LA ZONA D'INTERESSE (The Zone of Interest) di Jonathan GlazerIl tema della rappresentazione dell’Olocausto nel cinema ha suscitato alcune delle più celebri controversie nella storia della riflessione sul cinema. Un evento come l’Olocausto, per le sue proporzioni “smisurate”, per la sua atrocità, per la sua terrificante razionalizzazione dell’abominio, è apparso fin da subito un tema “fuori scala” rispetto all’umano, e a maggior ragione inenarrabile e non rappresentabile, se non attraverso la voce diretta (gli scritti, i disegni, le foto, le riprese) dei sopravvissuti e dei testimoni. Nel 1961 Jacques Rivette dai Cahiers du Cinema innesca una celeberrima polemica sulla carrellata in avanti con cui Gillo Pontercorvo inquadra la morte della protagonista sul filo spinato elettrificato in Kapò; nel 1997 l’uscita de La vita è bella di Roberto Benigni suscita lo sdegno di molti per aver raccontato la deportazione in chiave di commedia (fiabesca); e se qualche anno prima con Schindler’s List Steven Spielberg aveva sfidato il tabù della messa in scena, spostando in là i limiti della visibilità, più recentemente László Nemes ne Il figlio di Saul (che a Cannes si aggiudica il premio speciale della giuria, esattamente come La zona d’interesse otto anni dopo, e che ha anche vinto un Oscar, come potrebbe accadere tra qualche giorno al film di Glazer) concentra il focus sulla soggettività disperata e distorta di un sonderkommando (addetto alla pulizia dei forni crematori), sfocando tutto l’irrappresentabile contesto circostante, in un pudore della visione che è disperata rimozione da parte del protagonista, e rinuncia dell’autore a rappresentare l’oscenità della morte; mentre è ancora un autore ungherese, Kornél Mundruczó, nel 2021, a tradurre il tema in uno stilizzato, beckettiano teatro dell’assurdo nel primo segmento del notevole Quel giorno tu sarai, ambientato in una claustrofobica no man’s room impestata di morte da cui rinasce inaspettatamente e insperabilmente la vita. Se l’Olocausto e la messa in scena dei campi di sterminio di massa sono irrappresentabili, Glazer sceglie allora, semplicemente, di non rappresentarli. I primi minuti del film scorrono su uno schermo totalmente nero e la gran parte della narrazione successiva si svolge infatti nella cosiddetta “zona d’interesse”, cioè nella fascia di territorio “speciale” compresa nel raggio di 40 chilometri intorno alle fabbriche della morte naziste. L’epicentro del racconto non è pertanto il lager, che chiude come sfondo l’orizzonte di moltissime sequenze e di cui non vediamo mai l'interno (c’è un’unica inquadratura dentro al campo, che mostra solamente, dal basso, il volto di Rudolf che guarda in alto verso un cielo senza colore annebbiato dal fumo, che diventa infine un uniforme campo bianco e lattiginoso), ma la dimora con giardino di Rudfolf Höss, comandante del lager di Auschwitz. I protagonisti non sono deportati e aguzzini, ma lo zelante funzionario della morte e la sua bella famigliola (moglie, figli di diverso sesso ed età), suocera e personale di servizio. Tutto ne La zona d’interesse sembra ribaltarsi nel suo contrario logico, e la tragedia immane ed epocale per l’umanità si trasforma nel racconto nell’idilliaca elegia di una vita domestica vissuta in una casa confortevole, in un giardino ordinato, fiorito e profumato, nel godimento della natura circostante, con bagni al fiume e passeggiate a cavallo tra boschi e piante. Anche la tradizionale iconografia stagionale viene ribaltata: al posto dei rigidi inverni gelidi e innevati che sembrano spesso un must nei film ambientati nei campi di concentramento, per gran parte del film impera un’estate di sole splendente, piena di fiori e di vegetazione rigogliosa. Ma quello che è rimosso dalla visione ritorna in gran parte attraverso il sonoro (e solo marginalmente per qualche particolare che si insinua nella visione). Solo pochi metri, una strada da attraversare, separano infatti la dimora degli Höss dalle mura e dalle torri del lager, e tutto il film è infiltrato in modo perturbante dai rumori che provengono da al di là del muro. Urla umane, latrare di cani, il sordo rumore di fondo di una macchina della morte in funzione giorno e notte. Pochissimi elementi tangibili e visibili trapelano dal lager verso l’ambiente circostante: un osso portato dalla corrente, la cenere dispersa nell’aria che si deposita nel fiume e insozza i corpi dei bagnanti, i denti d’oro strappati ai deportati e conservati in casa come un piccolo tesoro di famiglia. Tra una faccenda domestica e l’altra, la coltivazione del giardino e le escursioni nella natura, i giochi e gli scherzi dei bambini, c’è il piacere delle mogli degli ufficiali che chiacchierano tra loro dei beni trafugati agli ebrei e spartiti tra loro; e c’è il dovere di Rudolf, che nel salotto di casa discute con i tecnici i modi con cui efficientare e implementare l’attività dei forni, come si trattasse di un qualsiasi processo industriale, attraverso migliorie al ciclo di combustione/raffreddamento, carico/scarico delle camere crematorie opportunamente disposte ad anello, per velocizzare la distruzione dei cadaveri della grande maggioranza dei deportati inadatti a lavorare come schiavi al servizio dei dominatori tedeschi. Rappresentazione icastica della banalità del male, la normalità della vita domestica diventa per lo spettatore - letteralmente spiazzato - in ogni suo aspetto, anche minimo, un’allusione perturbante a quello che si avviene a qualche decina di metri di distanza, troppo vicino per non sentirne il rumore incessante: se Brecht diceva che “parlare d’alberi è quasi un delitto, perché su troppe stragi comporta il silenzio”, qui ogni volta che si parla di fiori da raccogliere dalle siepi (in modo responsabile per non compromettere “il bene della comunità”), di animali domestici, di giochi di bambini, del clima, di abiti o gioielli, del “paradiso” in cui vivono gli Höss e dei loro sogni realizzati, o ancora di fiabe della buona notte dove si parla di cuocere vivi Hansel e Gretel in un forno, tutto rimanda, per il disagio e il disgusto dello spettatore, alla disumanità e all’atrocità nascosta al di là del muro, sopra il quale si alza perennemente il fumo di chi è condannato, senza colpa, “a passare per il camino”. Al buio, attraverso le finestre rilucono i bagliori notturni che riescono a sgomentare la suocera, alloggiata nella ricca casa della figlia e un tempo donna di servizio delle famiglie ebree che poco più in là stanno bruciando nei forni crematori. Nella notte, reale o apparente, è relegato l’unico atto di umanità e di solidarietà mostrato nel film: una giovane ragazza, trasformata in un fantasma dalle riprese con la telecamera termica , che abbandona dei frutti sui campi dove i deportati saranno portati a lavorare. Nel mondo all’incontrario vigente ne La zona d’interesse, è l’unica trasgressione al regime realistico della rappresentazione (quasi immagini di un mondo “alieno” che sembrano rimandare all’universo astratto e e stilizzato di Under the Skin): si direbbe l’eccezionalità del bene impressa sul negativo della pellicola, contrapposto al positivo della banalità del male imperante. Il regime stilistico del film, di perfezione kubrickiana, è ugualmente radicale e coerente nella tecnica di ripresa, che evita i movimenti di macchina, a parte pochissime carrellate laterali, in genere parallele al grigio muro invalicabile. Per il resto, pur presentando un montaggio nella norma, con sequenze brevi e paratattiche, che includono eccezionalmente inquadrature non naturalistiche come quelle dall’alto (in cui i gerarchi nazisti discutono della deportazione di ulteriori centinaia di migliaia di ebrei ungheresi), i personaggi sono sempre imprigionati nelle scatole visive della camera fissa, che si fa particolarmente opprimente nella scena finale della discesa delle scale da parte di Rudolf, che quasi in una trance onirica sembra “vedere” - a loro volta inscatolate e musealizzate in asettiche vetrine espositive - gli inerti residui del suo atroce lavoro. Ancora una volta, il problema principale di fronte al ricordo insopportabile dello sterminio, è tenere tutto pulito e in ordine.
Coprotagonista necessaria della tragedia invisibile è Hedwig, la moglie di Rudolf, magnificamente resa con movimenti goffi da Sandra Hüller (che nella stagione 2023/24 ha accumulato premi e candidature sia per La zona d’interesse che per Anatomia di una caduta), una donna mediocre ed egoista elevata dal rango di figlia di una donna di servizio a “regina di Auschwitz”, talmente innamorata del suo “paradiso” (dal quale a centinaia di migliaia avrebbero voluto in ogni modo fuggire per scampare alla morte) da combattere con tutte le sue forze per non esserne scacciata, al costo di rinunciare alla presenza del marito, trasferito ad altra destinazione. E’ in fondo questa la tragedia rappresentata nel film, non quella di milioni di persone sterminate nell’Olocausto, ma quella di una famigliola che rischia, a causa di un trasferimento burocratico vissuto come ingiusto, di dover abbandonare il luogo da sogno dove vive felice (per la cronaca, Höss fu impiccato nel 1947 nella “sua” Auschwitz – era stato lui a fare issare sul portone del campo di concentramento la scritta “Arbeit macht frei” -, dopo aver cercato di dissimulare la propria identità, essere stato condannato per crimini contro l’umanità ed essersi convertito in extremis al cattolicesimo). Film teorico, concettuale, filologicamente accurato, di freddezza e di rigore kubrickiani, La zona d’interesse interpella direttamente non solo i negazionisti, che – al pari dei famigliari di Höss che non attraversano i pochi metri di strada e non guardano cosa succede dietro il muro - si rifiutano di fare quei pochi metri di percorso intellettuale che li metterebbe di fronte all’evidenza inconfutabile delle testimonianze e delle prove materiali e documentali dello sterminio. Ma in maniera più indiretta chiama in causa la responsabilità qualunque spettatore. Non colpevole, non complice, ma – impotente - rannicchiato nella propria zona d’interesse e di comfort, impegnato a cercare di godere le proprie gioie individuali e particolari e a non guardare cosa accade al di fuori della propria casa e oltre il muro che lo protegge, dove il fuoco sta divampando. Noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, dove ci interpellavano i versi di Primo Levi; sforzandoci di crederci assolti - come i borghesi di De André che hanno paura di guardare, e si dicono che in fondo non sta succedendo niente - mentre invece siamo tutti - forse, in parte - coinvolti.
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THE HOLDOVERS - LEZIONI DI VITA di Alexander PayneIl prof. Hunham di The Holdovers potrebbe essere in fondo una variante o una reincarnazione del Miles Raymond di Sideways (2004): entrambi i film sono scritti e diretti da Alexander Payne (non a caso figlio di un docente di Yale e di un'attrice) e interpretati da Paul Giamatti, che in entrambi i casi interpreta il ruolo di un insegnante “depresso, introverso e insicuro con le donne”, ma animato da una passione esclusiva (qui la storia antica, nel film del 2004 l'enologia – e in entrambi i casi l'apertura di una bottiglia pregiata segna una delle sequenze simbolicamente significative del racconto).
D'altra parte una certa affinità ce l'hanno perfino i rispettivi titoli, indicativi della poetica delle piccole storie marginali e antispettacolari di Payne: se sideways è sinonimo di “strade laterali, secondarie”, holdovers indica qualcosa o qualcuno di residuale, tenuto in sospeso. Ad essere “in sospeso” sono in questo film i tre personaggi principali, in una prestigiosa scuola superiore, Barton, chiusa per le vacanze di fine anno: un professore solitario e inviso a tutti, Paul Hunham, cui viene affidato l'ingrato compito di custodire gli studenti che per un motivo o per l'altro non hanno potuto tornare in famiglia per le vacanze; lo studente Angus Tully, scaricato dalla madre che vuole passare le vacanze a Saint-Kitts da sola con il suo nuovo marito; e Mary Lamb, la capo cuoca di colore che ha appena perso il figlio, caduto in Vietnam, dopo che anche il marito era morto in giovane età per un incidente sul lavoro. La narrazione di Payne procede per sottrazione, mandando in vacanza prima tutto il corpo docente e gli studenti e poi gli altri quattro altri studenti rimasti a Barton, lasciando soli i tre protagonisti a vagare per gli ambienti e i corridoi freddi e vuoti del grande edificio scolastico in mezzo alla neve (come fosse un Overlook Hotel in versione scolastica, dove si aggirano due adulti, uomo e donna, più un terzo personaggio più giovane; c'è perfino l'arrivo del quarto personaggio, che in Shining era un capocuoco di colore – come Mary –, e che qui invece è un addetto alle pulizie che si chiama Danny, esattamente come il bambino del film di Kubrick); infine allontana anche Mary, che va a trovare la sorella incinta. Alla fine l'attenzione si concentra quindi sui due soli personaggi maschili, che sviluppano loro malgrado un rapporto putativo e controverso di padre e figlio, con una progressiva conoscenza e accettazione reciproca. In realtà si tratta di una struttura chiasmica, perché nell'ultima parte tornano Mary e tutti i personaggi della prima parte, mentre fino all'ultimo vengono introdotti nuovi personaggi determinanti. Payne si prende il suo tempo, un tempo che si direbbe “naturale” per osservare le dinamiche tra i suoi tre antieroi: il professore che nasconde dietro la severità e il sarcasmo le frustrazioni personali e professionali di tutta una vita, ma che finisce per scoprire dentro di sé una capacità residuale di empatizzare con il prossimo e perfino una certa dose di altruismo; la cuoca che sembra incarnare con il suo fisico corpulento un solido buonsenso e una fondamentale bonomia, incrinato però da un dolore silenzioso e indicibile; e il giovane studente moderatamente ribelle che a sua volta ha perso il padre (scopriremo solo alla fine come) e che ora si sente respinto dalla nuova famiglia, incompreso e incompiuto. Complice la solitudine e l'isolamento, l'atmosfera nonostante tutto natalizia e festiva con le relative canzoni languorose e sentimentali, e le prove sociali cui i tre saranno comunque sottoposti, il terzetto arriverà comunque a comprendersi e a volersi un po' di bene - malgrado le differenze sociali, economiche e anagrafiche di partenza - e a formare, almeno per quel breve lasso di tempo, una sorta di nuova e strana famiglia. Dopo la fantascienza sociale acida e disturbante di Dowsizing, The Holdovers, con i toni della commedia dolceamara, è alla fine un film imperniato sulla scoperta della gentilezza e della dolcezza, due caratteristiche più volte esplicitamente citate nel film. Il lavoro di Payne è di grande finezza nel rendere naturali e quasi impercettibili gli slittamenti con cui i personaggi finiscono per avvicinarsi gli uni agli altri; spiace un po' che gli accenti melodrammatici, tenuti sotto traccia per tutti il film, riemergano malgrado tutto nel finale, per offrire qualche rivelazione inedita non indispensabile e soprattutto per arrivare ad una scena di addio finale con un adeguato e sufficiente livello di pathos. Pensando alla filmografia di Payne, padre e figlio (qui solo putativi) si separano solo dopo un'evoluzione positiva del loro rapporto, come in Nebraska, e l'anziano Hunham parte sulla strada come il pensionato di A proposito di Schmidt. Il film, dall'impaginazione molto tradizionale, senza guizzi narrativi o registici particolarmente originali, è ambientato nel 1970, con acconciature maschili, estratti di trasmissioni televisive e canzoni a ricreare l'atmosfera dell'epoca (all'inizio ci sono perfino le false imperfezioni della pellicola e qualche scricchiolio nella colonna sonora); la guerra del Vietnam è un'eco lontana, che ha portato a morire il figlio di Mary ma che non riguarda certo i figli di papà che studiano nelle esclusive scuole del New England e che per le vacanze invernali partono in elicottero per andare a sciare o vanno ai Caraibi. Paul Giammatti (che con Payne esce dai suoi abituali panni di attore di contorno o di caratterista per conquistare la ribalta del protagonista, come già in Sideways) si crogiola (ma senza strafare) nel ruolo per lui congeniale del professore burbero ma dal cuore, al fondo, tenero; nella parte di Angus esordisce con autorevolezza Dominic Sessa, ombroso e vibratile come richiesto dal ruolo, e Da'Vine Joy Randolph dà alla sua Mary Lambert un'apparente placidità venata di malinconia e di dolore. Giamatti e la Randolph si sono già aggiudicato il Golden Globe e ora aspirano all'Oscar; The Holdovers è candidato anche come miglior film, oltre che per la sceneggiatura e il montaggio. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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