ENNIO di Giuseppe TornatoreForse una delle definizioni più pertinenti della musica di Ennio Morricone l'ha data il massmediologo Sergio Bassetti, quando nel film dice che in essa sono compresenti tensione ed estasi. Si può sintetizzare così il carattere da una parte innovativo e sperimentale delle sue colonne sonore, dall'altra la loro piacevolezza; la ricerca che la apparenta alla musica sperimentale e la popolarità che ne fa immediatamente dei classici immortali; la godibilità e la goduriosità che non è mai però banalità o condiscendenza al gusto comune; l'afflato epico o romantico e sempre temperato dalla modernità che la percorre e la vivifica salvandola dalla retorica; la classicità e la contemporaneità. Con Ennio Giuseppe Tornatore ha dedicato al compositore, a due anni dalla morte, un commosso e affettuoso omaggio che ne ricostruisce, anche attraverso una bella intervista realizzata prima della sua morte (che ce lo mostra nel caos del suo studio, come un Francis Bacon della musica), nell'ampiezza delle due ore e mezza di metraggio ma con una sintesi necessaria e quasi dolorosa, la vita e la sterminata carriera, composta da 500 colonne sonore per il cinema e la televisione, oltre a canzoni, opere, composizioni di musica classica e contemporanea. Per Tornatore Morricone è stato un amico, un mentore, una figura paterna. Si conoscono in occasione della collaborazione per Nuovo Cinema Paradiso, nel 1988, quando Ennio ha 60 anni e il regista una trentina meno. Da allora Morricone musicherà in totale dieci film di Tornatore, anzi undici, se si conta anche Ennio, che è indubbiamente un film di Tornatore ricolmo e traboccante di musiche del Maestro. Quello che ne viene delineato, a tutto tondo o quasi, è inaspettatamente il ritratto di un uomo complessivamente tormentato, roso dal dubbio, insoddisfatto, mai riconciliato con se stesso. Il padre, trombista (sic), gli compra una tromba usata in modo che possa guadagnarsi il pane con la sua stessa professione; Ennio abbozza, poi durante gli studi devia i suoi interessi verso la composizione, dimostrandosi presto una brillante promessa. Mentre aspira alla Grande Musica con le iniziali maiuscole, sotto l'ala di quelli che considera grandi maestri, comincia ad arrangiare qualche canzonetta per cantanti in voga, come Morandi o Vianello, e lo fa troppo bene, escogitando soluzioni originali ed insolite che stampano il suo marchio indelebile sui brani sui quali lavora. Tenta la strada dell'assunzione in Rai grazie alle raccomandazioni della moglie democristiana, poi comincia a comporre musiche da film. Ed è la fine. Cioè, è l'inizio. E' l'inizio di una carriera strepitosa, travolgente, che nemmeno lui stesso riesce più ad arrestare, anche se di volta in volta si impone le scadenze entro cui abbandonare le musiche per il cinema, senza mai riuscire (per fortuna) a rispettarle. Ed è la fine della speranza di poter entrare nel pantheon della musica colta e contemporanea, cui non smette mai di aspirare. Per tutta la propria vita, costellata di entusiastici riconoscimenti, di gloria mondiale, di premi, di attestati di stima, di successi commerciali, Ennio continuerà a credere di aver tradito la musica vera, quella colta che in quegli anni si scava la sua nicchia in terreni aridi e impervi (e che pure continuerà sempre a scrivere e a produrre, in parallelo a quella per il cinema); di aver scelto la strada più facile e popolare, di aver deluso i suoi Maestri (uno tra tutti: Goffredo Petrassi, sorta di Super Io autoritario, di figura paterna tradita in un dramma edipico che vede Ennio uccidere il padre regale per giacere lussuriosamente con la madre-musica), che d'altra parte lo ricambiano guardandolo dall'alto in basso con il sopracciglio alzato in segno di diffidenza se non di spregio. Non basteranno gli infiniti attestati di stima e di ammirazione ricevuti nell'arco di tutta la vita a riconciare con se stesso questo grande musicista dal carattere burbero e dalla lacrima facile. Di questi attestati di stima il film di Tornatore ne mette insieme un bel po', e ad esprimerli sono personalità le più differenti: musicisti colti tardivamente ravveduti, jazzisti come Pat Metheny e Quincy Jones, rocker come Bruce Springsteen e Metallica, compositori di colonne sonore come Williams e Zimmer, cantanti pop come Morandi e Vianello, e poi registi, produttori, critici musicali e cinematografici. Da molti di questi considerato il più grande musicista per il cinema mai esistito (se non il più grande musicista tout court), Morricone scrive in una sorta di bulimia compositiva per film di tutti i generi (dal western all'horror, al thriller, alla commedia, al cinema storico, d'autore, erotico, sperimentale), di tutti i livelli qualitativi, di tutti i Paesi, stringendo rapporti privilegiati con registi come Leone, Argento, Petri, Pasolini, Bertolucci, Bolognini e lo stesso Tornatore, fino al suo grande ammiratore Quentin Tarantino; che, chiedendogli la colonna sonora per Hateful Eight gli fa guadagnare in extremis il suo unico Oscar (a parte quello alla carriera assegnatogli nel 2007). Scorrendo la sua filmografia, che si srotola per quasi 60 anni, tra il 1960 e il 2016, si fa prima a dire i registi italiani con i quali non ha mai lavorato piuttosto che quelli con i quali ha collaborato. Timido davanti ai suoi maestri, Morricone nel rapporto con i registi diventa un uomo scontroso e intransigente, che difende la propria libertà creativa escludendo qualsiasi possibilità di compromesso, costringendo autori e produttori a inseguirlo per le scale dopo che ha voltato le spalle sdegnato solo per essersi sentito dire che ad un certo punto volevano mettere una canzone d'epoca non sua, o dopo che avevano osato dargli qualche consiglio o esprimere qualche desiderata troppo cogente. Non solo le musiche di Morricone sono sue e solo sue, scaturiscono da sue idee e da sue peculiari invenzioni, ma è in gran parte sua anche l'interpretazione musicale che viene data alle storie, alle immagini e alle sequenze, tanto che il musicista può essere definito, soprattutto nel suo caso, un vero coautore di qull'opera audio-visiva che è il cinema. Tanto che ormai è letteralmente impossibile pensare ai film di Sergio Leone senza l'epica moderna e scanzonata delle sue musiche (personalmente ritengo il triello con carillon di Per un pugno di dollari uno dei punti più alti dell'associazione tra immagini filmiche e musica, così come un capolavoro è la rarefatta sinfonia di rumori e silenzi che crea l'atmosfera di attesa e di tensione nel prologo di C'era una volta il West – la cui armonica mi dà ancora i brividi ogni volta che l'ascolto), o separare alcuni film come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Mission, Il clan dei siciliani, C'era una volta in America, Novecento, Sacco e Vanzetti, Nuovo cinema paradiso, per non fare che qualche titolo preso qua e là, dalle musiche immortali che Morricone ha loro donato. Ennio è oltretutto un'occasione eccezionale per compiere una cavalcata suggestiva attraverso tanto cinema della nostra storia di spettatori e rivedere sequenze di tanti film della nostra vita e del nostro cuore. Fa una certa impressione in particolare ripassare attraverso gli anni '60 e '70, quando il cinema subiva una radicale trasformazione e si prendeva una libertà di invenzione e di sperimentazione (nel linguaggio, nelle tematiche, e perché no, anche nelle colonne sonore) forse irripetibile e di cui è difficile, almeno a me pare, trovare tracce nel cinema di oggi.
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SANPA - LUCI E TENEBRE DI SAN PATRIGNANO, regia di Cosima SpenderE’ estremamente difficile fare una recensione su Sanpa (la prima miniserie italiana prodotta da Netflix, cinque episodi della durata complessiva di circa cinque ore) che non si trasformi in una recensione su Vincenzo Muccioli, sulla sua figura, sulla sua creatura, sui suoi metodi. Gli stessi vertici attuali della comunità di San Patrignano si sono lamentati della parzialità della ricostruzione del docu-film, che prende in esame solo gli anni dal 1978, anno di fondazione della comunità, fino al 1995, anno della morte di Vincenzo Muccioli, senza considerare l'attività successiva, in cui le polemiche si attenuano lasciando posto ad una gestione più regolata, lontana dai riflettori e dalla pressione mediatica. In realtà, come è evidente dal taglio temporale, Sanpa non è tanto un film sulla comunità di San Patrignano quanto un film su Vincenzo Muccioli. La vicenda raccontata dal film finisce per presentare un intero spaccato della società italiana dell'epoca, popolato da tanti volti noti, giornalisti, personaggi dello spettacolo, conduttori televisivi, politici, imprenditori. Ma tutto, a San Patrignano, la comunità di recupero per tossicodipendenti sorta alla fine degli anni ‘70 nel Riminese, ruotava intorno a Muccioli e alla sua ingombrante personalità, padre fondatore, padre-padrone, santone devoto all’occultismo e santo redentore, titanico e messianico. Erano anni in cui un’ondata formidabile di droga piombava sull’Italia e sul mondo, contribuendo a spegnere nella miseria della dipendenza e dell’alienazione tutte le velleità dei movimenti giovanili che negli anni precedenti si erano proposti un sovvertimento - pacifico o a mano armata - della società. E’ un ritorno all’ordine che trova in Muccioli e in San Patrignano un correlativo perfetto: Muccioli rappresentava la restaurazione dell’autorità paterna che molti genitori avevano rinunciato - o non erano più riusciti - ad esercitare nella società. San Patrignano diventa per molti giovani sbandati un sostituto della famiglia, in cui si mescolano inclusione, affetto e attenzione, ma anche regole - in genere non scritte ma non per questo meno ferree -, esclusività e fedeltà reciproca (Sanpa non si sfugge e non si tradisce), autoritarismo e un implacabile sistema di punizioni per i trasgressori. Nello stesso tempo San Patrignano è un simulacro di Stato in un momento in cui anche lo Stato vero e proprio soffre una crisi di autorità, quando addirittura non accoglie con un inconfessabile sospiro di sollievo una sciagura epocale che spazza via però la marea montante della rivolta sociale giovanile. Il microstato di San Patrignano accoglie ecumenicamente tutti, fascisti e comunisti, guerriglieri e ragazzine, sfaccendati e seguaci delle controculture, figli di papà e proletari. Quando le strutture statali non sanno reagire al problema delle tossicodipendenze che con la somministrazione di metadone, Muccioli offre accoglienza, attenzione, rieducazione al lavoro, alla disciplina, alla riconquista di una dignità e di una forma di autosufficienza, sia pur acquisita attraverso una nuova forma di dipendenza, stavolta dalla comunità e dalla figura del dio-padre incarnata da Muccioli. San Patrignano funziona, salva centinaia o migliaia di vite, restituisce a tanti giovani una vita, una profesione, un futuro; solleva famiglie ridotte alla nera disperazione, convince della bontà dei propri metodi genitori angosciati e tossici persi, disposti a farsi incatenare e umiliare pur di sfuggire alla schiavitù peggiore della droga; e cresce. Il piccolo Stato possiede ormai aziende agricole e manifatturiere (dove si produce di tutto, dalle pellicce allo spumante), alleva cani e cavalli, si dota di un ospedale interno, di una foresteria, di alloggi e mense capaci di ospitare migliaia di ospiti. Tutto cresce: le strutture, il giro economico e finanziario (tra gli sponsor giganteggiano i coniugi Moratti), la fama, l'attrattività mediatica, il peso politico (presto ci si rende conto che Muccioli è in grado di mobilitare ingenti masse di voti), la stazza fisica e l’ego di Muccioli. E’ una crescita però che porta con sé i germi di una crisi potenzialmente distruttiva. Le dimensioni sono ormai tali che Muccioli non può più essere presente per tutti e dovunque, com’era all’inizio; ma nel momento in cui sarebbe doveroso dotare la comunità di una struttura organizzativa, le responsabilità di alcuni settori (alcuni dei quali di carattere chiaramente punitivo, cui vengono assegnati i soggetti più difficili e riottosi) vengono affidate a soggetti nelle mani dei quali i metodi esercitati prima in persona da quello che si offre come un padre autoritario (la coercizione fino alla reclusione con catene e in ambienti asfissianti, la demolizione, anche pubblica, di quelle che quelle che lui considerava perniciose sovrastrutture della personalità) diventano arbitrio e abuso incontrollato. Se Muccioli è stato già sottoposto al “processo delle catene” - in tribunale, nei media e nel dibattito pubblico politico e sociale -, inizia a questo punto l’epoca dei suicidi, delle morti misteriose, dei ricatti, di un nuovo processo. Muccioli continua a godere di un credito illimitato, è oggetto di un amore fideistico suffragato però dai molti improbabili successi terapeutici-riabilitativi ottenuti, eppure le nuove traversie trovano un corrispettivo anche nella sua decadenza fisica; senza che nessuna condanna in via definitiva sia stata pronunciata nei suoi confronti, si spegne nel 1995, per cause che non verranno mai dichiarate (suscitando sospetti negli anni in cui l'Aids stendeva la sua triste ombra su un'intera generazione). Gli autori (Bernardelli, Gabardini, Neri, per la regia di Cosima Spender), si muovono nell’inestricabile labirinto di luci e tenebre della vicenda, attraverso un efficacissimo lavoro di ricerca di filmati di repertorio e di interviste, componendo un mosaico dove si alternano immagini d’epoca, brani di trasmissioni televisive, riprese processuali, interviste ai protagonisti della vicenda, alla ricerca di un equilibrio possibile, nella consapevolezza di non poter raggiungere una verità assoluta e definitiva non solo sulle vicende processuali ma anche sull’uomo e sul suo operato. San Patrignano ha lamentato anche la parzialità dei testimoni (a suo parere sono stati messi in risalto prevalentemente gli aspetti negativi e problematici), ma i titoli di coda riportano anche un corposo elenco di persone che sono state interpellate e che si sono rifiutate all’intervista. In realtà, il film conserva, con un certo grado di consapevolezza, tutta l’ambiguità e l’ambivalenza di lettura che hanno accompagnato la vicenda di San Patrignano nel dibattito pubblico. Non semplicemente riportando versioni contrastanti dei fatti, ma scavando nel profondo del vissuto dei vari testimoni. Si può affermare che (con l’eccezione di Red Ronnie, che manifesta verso Muccioli una fede cieca e incondizionata, assolutamente scevra di dubbi) nessuno dei protagonisti - che si tratti del figlio o del giudice istruttore, dei sodali più stretti di Muccioli o del giornalista che ne indaga per anni le vicende, del medico del centro o della guardia del corpo che lo ricatta accusandolo di avergli commissionato l’eliminazione fisica di un testimone - fornisca un ritratto completamente negativo o completamente positivo di Muccioli. Odio e amore, disgusto e ammirazione, adorazione e frustrazione si mescolano nei sentimenti di ciascuno, in testimonianze in cui all’oggettività si mescolano dosi piccole o gigantesche di emotività. Il percorso costruito dal montaggio attraverso la successione dei brani delle interviste è abilmente costruito, in modo da fornire nella prima parte (Nascita, Crescita) un’immagine quasi prevalentemente positiva, per addensare poi mano a mano le ombre sempre più pesanti nella seconda parte (Fama, Declino, Caduta). In questa sorta di Citizen Muccioli - in cui come nel film di Welles-Mankiewicz (la citazione dello sceneggiatore è d’obbligo dopo Mank) la personalità titanica e inattingibile del protagonista è abbozzata attraverso un mosaico di indizi, di reperti, di testimonianze - il documentario diventa ad un certo punto avvincente come un thriller, con una sapiente costruzione della suspense (dove le rivelazioni più eclatanti vengono abilmente anticipate da accenni e allusioni). Ad essere in gioco non è però solo la scoperta del colpevole o lo scagionamento dell’innocente, bensì la ricerca di una verità umana e morale, oltre che giudiziaria e politica. C’è un’intervista che manca, quella di un Muccioli post mortem, ormai svincolato dagli interessi, dagli affetti e dalle ambizioni terrene. Ma non penso ci avrebbe comunque portati più vicini alla verità. FUORI ERA PRIMAVERA di Gabriele SalvatoresStrano (o forse no) che tocchi proprio al regista che della “fuga” aveva fatto il proprio tema emblematico, portando i propri antieroi a confrontarsi con l'altrove e a ricercare la propria identità in luoghi più o meno lontani (il deserto marocchino di Marrakech Express, il Messico di Puerto Escondido, l'isoletta greca di Mediterraneo, perfino nell'Italia di provincia di Turné) raccontare il suo contrario, la prigionia, il confinamento, l'isolamento, l'essere “chiusi dentro”. Salvatores ha infatti raccolto, selezionato, ordinato e curato il montaggio di decine di frammenti video girati da persone qualunque durante il primo lockdown, tra marzo e aprile, quando l'epidemia di Coronavirus colpì l'Italia come una mazzata e la travolse, prima di dilagare in tutto il mondo e diventare la pandemia conclamata con cui ancora oggi siamo a fare i conti. L'operazione non è inedita: lo stesso Salvatores aveva curato il docu-film Italy in a Day – Un giorno da italiani, prodotto da Ridley Scott che aveva già realizzato alla stesso modo Life in a Day e Britain in a Day, e anche i responsabili del montaggio sono gli stessi del film precedente, Massimo Fiocchi e Chiara Griziotti. Se in Italy in a Day a scandire il film erano le ore della giornata, qui è il trascorrere dei giorni, dall'impatto con la malattia sino alla parziale e illusoria “liberazione” della scorsa primavera. La malattia e i suoi effetti, di cui ascoltiamo tutti i giorni alla televisione e di cui leggiamo sui giornali e sui siti Internet, e che in tanti abbiamo vissuto sulla nostra propria pelle, viene raccontata così in un'apparente presa diretta (a volte i video rivelano un minimo di costruzione, spesso in un'intenzione diaristica), in una dimensione privata, individuale, di necessità domestica. Il prologo fornisce quello che si potrebbe dire un preambolo ideologico e interpretativo del fenomeno: immagini di natura libera e selvaggia; immagini degli aspetti caotici e artificiosi della vita umana e urbana; e di conseguenza scaturire della malattia dall'intersezione perversa tra le due dimensioni, a causa della distorsione e dello sfruttamento scriteriato da parte dell'uomo delle risorse naturali. Il film si svolge poi alternando gli spezzoni inviati dai singoli realizzatori, con qualche tormentone come quello del rider che pedala nelle città deserte e spesso notturne per fare le proprie consegne, lamentandosi dei magri guadagni. Nella scorsa primavera a prevalere decisamente nelle preoccupazioni della gente era l'aspetto sanitario, a scapito di quello economico che sarebbe emerso prepotentemente subito dopo. L'importante era difendersi e ripararsi da una malattia dilagante che nel giro di pochi giorni aveva precipitato l'Italia in una dimensione inedita e surreale da film di fantascienza. A scandire il percorso del film, molte scene girate negli ospedali, tra malati intubati o incapsulati nei caschi per l'ossigeno e il personale sanitario che si trova a fronteggiare un'emergenza straordinaria e mai affrontata prima, che li mette a dura prova dal punto di vista professionale (perfino gli equipaggiamenti di difesa e protezione più elementari erano venuti a mancare in questa prima fase), ma non certo meno da quello psicologico ed emotivo. Ma ovviamente ad interessare principalmente il regista non è la morte, pur presente in immagini dolorose, bensì la vita, che è continuata in tutti i suoi aspetti, piegandosi e rendendosi flessibile di fronte alla situazione fuori dall'ordinario. Tutti gli aspetti della vita sono documentati, dalla nascita di un figlio ai giochi con i bambini, dal lavoro o allo studio da casa, dall'amore e i suoi stratagemmi (gli innamorati che si guardano da case lontane, quelli che sfruttano le code ai supermercati per incontrarsi e stare – relativamente – vicini), fino ad eventi eccezionali come ad esempio la cerimonia di laurea in streaming. La famiglia (con il corollario malinconico di chi si è trovato immobilizzato in una condizione di solitudine) e la casa (con i prigionieri dei monolocali, o la riscoperta dei balconi come preziosi strumenti per guadagnarsi il beneficio e il piacere a sua volta riscoperto dello stare all'aria aperta) evidentemente sono i temi e gli ambienti ricorrenti. Meno rappresentati sono gli anziani, i meno esperti e disponibili a raccontare e raccontarsi attraverso dispositivi digitali, mentre sono soprattutto i bambini ad offrire a Salvatores l'occasione di mostrare alcune proprie caratteristiche d'autore come la gentilezza di tocco e il senso dell'umorismo. Ma altrettanto ovviamente, al regista della fuga interessano le forme di resilienza, i trucchi inventati dalle persone per sentirsi meno soli e per fare sentire meno soli gli altri, dai percorsi avventura reinventati nelle stanze di casa per far divertire i bambini, ai concerti improvvisati da finestre, balconi e terrazze, fino alle immagini sorprendenti di due tenniste impegnate in uno scambio da un terrazzo sul tetto a quello di fronte. Guardando Fuori era primavera ci si commuove, ci si emoziona, si sorride, ci si addolora, si pensa, ci si preoccupa, ci si rammarica. E a guardarlo oggi, a distanza di quasi un anno, alla vigilia di un'altra primavera che si preannuncia non certo facile, ha tuttavia già un aspetto quasi vintage, come il ricordo di un'epoca in cui eravamo più giovani e ingenui di fronte alla cattiveria della malattia, storditi ma intenzionati a reagire. Oggi i nostri occhi sono più stanchi, più livorosi, più disincantati, fiaccati da problemi psicologici ed economici, da una vita anormale che ci nega le cose più belle della vita, la sicurezza della salute e quel lavoro, le relazioni sociali e gli affetti, la libertà di muoversi, di fare le cose che ci appassionano, di viaggiare. Ci siamo resi conti che la sciagura del Covid non sarà un episodio, da confezionare in un film e conferire nell'album dei ricordi spiacevoli, bensì un tragitto lunghissimo e disseminato di incognite infinite. Prepariamoci, tra poco fuori sarà (di nuovo) primavera. MEXICO! UN CINEMA ALLA RISCOSSA di Michele RhoIl Labour Film Festival del Cinema Rondinella di Sesto permette di recuperare alcuni lungometraggi della stagione connessi alla tematica del lavoro, ma anche di fare scoperte più o meno inedite tra il ricco calendario di documentari e cortometraggi proposti in rassegna per tutto il mese di settembre. Mi è molto piaciuto Mexico! Un cinema alla riscossa di Michele Rho, dedicato alla figura di Antonio Sancassani, gestore sui generis della storica sala milanese, perché vi ho ritrovato parte della mia storia sentimentale di spettatore. Il Cinema Mexico, dove sono stato molte volte, quell’angolo di via Savona, i cinema di Milano, soprattutto quelli che non ci sono più: tutti quei nomi che riempivano in ordine alfabetico i tamburini dei quotidiani e quei neon dai nomi evocativi che coloravano il centro città intorno a Corso Vittorio Emanuele, nella piccola Broadway milanese che ora, soprattutto nelle serate invernali, è ridotta a un triste deserto spopolato tra schiere di negozi di abbigliamento chiusi. Anche Sesto San Giovanni ha subito un depauperamento simile, perdendo nel giro di non molti anni tutte le sue sale cittadine: il mitico Alpha (sublimazione dello scalcagnato Rondò), l’Adelchi, l’Apollo, il Corallo, il Dante, l’Elena, il Manzoni, tutti chiusi e quasi tutti rimasti desolatamente vuoti e abbandonati. Morte anche tutte le arene cinematografiche estive, quelle private e quella comunale nel cortile di Villa Visconti d’Aragona, che ho accudito personalmente, a fianco dei vari partner, per quasi un trentennio. L’unica monosala resistente è appunto l’encomiabile, splendido Rondinella, mentre il multiplex Skyline, sull’estrema linea di confine con Milano, si contende il pubblico con un altro multiplex situato a 800 metri di distanza in zona Bicocca. Ho usato non a caso l’aggettivo “resistente” poche righe sopra, perché ad una figura di resistente è dedicato Mexico! Antonio Sancassani (il santo protettore degli esercenti, diceva qualcuno interpretandone il cognome) è una splendida figura di imprenditore, uomo di cultura e di spettacolo che si è sempre conquistato e ha difeso con le unghie e con i denti la propria indipendenza. Dopo una prima parte della sua vita spesa nella natale Bellaggio, a dirigere il cinema Vittoria, Sancassani si trasferisce a Milano alla fine degli anni ’70 e qui rileva un vecchio cinema di via Savona (allora periferica, oggi contigua al quartiere trendy di via Tortona), che ristruttura e comincia a gestire (una malattia malvagia, proprio in questo momento critico, tenta di farlo fuori senza riuscirci). Ma la sua gestione appare subito anomala nel panorama della filiera cinematografica milanese. Sancassani è un imprenditore che ci tiene alla sua indipendenza e la difende con orgoglio, fierezza e testardaggine. Fin dall’inizio si rifiuta di sottostare alle regole delle agenzie di distribuzione (talvolta legate alle grandi case di produzione), che pretendono di imporre ai cinema la loro programmazione, imponendo e sottraendo titoli, allungando e accorciando a proprio piacere le teniture, ricattando, obbligando i gestori all’acquisto di pacchetti dove per avere un film desiderato bisogna magari accettarne un altro paio indesiderati e indesiderabili. Sancassani è di un’altra idea: il cinema è suo e vuole farci quello che vuole lui. Il che vuol dire emarginarsi volontariamente dal sistema, lavorare ai margini e di fantasia. E Sancassani se ne inventa. Il cinema musicale, il cinema in lingua originale. E poi arriva il colpo di genio, la prima grande svolta del Mexico, con l’approdo sul suo schermo di The Rocky Horror Picture Show. E’ un’opera rock, camp, kitsch, anomala e trasgressiva, destinata a conquista il pubblico milanese degli anni. Sancassani vede Saranno famosi, dove alcuni personaggi, studenti di una scuola per lo spettacolo, si danno appuntamento al The Rocky Horror, un cinema newyorkese con le sedie di legno dove il pubblico si traveste e reinterpreta in sala le scene che passano sullo schermo. Sancassani pensa: perché non posso farlo anch’io al Mexico? Va in una scuola di teatro milanese, dove un gruppo di studenti sta portando il Rocky Horror come saggio di canto, parla con uno studente sconosciuto, Claudio Bisio, e li ingaggia. Comincia così la leggendaria tenitura del film al cinema Mexico, che continua oggi a 36 anni dal suo esordio, con serate dedicate e aficionados di varie età e professioni che per decenni hanno dedicato una sera alla settimana a uscire da se stessi per entrare in questa strana fiaba dark contemporanea. Ma non si vive di solo Rocky Horror (benché siano oltre 250.000 gli spettatori che l’hanno visto nella Rocky Horror House di via Savona nel corso degli anni), così arriva la stagione del cinema indipendente: come un rabdomante Sancassani si mette alla ricerca di nuovo cinema, soprattutto italiano, quello dei giovani autori che, realizzato il film, magari con faticosi percorsi di crowfunding (o turlupinati da pseudoproduttori che, una volta raccolti i finanziamenti, ne destinano al film solo una quota, per disinteressarsi poi completamente della sua sorte, avendo già realizzato il proprio indebito guadagno) non trovano spazio in una distribuzione ancor oggi blindatissima. E ancora una volta arriva il colpo di fortuna o di genio, il miracolo di un piccolo film indipendente, Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, una storia di pastori ambientata in una valle occitana e parlato in italiano, francese e occitano, che inspiegabilmente conquista il cuore e il passaparola del pubblico milanese e che si tiene stretto lo schermo del Mexico per più di due anni consecutivi, tra incontri col regista, serate musicali e assaggi di formaggio di capra. A raccontare questa straordinaria parabola, questa vita romanzesca (anzi, cinematografica) c’è lo stesso Sancassani e il suo staff, ma anche i più noti critici cinematografici milanesi, Paolo Mereghetti, Maurizio Porro, Alberto Pezzotta, oltre a personaggi di cinema e di teatro come Luca Bigazzi, Moni Ovadia o Claudio Bisio. La storia continua: ancora oggi Sancassani saluta il suo pubblico nel foyer, chiede se il film è piaciuto, fiuta l’aria e i gusti; e intanto riceve decine di proposte da parte di nuovi filmaker che vedono in Sancassani un paladino del cinema indipendente e nel Mexico l’unica possibilità di far vedere il loro film in sala, si fa mandare i film, li guarda e li valuta, ospita quelli che gli sembrano più interessanti, dando loro almeno un paio di settimane garantite di tenitura, per permettergli di conquistare l’interesse del pubblico e di generare un virtuoso passaparola. Tira le conclusioni lo stesso Sancassani, anziano, un po’ stanco, ma ancora fiero, inflessibile. Ha fatto il suo lavoro come ha voluto, è stato malato ed è guarito, ha messo da parte un po’ di soldi, si è tolto qualche soddisfazione, potrebbe anche smettere. Ma è sicuro che dopo qualche giorno si annoierebbe. E così resiste, alza tutti i giorni la saracinesca della sua sala, combatte ancora contro il drago della distribuzione accanto ai peones del cinema indipendente. ¡Que viva México! IL VOLTO DI MILANO di Massimo ZanichelliMassimo Zanichelli è docente di cinema, saggista, wine writer, documentarista. Le sue due grandi passioni e competenze, cinema e vino, si sono virtuosamente riunite nei suoi film documentari precedenti, dedicati all’esplorazione di alcune zone vinicole italiane. Ora si cimenta con una produzione totalmente indipendente (firmata dalla DDL video di Davide Di Lernia) e autofinanziata, dedicata ambiziosamente a delineare Il volto di Milano. Per tentare di dipingere un ritratto della città che sta vivendo un momento decisamente positivo dopo il grande cimento dell’Expo, Zanichelli si affida, oltre che alle immagini, alle voci e ai visi (ripresi con una vicinanza che sembra quasi cercare un’identificazione tra i volti delle persone e quelli possibili di Milano) di quattro testimoni: sono quattro voci “colte” e creative – Giorgio Fontana scrittore, Gianni Mura giornalista, Maia Sambonet artista visuale, Marina Spada regista - che raccontano la città da diverse distanze anagrafiche, determinanti nello stabilire il tenore dei giudizi sulla Milano di oggi: dalla visione nostalgica di Mura, insofferente verso la Milano di oggi “che scambia la frenesia per efficienza” a quella pragmatica della Spada, a quelle più positive, anche se in vario grado problematiche, dei “giovani” Fontana e Sambonet. Dall’altra parte, Zanichelli, con una troupe minimale e uno scooter per gli spostamenti, esplora per immagini la città muovendosi lungo diversi assi; oltre a quello “anagrafico” di cui si è detto, e a quello storico, che accosta le vestigie romane e romaniche alle costruzioni futuribili della nuova Isola o di CityLife, la perlustrazione spaziale avviene sia in orizzontale (spostandosi verso le varie zone, dal Naviglio Martesana al centro, dalla Bicocca alla Darsena) che in senso verticale, dal sottosuolo della metropolitana alle numerose panoramiche dall’alto, con la sorpresa (per chi non conosce bene la città) delle montagne all’orizzonte. La stessa camera si fa di volta in volta affascinare da movimenti orizzontali, seguendo il traffico o il flusso dei pedoni, che verticali, dal basso verso i nuovi palazzi o le guglie del Duomo, o viceversa, dalla sommità dei grattacieli verso la città all’intorno ai loro piedi. Quello che emerge è un ritratto molto articolato e sfaccettato, certamente molto più interessante da quello fornito da altri film documentari anche recenti, e con firme a vario titolo illustri, che dà conto di una città certamente ricca di contraddizioni, al primo impatto non facile da vivere e da apprezzare, ma affascinante, viva e vitale. Zanichelli regala d’altra parte a Milano quello che sembra un atto d’amore: la città che dipinge è sempre solare, limpida, benedetta nella maggior parte delle immagini da un cielo azzurro e limpido, che rievoca (anche nelle parole della Spada) quel manzoniano “cielo di Lombardia, così bello quand’è bello”. Pur essendo stato girato nell’arco di due anni, l’autore sembra infatti aver cancellato le brutte stagioni, i cieli grigi, le nuvole, le nebbie e le foschie, la pioggia o la neve, che pure fanno parte costituente dell’immaginario della città. Sembra quasi che, innamorato della qualità tecnica ed estetica delle immagini (in 4K, riprese con videocamera e telefonino ad alta definizione), Zanichelli abbia rimosso, dalle immagini e dall’inconscio del film, tutto quello che (agenti atmosferici, buio notturno) avrebbe potuto attenuare od offuscare lo splendore di un’immagine nitida, cristallina, luminosa. Molto curato anche il sound design del film, che alterna alle voci dei testimoni le musiche, i rumori del traffico, il rombo di sottofondo delle grandi città, i silenzi, riuscendo a restituire, oltre che il volto, anche il respiro acustico-sonoro di Milano. Per chi non volesse perdersi Il volto di Milano, una data sicura è il 6 febbraio: il film (dalla durata di 55 minuti) verrà proiettato alle ore 20 al Cinema Rondinella di Sesto San Giovanni, prima del film Sully di Clint Eastwood, programmato per le ore 21.15. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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