lussuosi (sia pur non rinunciando del tutto agli abiti tradizionali) e si permettono addirittura di assumere domestici e autisti bianchi al loro servizio. E' la loro fortuna e la loro rovina. La strage di Fairfax Ben presto infatti gli avvoltoi bianchi cominciano a volteggiare intorno a loro per approfittare, se possibile usurpandola, della loro inaspettata ricchezza. C'è chi lavora e tratta con loro, chi si fa loro compagno di gozzoviglie, chi gli vende merci a prezzi esorbitanti, perfino chi ne sposa le donne per avere accesso alle loro ricchezze. Ernest è uno dei questi, spinto dallo zio a corteggiare e sposare Mollie, una giovane Osage dal sorriso serafico, enigmatico e malizioso come una Monna Lisa, per cui lavora come chaffeur. Ma c'è chi non si ferma qui. Gli Osage, e le donne prima di tutti, cominciano a morire in circostanze sempre più sospette: chi muore per malattia o per consunzione, chi a causa dell'alcolismo, chi per incidente, chi si suicida, chi viene assassinato. Il numero e la circostanza dei decessi inducono però a sospettare qualcosa di strano, ed Ernest scoprirà che lo zio - sui terreni del quale il petrolio non ha mai fatto la sua comparsa - non si aspetta certo che il nipote attenda la morte per vecchiaia della giovane Mollie per ereditare le sue fortune. Gli Osage sono ormai in allarme e cercano di far luce sulla moria che sta colpendo la loro gente, assumendo investigatori privati (lo sceriffo del posto non sembra darsi molto da fare) e addirittura inviando emissari a Washington per chiedere aiuto al Governo federale. Ma, come dice un personaggio del film, è più facile che un uomo sia condannato per aver picchiato un cane piuttosto che per aver ucciso un indiano. Mentre le morti sospette si succedono e Molly, malata di diabete, malgrado le innovative cure a base di insulina, sta sempre peggio, fa infine la sua comparsa a Fairfax un impacciato agente del neonato Bureau of Investigations diretto da Edgar J. Hoover, e una squadra che comprende anche pellerossa venuti da fuori paese. La verità sgorgherà da Fairfax, come il petrolio è sgorgato dalla sua terra? E se sì, la giustizia farà il suo corso, visto che nell'intrigo è coinvolta mezza della Fairfax bianca, dai possidenti agli uomini della legge, dai medici al becchino del paese? Per dirci com'è andata alla fine, dopo tre ore e mezza di racconto, al posto delle solite didascalie, ci mette la faccia lo stesso Scorsese, nella messa in scena di un programma crime che racconta la storia per una televisione stle anni '50. Per poi lasciare la sequenza finale, com'era stato per il prologo, agli Osage: una loro danza tribale, ripresa dall'alto, a formare una specie di mandala colorato, simbolo di una cultura che ancora resiste malgrado le aggressioni e le angherie subite. Un finale che mi ha ricordato, a torto o a ragione, quello a colori di Schindler's List, quando gli ebrei sopravvissuti depongono una pietra sulla tomba del loro protettore. Una Storia americana Scorsese torna a rivisitare i miti delle origini della nazione americana (anche qui, come nel Birth of a Nation griffithiano, fa la sua comparsa il Ku Klux Klan), ma secondo la sua declinazione prediletta (che lo ha portato a girare alcuni dei suoi capolavori): ovvero una soggettiva all'interno di una comunità gangsteristica. Killers of the Flower Moon (basato sui fatti storici descritti dal saggio Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the Fbi di David Grann, edito anche in Italia dal Corbaccio con il titolo Gli assassini della Terra Rossa: Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell'Fbi. Una storia di frontiera) si può collocare temporalmente tra i proto-gangster ottocenteschi di Gangs of New York e quelli che attraversano un lungo tratto della Storia americana in Quei bravi ragazzi o The Irishman, fino alla polizia corrotta di The Departed o alla mutazione finanziaria di The Wolf of Wall Street. Quello delineato da Scorsese però, più che una storia del gangsterismo statunitense, si configura come il racconto della Storia americana come fondata – almeno in parte –, connaturata e intrecciata con la storia criminale. I suoi Stati Uniti si configurano paradossalmente - ma non troppo - come una nazione fondata sulla violenza, sul genocidio, sull'usurpazione, sullo sfruttamento dei vizi e delle debolezze umane. La tesi è particolarmente evidente in Killers of the Flower Moon, dove il futuro dell'America, il suo progresso tecnologico ed economico, affondano i propri piedi nel sangue, basati come sono sullo sterminio dei nativi e sulla spoliazione delle loro ricchezze. La posta in gioco è il petrolio, qualcosa che viene dalla terra, anzi da sottoterra (la terra che dovrebbe accogliere la pipa sacra e la fine degli Osage risponde invece facendo sgorgare ricchezza e dando il via ad un nuovo inizio): nativo e sorgivo come gli indiani che da quella terra sono nati e alla quale sono profondamente, religiosamente legati. Nel film si accenna anche alla parallela strage di Tulsa, altro episodio significativo della storia americana, dove, negli stessi anni in cui è ambientato Killers of the Flower Moon, per la precisione nel 1921, decine o centinaia di afroamericani vennero uccisi (il numero esatto non è mai stato accertato) e le case di circa 10.000 “negri” vennero date alle fiamme. Il film inizia con l'arrivo del treno - pieno di lavoratori e di avventurieri - simbolo (anche cinematografico, vedi come esempio tra tutti C'era una volta il West, altra elegia sul volgere di un'epoca) dell'avanzamento del progresso e della conquista del West da parte dei bianchi; ma poi è pieno di automobili, il mezzo di trasporto del futuro, che è anche inizialmente lo strumento di lavoro di Ernest, che proprio grazie al suo lavoro di autista conosce e circuisce Mollie. E' l'inizio di una nuova era, in cui la presenza dei nativi è solo un intralcio alla marcia del progresso e della ricchezza. Il bene e il male, il vecchio e il giovane Gli eroi di Scorsese si dibattono spesso (come enunciano i sottotitoli italiani di alcuni suoi film) tra chiesa e inferno, tra bene e male, tra la ripugnanza e l'attrazione per il male, la violenza, il potere sugli uomini, sulle donne, sul denaro. Il loro percorso si sviluppa classicamente tra la perdita dell'innocenza, il fascino del peccato, l'assunzione della colpa, la paura della punizione. E' la traiettoria che percorre anche Ernest (che, come ci ha insegnato Oscar Wilde, può essere letto anche come earnest, ovvero “onesto”), giovane volonteroso che si mette al servizio del potente zio e ne segue le direttive, spingendosi sempre più in là sul terreno della colpa. Come in altri film di Scorsese, il giovane eroe (o antieroe) subisce infatti la fascinazione di personaggi più anziani (capi gang o boss mafiosi come in Gangs of New York o in Departed), distorte figure patriarcali e paterne che svolgono un vero e proprio ruolo di mentori nell'avviamento sulla via del male dei rispettivi discepoli. Sia Ernest che Will Hale sono portatori di una doppia, ambigua e contraddittoria natura, in bilico tra bene e male. The King è amico di tutti, un generoso benefattore, sensibile verso la mentalità degli indiani e membro rispettato della comunità bianca, ma sotto l'apparenza melliflua e bonaria nasconde in realtà una natura malefica e predatoria (le donne indiane sono da lui chiamate spregiativamente “coperte”, blanket, per gli indumenti tradizionali che ancora indossano nella loro nuova condizione di ricche cittadine); lo sterminio e la scomparsa della nazione indiana è per lui non solo un obiettivo tenacemente perseguito, ma una necessità storica, un passaggio epocale ineluttabile. Ernest invece esibisce una natura spregiudicata, presta la propria colpevole e infame complicità ad una serie di atti criminosi ai danni non solo degli indiani (e di donne con le quali è ormai imparentato), ma anche di altri bianchi che sono d'ostacolo alle mire espansionistiche dello zio. Ma in realtà Ernest dietro i comportamenti criminali conserva un fondo di innocenza e di rimorso per le proprie azioni. Quando corteggia Mollie un po' segue diligentemente il mandato e le istruzioni dello zio, un po' se ne innamora veramente. Ma neppure l'amore per la donna e per i figli che nascono via via lo fanno arretrare quando si passa a progettare spietatamente la morte della sorelle della moglie, di sua madre, di altri indiani scomodi, e alla fine della stessa Mollie. Cattolicamente, Ernest avvelena la moglie e si commuove per il suo destino; si rende complice di omicidi e di terribili attentati dinamitardi salvo poi sbarrare gli occhi meravigliato e inorridito dai suoi effetti. Tutta l'ambiguità dei caratteri dei due uomini emerge nella contrapposizione all'interno del lungo finale, quando la malvagità di Hale è smascherata ma ancora dissimulata sotto l'apparenza dell'affetto parentale e del perseguimento del bene comune (della famiglia e dei bianchi, che continuano a sostenerlo); mentre Ernest è sommerso dai rimorsi, messo di fronte alle proprie colpe e allo sguardo dell'amata moglie che ha tentato di assassinare, ma nello stesso tempo impegnato a calcolare il proprio migliore interesse (a sua volta egoistico e famigliare) nella vicenda investigativa e giudiziaria che ormai li ha travolti. The Family Scorsese dispiega, nuovamente, tutte le sue abilità di narratore, seguendo una trama che ormai conosce più che bene, tanto nel porre le premesse della storia e innescare i caratteri, tanto nella descrizione meticolosa dei meccanismi e dei metodi malavitosi (adattati com'è ovvio al particolare contesto storico-geografico), tanto infine nel senso di panico, di sgomento e di rovina che, come altre volte nelle sue narrazioni precedenti, pervade la parte finale del film. Killers of the Flower Moon, nella sua versione attuale, avrebbe potuto benissimo essere una miniserie divisa in quattro o cinque puntate, non solo per la durata, ma per il gusto che si prende nel definire ogni dettaglio dell'affresco storico/malavitoso/famigliare e nell'abbozzare in modo rapido ma sicuro moltissime figure di contorno. Non tutto è necessario nei 206' minuti del film, ma tutto è godibile e lo spettatore è indotto ad abbandonarsi ad un flusso narrativo che si e gli concede anche il lusso del superfluo. A De Niro non sembra vero (anche dopo alcuni sbandamenti in film sbagliati in anni passati) di aver ritrovato il suo maestro e amico e un ruolo che sembra fatto apposta per lui (oltre ai characters già interpretati per Scorsese vengono in mente anche l'Al Capone di De Palma o il luciferino antagonista di Angel Heart), permettendogli di esprimere in magistrale souplesse tutto il suo dissimulato e violento cinismo; Di Caprio (anche se sulla carta troppo anziano per il ruolo del giovane che torna dal servizio militare) ha ormai una maturità artistica sufficiente e adeguata ad esprimere le sfumature e il tormento del suo personaggio. Lily Gladstone (appartenente alla Blackfeet nation) è la controparte femminile, vittima designata ma non rassegnata (è lei che, benché debilitata, si reca a Washington a chiedere aiuto al governo federale), anch'essa combattuta e divisa, fino all'ultimo, tra il sincero amore per il marito e il terribile sospetto che lui stia tramando per sterminare lei e tutta la sua famiglia. Tra i molti personaggi ed interpreti, tutti con le giuste facce e l'adeguato fisico del ruolo, spicca il flemmatico e bonario, ma tenace, agente del Bureau of Investigations interpretato da Jesse Plemons. In una sontuosa produzione da 200 milioni di dollari, Scorsese gioca sul sicuro attorniandosi dei propri collaboratori di una vita. Autore di una colonna sonora in buona parte basata su un continuo, lento, snervante tambureggiare di percussioni e di giri di basso, che tengono continuamente teso il filo della narrazione, Robbie Robertson era il collaboratore ideale: figlio di un'indiana Mohawk, già componente della band che accompagnò Bob Dylan, ricercatore appassionato della tradizione musicale dei nativi (celebre il suo Music for the Native Americans) e alla decima e ultima collaborazione con Martin Scorsese (il musicista è scomparso ad agosto di quest'anno). Altrettanto scontata la presenza di Thelma Schoonmaker al montaggio, fedelissima, immancabile collaboratrice di Scorsese fin dai tempi delle prime prove cinematografiche all'Università di New York (una collaborazione lunga una vita che le ha fruttato tre premi Oscar, oltre a cinque nominations e ad un'infinità di altri premi, tra cui il primo Leone d'oro alla carriera assegnato ad un montatore. Altro collaboratore abituale è il direttore della fotografia Rodrigo Prieto, che ha accompagnato la carriera di Iñarritu, fin dal memorabile – anche dal punto di vista fotografico – Amores perros, che ha già lavorato con Scorsese in diverse occasioni, ma che è anche l'insospettabile responsabile della fotografia lollipop di Barbie. Last but not least, da citare l'eccellente lavoro del veterano scenografo Jack Fisk, che ha contribuito alla realizzazione di alcuni capolavori del cinema statunitense.
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Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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