L'INCREDIBILE VITA DI NORMAN di Joseph CedarIl paratesto è piuttosto ingannevole: il titolo italiano parla di una vita “incredibile” (quello originale più realisticamente di un’ascesa “moderata” e di una caduta “tragica”), il manifesto mostra un gigantesco Richard Gere in cappotto e sciarpa, i piedi piantati in mezzo a Central Park, a dominare lo skyline newyorkese al di là degli alberi. Ma il Norman del film non è affatto un gigante; semmai è una pulce, un parassita. Non domina i grattacieli di New York, vive nella loro ombra, nel sottobosco della città. Norman Oppenheimer è quel che si dice un faccendiere; uno che cerca di sfruttare conoscenze, influenze, informazioni, che annusa l’aria in cerca di affari, che poi suggerisce ad altri, non avendo (più?) del proprio da rischiare, sperando di raccoglierne le briciole. Poco conosciamo di lui, se non le fruste tecniche di aggancio di possibili finanziatori, la solitudine, l’assenza di una famiglia, di affetti, perfino di una casa. Il film si concentra in realtà su una sua unica triste, solitaria e finale avventura, quella dell’amicizia (anche se chiamarla così è una parola grossa) con il Primo Ministro israeliano, cui fa un favore gratuito nella speranza che il rapporto, che in effetti riesce in qualche modo ad evocare, possa servire a migliorare la sua (scarsa) reputazione, la sua (indefinibile) attività, la sua (deprimente) vita. L’aggancio sembra riuscito e il potente uomo politico prova una sincera simpatia per lui; ma i benefici tardano ad arrivare, finché infine il Primo Ministro si troverà a dover scegliere tra la labile amicizia e la cogente ragion di stato. Il regista israeliano Joseph Cedar racconta di aver rielaborato la figura mitica dell’Ebreo cortigiano, che caratterizza personaggi letterari come il biblico Giuseppe, lo Shylock di Shakespeare, il Fagin di Oliver Twist, il Leopold Bloom di Joyce. In effetti il personaggio di Norman porta su di sé alcuni caratteri dello stereotipo dell’Ebreo, come il fiuto per gli affari, la marginalizzazione nella comunità di residenza e la conseguente aspirazione all’accettazione sociale. Ma il film comunque finisce per essere il racconto di atti gratuiti e atti mancati, senza riuscire mai ad alzare più di tanto il livello di interesse dello spettatore verso la storia narrata. Anche se in realtà un motivo di interesse c’è ed è già dichiarato icasticamente ed esplicitamente dall’immagine del manifesto citata all’inizio. Il motivo d’interesse si chiama Richard Gere (anche se l'interprete del suo deuteragonista, Lior Ashkenazi, si rivela all'altezza) usato contro i suoi ruoli consueti, che giganteggia nel film nel ruolo di un affarista piccolo piccolo, che non riesce ad eliminare il suo glamour nemmeno negli abiti eleganti ma un po’ impacciati del suo Norman, e che rivela una sicura maturità d’interprete nel ruolo di un uomo insicuro, ansioso e spaesato, che alla resa dei conti si rivela molto più interessato ad essere accettato dagli altri, piuttosto che agli affari o a un’ormai improbabile scalata alla carriera. Cedar ne segue le gesta imprimendo al film un tono dolce amaro (né troppo dolce né troppo amaro), senza scegliere tra dramma e commedia. Dona un momento magico al suo antieroe mettendolo al centro di una sequenza effettata dove Norman è l’unico a muoversi in mezzo al bel mondo cui aspira di inserirsi, ma lo rimette al suo posto quando rappresenta una telefonata tra il Primo Ministro, immerso nei suoi ambienti lussuosi, e il suo pseudoamico, immerso invece tra la spazzatura in un vicolo buio. Bella anche la fotografia di Yaron Scharf (lo sfondo newyorkese, non più frequente come un tempo, ha sempre il suo fascino), mentre le musiche di Jun Miyake danno un tono leggero e fiabesco alle grigie disavventure dell’antieroe eponimo.
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SIERANEVADA di Cristi Puiu THE TEACHER di Jan HrebejkSono arrivati negli ultimi mesi sui nostri schermi un paio di film dell’Est europeo, che in modo diverso pongono anche il tema del ripensamento del periodo comunista. Sono il rumeno Sieranevada e The teacher, che riunisce per una volta, almeno al cinema, Slovacchia e Repubblica ceca.
Devo dire, a costo di sembrare un po’ snob, che sono stato un fan della prima ora della nouvelle vague del cinema rumeno, a mio parere e per un certo periodo (insieme a quelle iraniane e sudcoreana, per quello che ne possiamo vedere nei festival o nelle rare uscite italiane), una delle cinematografie emergenti più interessanti al mondo. Mi pare però che Sieranevada chieda un po’ troppo allo spettatore. L’occasione è un ritrovo famigliare (c’è tutta una cinematografia di riferimento, dalla commedia all’italiana a Festen), qui, scopriamo a film già avanzato, per una commemorazione funebre. La maggior parte del film, tranne il prologo e una parentesi esterna, si svolge tutto all’interno dell’appartamento dove si ritrovano i congiunti del deceduto, i famigliari, i parenti, conoscenti e amici e anche qualche sconosciuto. Per tutto il film si parla: delle molte beghe famigliari e dei singoli personaggi, di religione e di politica, dei pregi (?) e difetti del comunismo rumeno e della controinformazione sull’11 settembre, dell’attentato a Charlie Hebdo e dei ricordi d’infanzia. Cristi Puiu ama il tempo reale e il piano sequenza (si vede già dal prologo in cui per strada assistiamo a lungo, da lontano, all’andirivieni di alcuni personaggi, di cui non riusciamo a percepire nemmeno chiaramente le parole), e guida quindi la sua macchina da presa all’interno dei vari locali della casa, a riprendere e registrare le chiacchiere di gruppi di personaggi che si fanno e si disfano in continuazione (si può immaginare che si sia fatto anche un bel lavoro di improvvisazione con gli attori); oppure, e sono le riprese più virtuosistiche del film, piazza la cinepresa in corridoio e la fa ruotare a 360°, a sbirciare scorci di conversazione nelle varie stanze o a sostare davanti a porte dai vetri smerigliati dietro i quali intravvediamo movimenti e captiamo brandelli di conversazione. Ma chiedere allo spettatore di investire tre ore (vabbè meno, 173 minuti) del proprio tempo e della propria attenzione a origliare chiacchiericci e segreti di famiglia non così appassionanti mi sembra decisamente eccessivo. Più conciliante verso lo spettatore The Teacher (Ucitelka), che gioca sul doppio piano della commedia e del dramma sociale. Anche in questo caso l'incipit è molto significativo, ambientato in uno spogliatoio scolastico che sembra un sistema di gabbie. Impiantato su un dispositivo drammaturgico alla La parola ai giurati - dove un gruppo di persone chiuse in una stanza si trova a discutere di un delicato problema morale che investe le coscienze di ciascuno e su cui occorre prendere una decisione, e dove la sparuta minoranza riesce gradualmente a convincere gli altri delle proprie opinioni -, il film racconta di una riunione scolastica cui la direttrice ha convocato i genitori di una classe di studenti dopo la segnalazione di alcuni di loro su anomalie nel comportamento di un’insegnante. Emerge da racconti molto circostanziati che la professoressa Maria Drazdĕchová amministra la giustizia scolastica secondo metodi non proprio ortodossi: sono premiati con suggerimenti e bei voti gli studenti figli di genitori che in qualche modo possono renderle dei favori; puniti e denigrati quelli figli di genitori che non possono o non vogliono farlo. La casistica dei favori richiesti è varia e gustosa: l’insegnante non solo si procura gratis acconciature, vivande, medicinali, riparazioni, lavori domestici (dove sono coinvolti tanto genitori che figli), ma arriva a chiedere qualche piacerino al di là della legalità o a tentare di circuire ed impalmare un giovane vedovo della cortina di ferro, uno scienziato caduto in disgrazia dopo che la moglie l’ha lasciato per fuggire all’estero. Siamo in effetti nella Cecoslovacchia comunista, dove sotto la cappa del controllo sociale, politico e poliziesco la corruzione e il sapersi arrangiare sono di casa. Inframmezzato dai flashback in cui si raccontano tre casi esemplari del metodo Drazdĕchová, il dibattito tra i genitori si infervora: bisogna scegliere tra il bene dei propri figli e il loro futuro da una parte, e l’integrità morale e i valori di onestà e di giustizia dall’altra (un tema simile, evidentemente molto sentito, era al centro anche del rumeno Un padre, una figlia, già recensito in questo sito, mentre il rapporto tra scuola e valori etici era al centro del bulgaro The Lesson). E’ degno di nota che gli schieramenti che si creano vedono da parte le famiglie benestanti, quelle che hanno favori, beni e servizi da elargire, e dall’altra le famiglie più umili, ma più sensibili ad un’etica comportamentale che gli altri sono ben disposti ad accantonare, riproducendo una divisone di classe all’interno dell’aula scolastica. Anche in questo caso forse c’è un problema di durata, e l’aneddoto poteva essere sfrondato da qualche ripetizione (ma siamo comunque ad un’ora e 40 contro le 3 ore di Sieranevada). Però le dinamiche sono ben raccontate, le ambientazioni vintage-socialista gustose, e soprattutto è ben dipinto il personaggio della protagonista, spietata ricattatrice ma accattivante, melliflua, cordiale e sorridente. Zuzana Mauréry, la sua interprete, è stata premiata per questo film come miglior attrice all’edizione 2016 festival di Karlovy Vary (curiosamente, vedo che proprio oggi è uscito a Milano - con un paio d’anni di ritardo - anche il film premiato nello stesso festival, ma l’anno precedente, sempre per l’interpretazione femminile: Cure a domicilio di Slávek Horák). Ma il veleno morale di The Teacher sta nella sua coda, cioè nella sequenza finale: anni ’90, caduto il comunismo, la Drazdĕchová rientra in classe e ricomincia imperterrita e impunita la sua suadente strategia di ricatto. DOVE NON HO MAI ABITATO di Paolo FranchiMassimo è un architetto affermato, figlio putativo dell’anziano architetto di fama presso il cui studio lavora, che porta avanti una relazione senza impegno con una donna che lo ama e non è probabilmente altrettanto riamata. Francesca è la figlia carnale del vecchio architetto, e architetto a sua volta, che ha abbandonato 20 prima la professione sposando un uomo più anziano di lei e trasferendosi a vivere a Parigi. E’ proprio il padre-patriarca a riunire i due, chiedendo loro di lavorare insieme ad un progetto edilizio che lui per ragioni di salute non può più seguire. Vuole resuscitare in lei la passione per il lavoro? O vuole avvicinare due anime che ritiene affini? E’ soprattutto lei, attratta dal fascino scostante, distaccato e tenebroso di Massimo, e segretamente frustrata e inconfessabilmente insoddisfatta della propria vita priva di passioni, ad attirare il riluttante Massimo verso una relazione sentimentale; giusto forse per sentire riaccendersi una fiammata nel cuore, o per poter scrivere una lettera d’amore come non ha mai fatto nella sua vita. Il film si apre con una figura di donna sfocata che avanza verso il primo piano, si chiude con una figura di donna che chiude davanti a sé le tende di una finestra. Nell’arco tra un’insoddisfazione e una rinuncia si consuma il breve incontro tra due cuori in autunno. Dove non ho mai abitato è un film d’amore e di sentimenti repressi, un po’ d’altri tempi, vecchio stile anche se non di stile vecchio, che racconta di pudori e di esitazioni, di prudenze e timori, di inerzie e rinunce. I personaggi sono distribuiti in architetture che non li mettono a proprio agio (salvo forse, e non sempre, Massimo nel proprio studio): la casa di lui ingombra di scatoloni mai disfatti e non condivisa con l’amante; la casa paterna dove lei si sente estranea e quella coniugale che malgrado l’agiatezza altoborghese le è ormai troppo stretta; fino alla casa in costruzione: una terra di nessuno destinata ad estranei che diventa il terreno possibile del futuro e del desiderio. Franchi rinuncia allo stile involuto e ostico di Nessuna qualità agli eroi e torna ad una maggiore linearità narrativa, come nel suo film esordio La spettatrice. Attraverso l’uso degli ambienti, i volti (spesso in primo piano) e i corpi degli attori, una morbida fotografia autunnale (di Fabio Cianchetti), la musica di Pino Donaggio (ma con due decisivi inserti di My Funny Valentine di Chet Baker a imprimere la temperie musicale del film), il regista riesce a far entrare gli spettatori in intimità con i suoi protagonisti e rendere convincente il suo racconto. Scontando tuttavia un certo impaccio nella fluidità narrativa (particolarmente evidente nell’avvio delle sequenze, dove sembra che gli attori siano in posa in attesa del ciak per recitare la battuta da copione) e la teatralità di alcuni momenti. Teatralità che affiora anche nella recitazione degli attori, in particolare nelle sequenze che vedono al centro Giulio Brogi; mentre è merito di Fabrizio Gifuni e di Emmanuelle Devos dare credibilità carnale e sentimentale ai propri personaggi. NICO, 1988 di Susanna NicchiarelliNico, o meglio Christa Päffgen, ha avuto almeno (tre) brevi vite: nella prima è una bambina affamata durante il blocco di Berlino, che vede da lontano i bagliori di Berlino bombardata che brucia. Nella seconda è una giovane donna, prima modella internazionale, poi a New York musa della Factory di Andy Wahrol e cantante e icona dei Velvet Underground di Lou Reed. Canta canzoni di Reed, di Dylan, di John Cale, di Jackson Brown. Ha relazioni con Brian Jones, chitarrista dei Rolling Stones, forse con Jim Morrison dei Doors; ha avuto un figlio da Alain Delon, non riconosciuto dal padre e adottato dalla madre di lui; vive anni walking on the wild side, tra creatività, musica, libertà sessuale, Lsd. La terza vita è quella dopo gli Underground, con una donna ormai quarantenne alle prese con l’emancipazione creativa e musicale, la perdita consapevole della bellezza, il riavvicinamento al figlio perduto; ma anche con la persistente dipendenza da eroina. Il film racconta questo terzo periodo tra scalcinati tour on the road, rivendicazioni di autonomia e di emancipazione (in numerose interviste Nico rivendica il suo vero nome e la sua propria musica e rinnega, o per lo meno dà come definitivamente superato, il periodo Velvet che pure ne ha fatto un mito vivente), concerti di dubbia riuscita (dove gli spettatori si contano a decine, non a centinaia, e che spesso si interrompono prima della fine), tentativi di ricongiungimento con il figlio (che riunitosi con la madre ritenta comunque il suicidio), dipendenza dalla droga. Susanna Nicchiarelli (che si era tuffata in un passato che le era anagraficamente estraneo con Cosmonauta) tenta il difficile racconto di un declino che vorrebbe essere una rinascita, una perdita che vorrebbe essere una riappropriazione. Nel suo racconto di emancipazione si tiene volontariamente lontana da sentimentalismo e retorica, e il passato glamour di Nico riaffiora solo attraverso flash di memoria illeggibili e dai colori saturati; ma ne esce il ritratto di una donna fragile, dalle dubbie qualità canore, che non riesce a liberarsi dalle dipendenze, né da quella dell’eroina né da quella degli altri, e che non riesce neppure a rendersi conto dei sentimenti di quelli che la circondano. Tra litorale laziale, Germania, Cecoslovacchia, Polonia e Gran Bretagna, il film raccoglie e mette insieme attori di diversa nazionalità e paesaggi diversi, cercando di restituire look e atmosfere dell’epoca con il lavoro sulla scenografia, sui costumi, sulla fotografia, sulle luci, sul formato, mentre la danese Trine Dyrholm (conosciuta da noi per i film della Bier e di Vinterberg) dona fisicità e voce al mito sopravvissuto a se stesso. La Nico del film (anzi la Christa – ma anche la sua tomba a Berlino riporta in tutte maiuscole il suo nome d’arte prima di quello reale) scompare di scena in bicicletta, durante una vacanza ad Ibiza. Le didascalie finali ci dicono solo la data della morte, e l’età, inducendo lo spettatore a supporre una morte per droga. La versione ufficiale parla invece di un’insolazione, o di una caduta dalla bici. Sorte beffarda sotto il sole mediterraneo per l’antesignana del gothic rock, che fu definita la sacerdotessa delle tenebre. LOVING VINCENT di Dorota Kobiela e Hugh WelchmanLoving Vincent è un film evento e un film record. Parzialmente finanziato con una campagna di crowfunding, ha avuto una lavorazione durata 6 anni, con un team di 125 disegnatori e pittori impegnati a dipingerne i 65.000 fotogrammi che lo compongono; uscito in Italia per 3 giorni, distribuito da Nexo Digital (che ha già annunciato un’ulteriore replica nazionale per il prossimo 20 novembre), ha fatto in molte sale il tutto esaurito totalizzando il 50% degli incassi totali nei cinema italiani nelle giornate di programmazione (battendo, tanto per dire, Blade Runner 2049) e diventando il film-evento più visto in Italia. La sfida affrontata dagli autori – qui più che mai si dovrebbe parlare di opera collettiva, comunque sceneggiatori e registi sono Dorota Kobiela, Hugh Welchman – è anch’essa inedita e mai realizzata prima (anche se va doverosamente ricordato Sogni, di Akira Kurosawa, che già nel 1990 nell’episodio Corvi faceva aggirare Martin Scorsese nei panni del pittore all’interno dei suoi dipinti) : cioè quella di raccontare la storia di un artista, Vincent van Gogh, partendo dalle sue opere figurative e girando tutto il film come se fosse stato dipinto direttamente dal pennello dell’artista stesso. Il film è stato girato con attori reali che recitavano nei costumi dei personaggi dei quadri di van Gogh davanti al blue screen (lo schermo neutro color verde davanti al quale vengono ripresi gli attori in carne e ossa, le cui immagini vengono inserite poi in postproduzione su sfondi animati o generati sinteticamente dal computer, con l’eventuale intervento di effetti speciali), poi digitalizzati attraverso il rotoscope (la strumentazione, un tempo analogica, ora prevalentemente digitale, con cui le immagini in movimento degli attori vengono trasformati in figure di animazione), quindi inseriti in riproduzioni pittoriche delle opere del pittore a loro volta digitalizzate e animate. Un’impresa da brividi, che si può dire egregiamente riuscita in una resa tecnica che suscita stupore e meraviglia. Lo spettatore entra nella spoglia celeberrima stanzetta del pittore ad Arles, assiste ad una rissa davanti ad uno dei locali notturni immortalati nelle sue tele, vede alzarsi in volo da un campo di grano i suoi corvi neri, vede muoversi e ascolta parlare i personaggi da lui ritratti, come il dottore Gachet e sua figlia Marguerite, Armand Roulin e suo padre Joseph, la vivace locandiera Adeline Ravoux, uno zuavo, o père Tanguy. Paradossalmente, quella di Vincent van Gogh è contemporaneamente una presenza e un’assenza. Se il film cerca di entrare non solo nel mistero della sua vita (e della sua morte), ma inscena fantasmagoricamente il suo mondo fantastico direttamente attraverso le sue opere, lo fa da una prospettiva appunto postuma, situando le vicende narrate ad un anno dalla morte dell’artista. Il personaggio-guida è quello di Armand Roulin, figlio del postino che recapitava le numerosissime lettere scritte da Vincent, indirizzate per la maggior parte all’amato fratello Theo, che accetta, pur riluttante, di cercare consegnare l’ultima lettera dell’artista, ancora una volta rivolta al fratello, che era già però deceduto a sua volta solo sei mesi dopo. La missione di consegnare la lettera di un morto ad un morto si trasforma ben presto in un’indagine sulla vita e la personalità dell’artista, attraverso le voci delle persone che l’avevano conosciuto - e che lui aveva immortalato nei suoi ritratti – e anche, e sempre più, sulla sua morte. Vincent van Gogh morì infatti, il 29 luglio 1890, dopo essere tornato dai campi in cui si era recato a dipingere (ma la sua attrezzatura non fu più ritrovata), ferito all’addome da un colpo di pistola. Al dottor Gachet che gli prestò le cure e al fratello Theo accorso al suo capezzale, lui stesso disse di aver tentato di suicidarsi, oppresso da un malessere esistenziale insostenibile. Gli autori del film, sposando la tesi espressa dagli storici dell’arte Steven Naifeh e Gregory White Smith, fanno raccogliere ad Armand testimonianze ed elementi che lo inducono a dubitare della tesi del suicidio (e, ad un certo punto, a sospettare dello stesso Gachet, forse geloso del talento dell’amico), come, in particolare, l’angolo di entrata del proiettile, al limite estremo della compatibilità con un colpo autoinferto. Rimane quindi il mistero della morte di van Gogh, della sua vita sfortunata, della sua arte sublime e incompresa dai suoi contemporanei, impreparati ad accettare i suoi disegni sgraziati, i suoi colori accesi e talvolta violenti, il suo mondo deformato da una visione onirica del cosmo e del mondo. Autore di oltre 800 dipinti, ci informano le didascalie finali, van Gogh ne vendette in vita solamente uno. Oggi è tra i pochissimi pittori (quelli che si contano sulle dita di una mano, diciamo), che qualsiasi profano al mondo citerebbe se gli si chiedesse il nome di un pittore: l’artista per eccellenza, l’incarnazione del binomio genio-follia. In un film che ha ovviamente soprattutto nelle immagini la propria intrinseca e cinetica fascinazione, la sceneggiatura cerca di movimentare quello che per sua natura, derivando da quadri di ritratti e vedute immobili, è statico, e di suscitare interesse inserendo nell’intreccio una vena quasi gialla, o comunque investigativa, sulla morte di van Gogh. Il risultato è quello di un ritratto dall’esterno, in absentia, che rinuncia al tentativo di penetrare nel profondissimo disagio esistenziale dell’uomo che alla pittura dedicò tutta la sua vita e alla quale sacrificò la sua salute mentale. Dal punto di vista estetico, un punto debole del film è, se si vuole, nella sua ansia da prestazione, che, fatto il miracolo di vivificare e animare i dipinti, lo spinge a cercare anche, attraverso l’uso del rotoscope, il massimo del fotorealismo nei movimenti e nelle espressioni dei personaggi. A mio parere generando un contrasto tra la fluidità naturalistica delle movenze e l’impressionante precisione delle espressioni da una parte e un contesto di tipo pittorico in cui la realtà subisce una deformazione pre-espressionistica dall’altra. L’effetto è particolarmente evidente nelle sequenze dei numerosi flashback in bianco nero, dove, in assenza della forza straniante dei colori, l’effetto pittorico si attenua ricadendo in un realismo quasi fotografico. MOTHER! di Darren Aronofskymother! assomiglia a quei film che non assomigliano a nessun altro film, che trasgredisce le regole, tradisce il genere di appartenenza, spiazza le aspettative. Uscendo dal cinema ho sentito dei ragazzi dire che era il film più brutto che avessero mai visto: appunto, diverso da tutti gli altri, al margine estremo delle classifiche di giudizio, tanto che Martin Scorsese, dalle colonne dell’Hollywood Reporter, si è sentito in dovere di farne un’appassionata e risentita difesa, preconizzandone un possibile futuro da classico, incompreso all’uscita e glorificato sulla distanza. In realtà mother! qualcosa in comune con altri film ce l’ha: ad esempio la tematica dell’intrusione richiama la filmografia di Michael Haneke, talmente coerente nel perseguimento della sua ossessione da girare due volte il suo film feticcio, Funny Games; ma soprattutto ha in comune con Rosemary’s Baby di Roman Polansky (tratto dal romanzo di Ira Levin, la cui bibliografia ha a sua volta qualche ulteriore eco tematica nel film di Aronofsky, come la violazione della privacy di Shiver o l’uso strumentale della donna ne La fabbrica delle mogli) lo spunto di base, che si potrebbe riassumere così: uno scrittore in crisi che vive in una casa che sembra stregata, stretto un patto demoniaco, concepisce un figlio con la legittima consorte per cederlo al maligno in cambio del successo letterario. In tutta la filmografia di Aronofsky d’altra parte la psiche dei suoi protagonisti porta regista e personaggi stessi ad accanirsi sui propri corpi: dal protagonista di Pi greco che si trapana il cervello per trovare sollievo alle proprie ossessioni, al Wrestler che si trafigge il corpo con le sparachiodi per affrontare combattimenti estremi, alla ballerina de Il cigno nero che sacrifica il proprio corpo per sublimarsi nella danza. Ma se in questi casi si tratta di un martirio autoinflitto, in mother! l’ingiuria arriva dall’esterno-mondo, mentre è la casa più che il corpo (almeno sino al finale) a venire continuamente profanata, quasi che essa fosse l’estroflessione del corpo della protagonista, o del suo utero, continuamente penetrato dalla violenza delle intromissioni o delle irruzioni dal di fuori. Tutto il film si svolge all’interno della casa - dentro le cui pareti vediamo pulsare organi vivi - spazio mentale e metaforico. “Tu sei la casa” dice d’altronde Lui a Lei (li chiamerò così perché i personaggi, significativamente, non hanno nome), mentre di sé, con le parole con cui Dio si presenta a Mosè nell’Esodo, parlando da un cespuglio in fiamme, afferma “Io sono chi sono”. Siamo quindi davanti a un demiurgo maschio, di fronte al quale il femminile letteralmente si fa e si disfa secondo il suo volere, le sue trame, le sue esigenze. Paradossalmente però, in un film in cui la casa viene continuamente penetrata dall’esterno, a brillare per la sua assenza è proprio l’atto sessuale, cesura della narrazione, svolta fondamentale, motivo stesso del titolo (esclamativo!), eppure sprofondato in un una profondissima ellissi narrativa. Sembra quasi che Aronofsky (e il suo protagonista), che guardano a Lei con uno sguardo insieme compassionevole e irrisorio, si astenessero davanti all’atto fondamentale (al contrario di quanto faceva Polansky nelle sequenze memorabili della possessione demoniaca in Rosemary’s Baby), omettendo di mostrare la penetrazione/invasione per eccellenza del femminile, quasi delegando ad un’immacolata concezione diabolica il concepimento del figlio da sacrificare perché Lui possa risorgere dalla sua apparente morte creativa. Lei è dunque quasi una Madonna sposa del principio satanico anziché di quello divino, del principio distruttore anziché di quello creatore, o del Shiva che distrugge affinché Brahma possa ricostruire. Sospeso sul baratro del delirio narrativo fine a se stesso, del puro nonsense fonte di irritazione, travolto dalla propria stessa irrazionale vertigine mozzafiato, mother! richiede per forza di cose una lettura metaforica, pena il rifiuto totale e incondizionato. Forse allora, enunciate più sopra le premesse, non è azzardato leggerlo come un’allegoria della creazione artistica, un ritratto mefistofelico di artista, un’autoanalisi del regista nel proprio rapporto con gli attori, i personaggi, l’opera. Lui è quindi l’autore, il demiurgo; Lei è il corpo attoriale, che offre in dono la propria materia, la propria gestualità, la propria performatività (i lavori di ristrutturazione della casa di Lui vengono eseguiti tutti da Lei, mentre a Lui spetta l’attesa inoperosa dell’ispirazione creatrice); e la casa è l’opera (che l’autore nello stesso tempo, taumaturgicamente, crea e abita, essendo al di fuori e nello stesso tempo all’interno di essa): articolata, viva, complessa, piena di recessi inesplorati, da ricostruire da capo ogni volta che è terminata. Le figure degli intrusi invasori possono essere lette in modi diversi, anche secondo le diverse fasi del film. Inizialmente sembrano essere principalmente materia narrativa, il racconto dell’altrui esperienza di vita cui il narratore aspira, e che accoglie e assorbe, per sostanziare e vivificare la propria opera. D’altra parte sembrano incarnare anche le distrazioni/distruzioni del mondo esterno, che possono contribuire all’opera o costituirne l’ostile e disordinato contesto in cui la creazione deve suo malgrado avere luogo e prendere forma. Infine i visitatori sono i fruitori dell’opera, che la consumano, la sbranano, ne fanno oggetto di culto, la fraintendono, se ne appropriano con modalità anche estranee alle intenzioni dell’autore stesso. La deriva insensata, frastornante, soffocante di mother! si richiude infine in un anello dove creazione e distruzione si riuniscono, in un rapporto di necessaria interdipendenza, preannunciato dalle immagini iniziali. L’autore rivela la sua natura ambigua e “sporca” di demiurgo dolente, che se da una parte è costretto a scendere a compromessi con la realtà esterna, con la propria interiorità esposta, con i propri affetti violentati, con il proprio pubblico, dall’altra è condannato ad un eterno ritorno: ogni volta che terminerà un’opera, sarà costretto a distruggerla, a darla in pasto ai propri lettori/spettatori, a farne tabula rasa, terra bruciata, per poter poi ricominciare a creare, a ricostruire una storia, nello stesso tempo uguale e differente. Un’altra opera, un’altra casa, un altro volto di donna. Non siete convinti? Magari potreste d'accordo con il Face/Off di Oruam Norac: andate a leggere la sua recensione. NOVE LUNE E MEZZA di Michela AndreozziPer una volta tanto è lecito impicciarsi della vita privata delle attrici di un film, perché Nove lune e mezza tratta di un tema molto intimo e privato, e cioè del desiderio, della possibilità, della legittimità della procreazione. Dunque, Claudia Gerini, che nel film interpreta Livia (e che trova modo di essere sexy anche con qualsiasi pancione), e che presta il proprio corpo alla gravidanza tanto desiderata ma mai realizzata della sorella Tina, ha due figlie (avuti da diversi compagni); Michela Andreozzi, che interpreta la complessata Tina, ma che il film l’ha anche scritto (insieme a Fabio Morici e Alessia Crocini) e diretto, non ne ha nessuno. Della propria impossibilità ad avere figli l’Andreozzi aveva parlato in passato su Fecebook e in interviste giornalistiche, sostenendo di sentirsi comunque appagata e realizzata, anche se proprio sullo scoglio di questa dolorosa impossibilità era naufragato il suo primo matrimonio. E’ comprensibile quindi che per il proprio debutto nel lungometraggio (l’eclettica Andreozzi è già attrice televisiva, cinematografica e teatrale; conduttrice radiofonica; redattrice, sceneggiatrice e commediografa) abbia scelto un tema tanto vicino alla propria vita intima; meno scontato che lo approcciasse dal versante della commedia. La comicità è d’altra parte nel dna di Michela, che proprio con un duo comico (Gretel&Gretel) esordisce come attrice televisiva. Bisogna dire subito però che Nove lune e mezza fa ridere e sorridere, ma non si adagia sulla corrività e sulla faciloneria di molto cinema televisivo italiano. Lo spunto dichiarato è quello dello scambio di corpi, oggetto di tante commedie fantastiche in cui uomini e donne, adulti e bambini, bianchi e neri, buoni e cattivi, per incanto si scambiano reciprocamente di corpo (ma non di mentalità) generando equivoci e occasioni comico-grottesche. Lo scambio di corpi tra Livia e Tina non ha però nulla di fantastico o di magico, ma è un atto di sorellanza, di solidarietà femminile (un po’ venato anche dalla gelosia da una parte, dal senso di colpa dall’altra), reso possibile dalle tecniche di fecondazione assistita e grazie alla complicità di un ginecologo demiurgo, omosessuale e padre a sua volta di due bambini (interpretato da Stefano Fresi). Sarà quindi Livia, musicista indipendente ed emancipata, che non sente alcun desiderio di maternità, a portare in grembo e far crescere dentro di sé l’ovulo di Tina fecondato con gli spermatozoi del marito Gianni (Lillo); Livia così conoscerà, ma di nascosto da tutti, tranne che dal compagno Fabio (Giorgio Pasotti) e dall’altra coppia interessata, gioia e dolori della maternità, mentre Tina, che deve simulare invece una gestazione inesistente, recita da futura mamma davanti alla famiglia ma si prova anche i pantaloni di pelle che la sorella sexy per il momento non può indossare. Proprio nella regia, sia come gestione delle sequenze che come direzione degli attori (anche se le sbandate nel macchiettistico fanno parte della natura della commedia), risiedono le maggiori debolezze del film, ancora più palesi proprio dove l’Andreozzi sente la necessità di vivificare la narrazione con qualche artificio retorico (split screen, scene fantastiche, movimenti di macchina, il passare dei mesi in una sorta di time lapse, ecc.) o con l'espediente delle canzoni pop un po' vintage. Ma è degno di rispetto il tentativo, nella scrittura e nella messa in scena, di adottare un punto di vista femminile ma laico sul tema, fornendone al contempo una sorta di panoramica paradigmatica. La donna che agogna alla maternità, quella che la rifiuta a priori in nome della propria indipendenza, la cattolica che sforna figli a maggior gloria del Signore, la single che sogna di fabbricarsi da sé l’uomo della propria vita, le madri felici o stressate, la coppia omosessuale che ha concepito i figli all’estero, la procreazione assistita, l’adozione (e perfino il rapimento: ma stavolta è una donna italiana bianca e borghese a rapire una bambina rom): il tentativo di dar voce ad una pluralità di voci, di approcci alla genitorialità, di visioni alternative, ma anche la voglia di dar vita a personaggi secondari e di dare un minimo di spessore ai comprimari, sono talmente pressanti da indurre l’autrice a rischiare cadute di ritmo (la scena con i tre maschi protagonisti e momentaneamente single), a interrompere addirittura il climax finale per introdurre tra parentesi un nuovo personaggio proprio in sottofinale (la partoriente interpretata da una stralunata Arisa), o a inserire nel finale un colpo di scena che stressa ulteriormente le geometrie genitoriali e sororali già pericolosamente messe in tensione. Il film ha il coraggio di non risolversi, come sarebbe stato facile e ovvio, in un’apoteosi della maternità. Se una morale c’è è più o meno questa: avere figli (con le responsabilità e le fatiche, con le gioie e le gratificazioni che comporta) è un diritto di tutti; non averne, pure. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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