ALPS (Alpeis) di Yorgos LanthimosE il copione? Il copione dov’è? Dentro di noi, signore. Il dramma è dentro di noi. da Sei personaggi in cerca d'autore di Luigi Pirandello Lanthimos si ritrova ad essere un “caso” nella distribuzione italiana. Autore in patria intorno agli anni ‘10 di un cinema acido e anticonsolatorio (che gli vale comunque l’attenzione della critica nazionale e internazionale, con premi a Cannes e Venezia, candidature all’Oscar e ai Bafta) acquisisce più larga fama con produzioni internazionali come The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro, La favorita, con attori come Colin Farrell, Nicole Kidman, Rachel Weisz, Emma Stone o Olivia Colman. Questo ha fatto sì che Lucky Red, con indubbio coraggio, nella difficilissima stagione del Covid, avara di titoli, abbia deciso di recuperare il suo secondo e terzo film, rispettivamente Kynodontas e Alps, per distribuirli in Italia rispettivamente 11 e 9 anni dopo la loro realizzazione (nel caso di Alps viene accreditata anche una prima e fantomatica uscita tra Natale e Capodanno del 2016). Caso strano, escono così a distanza di nemmeno un mese l’uno dall’altro due film dello stesso regista, nessuno dei quali nuovo. Come in Kynodontas (di cui mi sono già occupato in Into the Wonderland e di cui mi occuperò più diffusamente nel numero di novembre di SegnoCinema), anche in Alps, l’ultimo arrivato, tira aria di famiglia. Ma la famiglia per Lanthimos sembra essere quella della tragedia classica, funestata da lutti e dolori proprio quando dovrebbe essere luogo di protezione e consolazione. Anzi, i film del regista greco sembrano piuttosto proporsi di confutare qualsiasi tentativo umano di scongiurare la catastrofe che incombe sulla famiglia, vuoi per il male e la corruzione che allignano fuori di essa - ma che in essa trovano il modo di deporre uova fatali - ,vuoi per l'ineluttabilità del decadimento e della morte, vuoi per l'inadeguatezza e la fallacità degli esseri umani. Fallisce il tentativo pedagogico segregazionista di Kynodontas, quello socio-sentimentale di The Lobster, fallisce il tentativo di mettere la propria famiglia al riparo dalle conseguenze dei propri errori e della terribilità del fato ne Il sacrificio del cervo sacro. Alps presenta un altro esempio, altrettanto ingenuo e grottesco, velleitario e fallimentare,ridicolo e tragico, di sfuggire allo scacco della condizione umana mediante simulacri grotteschi di famiglia. Di nuovo, come già in Kynodontas, la famiglia è un set tragico e grottesco, dove si muovono personaggi che sembrano in cerca di un proprio autore; ma a differenza che nel film precedente, dove solo i genitori conoscono il copione della rappresentazione, qui tutti sembrano conoscere le battute e i ruoli - tranne, per lungo tratto, gli spettatori - ma l'esito non è meno rovinoso. Non dirò di più della trama, perché Lanthimos gioca appunto a spazzare gli spettatori, presentando per oltre mezz'ora di film personaggi la cui reciproca relazione è incomprensibile, o ambigua,o ingannevole, con dialoghi astrusi e forzati. Io purtroppo avevo letto due righe di trama, sufficienti a farmi sapere da subito quello che l'autore vuole farci capire gradualmente e con indizi ambigui, che spiazzano lo spettatore fino all'ultimo fotogramma. Quello cui assistiamo é quindi una recita recitata male, una sceneggiatura mal scritta, con battute vuote e ripetitive. Per lungo tempo siamo portati a confondere la sciatteria della messa in scena con quella stessa del film. Ma ancora una volta Lanthimos propone superfici scabre e sgradevoli, sotto le quali sì nascondono profondità sconvolgenti. Di fronte alla nostra caducità, alla potenza del dolore, all'ineluttabilità della perdita, non c'è recita che tenga e che consoli, non ci sono Alpi abbastanza alte sulle quali trovare riparo.
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LE SORELLE MACALUSO di Emma DanteEmma Dante torna a parlare di donne, di famiglie, di Palermo, della danza della vita e della morte. Le sue sorelle Macaluso nel passare dalla dimensione del teatro (dove sono state protagoniste di uno spettacolo molto premiato) a quella del cinema, si riducono di numero (a teatro sono sette, al cinema cinque) acquistano concretezza, una maggiore linearità drammaturgica, e soprattutto uno spazio. Che è lo spazio domestico, quello della casa di famiglia, sesta protagonista del racconto, mostrata più volte anche da vuota, quando i personaggi sono assenti, in inquadrature in cui sembra di sentirne il respiro, inudibile quando le sorelle sono all'interno. Sembra quasi di sentire il rumore impercettibile delle ante del credenzino che si vanno screpolando, mentre il tempo passa inesorabilmente. Un respiro impossibile da percepire quando le donne sono in casa: tra parole, strepiti, litigi, recriminazioni, ma accomunate da un rapporto di sorellanza quasi simbiotico. La casa, che diventerà man mano il regno dei ricordi, dei fantasmi, dei ritorni, è coabitata dai piccioni allevati nella colombaia, con la loro vita elementare ed enigmatica, simbolo di libertà ma anche di legame indissolubile alla casa alla quale puntualmente ritornano. Quello delle Macaluso è infatti un mondo sostanzialmente chiuso e quasi autosufficiente, dove i pochi personaggi esterni alla famiglia (il commerciante di piccioni; la ragazza di cui Maria è innamorata; il marito di Katia) compaiono una sola volta (l'amante di Pinuccia, per dire, è poco più dei rumori di un amplesso sopra un letto immerso nella penombra). Un mondo tutto al femminile, quindi, senza padri o madri, quasi senza figli (su cinque sorelle solo una ha famiglia e prole), vitale eppure già consegnato dall'inizio a un destino di morte e di malattia. La giornata perfetta della prima parte del film, dopo che le sorelle hanno intrapreso un viaggio verso il mare lungo come un'odissea, piena di sole, di mare, di voglia di seduzione e d'amore, dove la danza libera e gioiosa di Maria contagia prima le sorelle e poi anche gli altri bagnanti, si conclude con una tragedia che segnerà per sempre la vita della strana famiglia. Il tempo è all'opera con la sua azione distruttiva, e lo si vede in particolare nelle sequenze chiave di ciascun segmento: dalla danza amorosa di Maria con la sua ragazza nel pieno sole di un'arena cinematografica estiva al lugubre piano-sequenza in cui la stessa, vestita con un grottesco tutù, si ingozza di pasticcini, fino alla devastazione e alla spoliazione della casa di famiglia. Queste sorelle nubili e orfane, orbate anche dalla perdita di un anello della loro ineluttabile catena di affetti e di complicità, sembrano infatti trascinare la propria vita verso la morte che prima o poi deve arrivare, tra una casa ormai difficile da mantenere, le malattie che le minano, i sogni che si dissolvono, i ricordi chiusi dentro un cassetto che fa ogni volta male aprire. La Dante ambisce a raccontare l'arco di cinque vite, mostrandoci le sorelle in tre diverse epoche della loro storia (schematicamente infanzia, maturità e vecchiaia) in meno di un'ora e mezza, comprimendole in tre momenti chiave (una giornata al mare, una riunione di famiglia, un funerale) che occupano quasi per intero le tre parti del film. Il racconto è quindi dominato dalla figura dell'ellisse narrativa, e l'autrice lesina le coordinate utili allo spettatore per orizzontarsi. Nel primo segmento i personaggi che emergono sono sostanzialmente tre, mentre alle altre due sorelle viene dedicata una definizione più vaga; e di capitolo in capitolo le interpreti cambiano, con qualche effetto anche di spiazzamento (la carina Maria si trasforma improvvisamente in una donna brutta e malata, la procace Pinuccia si trasforma nella figura di un'interprete raffinata come la Finocchiaro). La semplificazione e la scrittura quasi minimalista (il terzo segmento è pressoché senza dialoghi), rischiano in qualche momento l'oscurità e il calo di tensione narrativa, e il film finisce forse per assumere troppo presto una dominante funerea che smorza subito l'impeto vitale in un percorso penitenziale. LA CANDIDATA IDEALE di Haifaa Al-MansourMaryam, medico in una città di provincia, pensa di essere la candidata ideale per esercitare in un grande ospedale della capitale Riad; invece, all'inizio quasi per caso, poi con sempre maggiore convinzione, si ritrova ad essere la candidata ideale alle elezioni del consiglio comunale. Ma essere donna in Arabia Saudita continua ad essere un problema, sia che si eserciti una professione sia che si decida di candidarsi alle elezioni amministrative. Esteriormente egualitaria (gli uomini vestono tutti la tunica bianca, portano tutti in testa la kefiah a quadrettini bianchi e rossi, quasi tutti portano la barba; le donne sono tutte coperte da pesanti abiti neri o di colori molto scuri), la società araba è invece profondamente discriminatoria, innanzitutto sulla base del genere sessuale. Maryam non può fare un viaggio senza il permesso del suo tutore maschio (in genere si tratta del marito o del padre); non è abbastanza sostenuta dai suoi superiori in ospedale, dove succede che pazienti maschi si rifiutino di farsi curare da un medico donna; e alle elezioni molti uomini si rifiutano persino di prendere in considerazione un candidato di sesso femminile; e molte donne anche, rassegnate ad una vita assoggettata all'autorità e all'influenza dei maschi di famiglia e vissuta perennemente nell'ombra e in secondo piano. Eppure l'Arabia Saudita ha fatto passi da gigante per quanto riguarda la condizione della donna, rispetto a soli pochi anni fa, quando la regista diresse il suo bel primo lungometraggio, La bicicletta verde. La protagonista de La candidata ideale infatti guida la macchina da sola, usa il cellulare, esercita una professione in cui ha a che fare con utenti maschi e ha addirittura uomini subordinati alle sue dipendenze, cose tutte impensabili fino a qualche anno fa. Eppure in certe occasioni deve ancora coprirsi completamente con il niqab (quando gira il suo video elettorale le viene consigliato di coprirsi l'unica parte del suo corpo lasciata scoperta dal tabarro nero che cancella completamente la sua immagine, cioè gli occhi), la sua professionalità è sottovalutata, il suo impegno pubblico per la comunità fatto oggetto di pettegolezzi e di irrisione. Eppure Maryam propone come sua priorità programmatica (a lungo rimane l'unica, prima che si aggiunga la lotta contro la mentalità repressiva e retrograda contro le donne...) un intervento semplice, concreto, utile per tutti e a tutti comprensibile: l'asfaltatura di un tratto di strada antecedente l'ingresso al pronto soccorso, dove le ambulanze non riescono neppure a transitare. La regista segue la sua protagonista (una Mila Al Zahrani dal viso bello e dolce alla Audrey Tatou) con uno sguardo partecipe, solidale e ironico, senza nascondere le ingenuità di una candidata per caso che costruisce la sua campagna elettorale seguendo i consigli dei tutorial scovati in Rete. Più che la messa in scena, che rimane corretta ma semplice, con una fotografia abbastanza scialba, nonostante gli apporti tecnici della coproduzione tedesca, il film si fa apprezzare per una sceneggiatura ben costruita, che evita i cliché narrativi più facili e prevedibili, anche nel finale, e schizza significativi ritratti degli altri membri della famiglia di Maryam: la sorella maggiore, fotografa di matrimoni, che inizialmente l'aiuta per mero interesse; la sorella minore, che si oppone strenuamente all'avventura della sorella, memore della sua infanzia segnata dalla "vergogna" di una madre ormai scomparsa, ma che in vita esercitava la scandalosa professione di cantante; e il padre, un musicista che fa mancare il proprio appoggio alla figlia (che ne trarrà però un’ulteriore occasione di emancipazione) perché impegnato a sua volta in una tournée di concerti che riporta la musica tra la gente, a cui per tanto tempo è stata sottratta e proibita, con l'ambizione di entrare a far parte della costituenda orchestra nazionale saudita. È ovviamente questo il modo per ricordare l'importanza dell'arte (e del rinascente cinema saudita), della cultura e delle tradizioni per l'identità di un popolo. Una speranza per il futuro, di cui ciascuno a suo modo Maryam e suo padre, le interpreti del film, la regista Haifa Al-Mansour e La candidata ideale fanno pienamente parte. Nell’ultima sequenza, dall’alto e a distanza, vediamo la macchina di Maryam immettersi in una strada trafficata: non è che una macchina tra le tante, ma finalmente l’energia, il talento e la ricchezza delle donne possono cominciare a scorrere nelle vene della società araba. LABOUR FILM FESTIVAL |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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