THE GREEN BORDER (Zielona granica) di Agnieszka HollandParadossalmente, un film che contiene un colore nel titolo poi, a parte la sequenza d’apertura in volo sopra i boschi, è in bianco e nero. Anzi, nerissimo. Il film tocca un tema doppiamente scottante: non solo quello delle migrazioni, che tocca da vicino anche il nostro Paese, in prima linea sul confine d’acqua del Mediterraneo (nella stessa Mostra del Cinema di Venezia in cui The Green Border riceveva il Premio speciale della giuria, Io capitano di Matteo Garrone, che descrive il viaggio dal Senegal alle coste italiane di due giovani migranti, ha vinto il Leone d’argento per la miglior regia e il Premio Mastroianni per il miglior attore emergente) ma anche quello dell’uso strumentale e cinico dei migranti usati da politicanti senza scrupoli per destabilizzare i vicini nemici. Il film si svolge ai nostri giorni (potrebbe svolgersi anche ora, nel momento in cui sto scrivendo, e anche forse nel momento in cui voi mi leggerete) in Europa, intorno alla frontiera tra Bielorussia e Polonia. Nel prologo un gruppo di viaggiatori vola in aereo verso un aeroporto bielorusso. Sono profughi da Paesi in guerra o problematici, ma hanno comprato regolarmente il biglietto aereo per la Bielorussia, da dove poi la maggior parte di loro conta di raggiungere varie destinazioni europee, dove spesso hanno già parenti o conoscenti che li aspettano e che li aiuteranno. Scopriranno ben presto che sono stati crudelmente ingannati: il regime filoputiniano di Lukashenko attira i profughi facilitandone l’arrivo solo per spingerli, anche con l’uso della forza e della violenza, oltre il confine polacco solo per mettere in crisi il vicino, membro dell’Unione Europea e della Nato e quindi nemico, ora più che mai nella contrapposizione attuale tra la Russia e i rispettivi alleati e l’Ucraina sostenuta dal fronte dei Paesi occidentali. I profughi sono pedine inconsapevoli, incolpevoli, ignare, che sono sfuggite a guerre e altre calamità solo per diventare contemporaneamente armi e vittime in un’altra guerra a loro ignota e dalle logiche a loro sconosciute. Da una parte e dall’altra della frontiera si fronteggiano eserciti in assetti di guerra, impegnati unicamente a rimpallarsi cinicamente i profughi (tra i quali ci sono anziani, donne, anche incinte, bambini), non senza approfittare della loro posizione autoritaria per depredarli in tutti i modi possibili, picchiarli, angariarli e umiliarli. Le didascalie impassibili, che ci hanno dapprima informati che siamo in Europa e che scandiscono laconicamente i rimpalli al di qua e al di là delle recinzioni di filo spinato che segnano il confine, altrimenti invisibile, introducono di volta in volta i nuclei di personaggi protagonisti: una famiglia siriana, con bambini al seguito, cui si aggrega una donna afgana; una guardia di frontiera sempre più in difficoltà nell’eseguire i compiti inumani che gli vengono affidati; gli attivisti polacchi che cercano di portare soccorso ai profughi (ma senza poterli trasportare o guidare, per non rischiare pesanti conseguenze giudiziarie); una psicologa che abita vicino alla zona speciale e che si fa coinvolgere prima emotivamente e poi operativamente dopo che ha visto morire un bambino sotto i propri attoniti occhi. Il film compone quindi un mosaico narrativo di cui sono protagonisti di volta in volta le vittime, aguzzini riluttanti (circondati da colleghi però assai convinti ed motivati, entusiasti del potere che è loro dato nei confronti degli indifesi), e i volontari che cercano di tradurre in azione concreta i propri sentimenti umanitari. Lo stile narrativo, soprattutto quando il racconto si concentra sui profughi, è frenetico, convulso, pieno di movimento, violenza, disperazione, angoscia, in gran parte nell’ambiente oscuro dei boschi, con sequenze spesso ambientate nel buio della notte. L’uso del bianco e nero contribuisce a rendere le immagini simili a quelle tragicamente associate alle memorie del nazismo, con uomini armati e urlanti, cani, filo spinato, deportazioni, violenze gratuite su vittime inermi (in qualche sequenza si sfiorano gli stilemi dell’horror, come nella sequenza statica in cui una donna, in un campo aperto, crede di aver trovato aiuto in un contadino, che invece, mentre lei si allontana, inquadrato di spalle, prende il cellulare, presumibilmente per denunciarla, e inducendola ad una nuova fuga disperata). La Holland non fa molte differenze tra bielorussi e polacchi, entrambi impegnati in operazioni disumane, che hanno fini diversi, ma estremamente simili nella brutalità e nel cinismo dei metodi. La regista e sceneggiatrice non risparmia neppure l’Unione europea, che preferisce ignorare quanto accade ai suoi confini, dove persone incolpevoli vengono trattate come animali e talvolta spinte verso la morte per incidenti, stenti, violenze subite. Un’immagine ci mostra icasticamente i superstiti della famiglia, falcidiata dalle avversità, seduti sconsolatamente davanti ad un muro dov’è dipinto un cerchio di stelle, simbolo di quella Unione europea che avrebbe dovuto garantire a tutti (o solo ad alcuni dei suoi cittadini?) libertà, eguaglianza e fraternità. Ma i suoi strali sono rivolti soprattutto verso i connazionali polacchi che, ai giorni nostri, si comportano come nazisti nell’ambito di un’Europa che dovrebbe essere il faro della civiltà e della democrazia (Europa Europa si intitolava già un suo film del 1991, che raccontava le peripezie di un ebreo tedesco sballottato durante la Seconda guerra mondiale tra la Germani nazista, la Polonia e la Russia bolscevica). Oltre alle azioni violente, la Holland mette in scena anche due scene parlate dal forte sapore politico: una concione fatta ad un ufficiale della polizia di frontiera ai propri uomini, per incitarli all’odio e al disprezzo, e una veemente invettiva contro la leadership polacca, urlata da un uomo con problemi psicologici, ma probabilmente molto condivisa dalla Holland. E’ interessante che il governo polacco abbia risposto al film (che ha avuto un ottimo esordio in patria in termini di spettatori) con azioni di boicottaggio e ritorcendogli contro (chissà in base a quale logica perversa) le accuse di nazismo. Se il Ministero dell’Interno ha obbligato a proiettare nei cinema, prima del film stesso, un video governativo che smentisce preventivamente quanto verrà poi mostrato nel film, lo stesso presidente Duda lo ha commentato con la frase “solo i porci si siedono al cinema”, rievocando uno slogan utilizzato contro i film di propaganda ai tempi del nazismo. Detto questo, a parte un approccio che vuoi per la struttura a mosaico vuoi per la distanza che la Holland mantiene dai suoi personaggi, anche nelle scene più convulse, non favorisce l’empatia con i protagonisti (è probabilmente una scelta di sobrietà: si assiste inorriditi ma a ciglio asciutto), ci sono un paio di cose che non mi hanno convinto nel film. La prima è un peccato (ammesso che lo sia) veniale: dopo un solo giorno dall’arrivo il patriarca della famiglia, che indossa le proprie scarpe, ha già le piante dei piedi orribilmente piagate. Mi è sembrata un’anticipazione un po’ forzata degli orrori che seguiranno. La seconda mi ha disturbato di più: nel finale tutti i protagonisti (per lo meno quelli sopravvissuti) si ritrovano al confine insieme ai profughi provenienti dall’Ucraina. La Holland intende sottolineare il diverso atteggiamento dello Stato polacco, che respinge crudelmente qualche decina di migliaia di profughi mediorientali, ma accoglie generosamente (una generosità che, proprio in queste ore, sta entrando anch’essa in crisi) milioni di profughi della vicina Ucraina. Ma nel rappresentare i profughi ucraini si mostrano, con un’insistenza certamente non casuale, gli animali domestici portati in salvo dai profughi ucraini: cagnolini, gatti, uccellini - che patiscono il freddo. Le situazioni di partenza sono certamente diverse, ed era giusto mettere in rilievo la differenza di trattamento tra i profughi ucraini e quelli extraeuropei; ma in questo modo mi pare che la stessa Holland rischi di classificare a sua volta i profughi in profughi di serie A e di serie B: da una parte i reietti mediorientali, i cui vecchi e bambini muoiono nel tentativo di attraversare il confine, dall’altra gli ucraini, che invece si prendono il frivolo lusso di salvare gattini e uccellini, forse dimenticando che anch’essi fuggono da una guerra d’invasione, da distruzioni, bombardamenti, violenze, deportazioni, dopo aver magari perso casa, beni e persone care.
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Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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