DON'T WORRY DARLING di Olivia WildeAnni '50. Alice è la moglie bella bionda e innamorata di Charles e sembra vivere nel mondo delle meraviglie. La giovane coppia vive in un moderno e utopistico villaggio nel cuore del deserto, dove Charles lavora al misterioso progetto Victory. Il mondo in cui vivono sembra il migliore tra quelli possibili, o quasi. Giovinezza, amore, appagante sesso coniugale, un lavoro gratificante (per Charles), lavori casalinghi eseguiti alla perfezione e shopping selvaggio (per Alice), una casa lussuosa e bellissima, un leader (e capo della comunità) carismatico e motivante, vicini e colleghi simpatici e allegri. Tranne Margaret, la cui apparente nevrosi apre delle crepe nella serenità di Alice, che comincia a sua volta a soffrire di incubi, allucinazioni da sveglia, flash di memoria, non si sa se reali o allucinatori. D'altra parte se un film si intitola Don't Worry Darling è prevedibile che ci sia qualcosa di cui doversi preoccupare, ma di cosa? Della salute mentale di Alice? O di qualcosa di molto strano che sta succedendo a Victory? Finché il mistero regge regge anche l'interesse dello spettatore, intrigato dal glamour dei protagonisti (Florence Plough e Harry Styles), dall'eleganza dei costumi e delle scenografie, dalla curiosità e dallo stile sovrabbondante (finché non rischia di diventare irritante) della Wilde, che mescola colori pastello di abiti e macchine, interni eleganti e soleggiatissimi esterni, riprese in plongée su paesaggi e dettagli, colonna sonora pervasiva e onnipresente che alterna melodie e canzoni jazzy, suoni inquietanti e vocalizzi ipnotici. L'ossessione della simmetria, della coordinazione, del controllo che vigono a Victory viene fatta propria anche dalla regista, che fa partire in elegante sincrono le colorate auto dei mariti mentre le rispettive mogli innamorate salutano dal prato davanti alle ordinatissime villette a schiera. Tutto troppo perfetto per essere vero, e perfino gli incubi di Alice sono elegantemente coreografi - tra eleganza, kitsch e horror - con lo stile dei musical di Busby Berkeley. Non a caso l'iconografia creata dalla regista predilige le linee sinuose e le figure circolari, caratterizzanti dello stile visivo ma anche investite di un portato metaforico. Il film inizia ad esempio con i circoli disegnati dall'auto di Alice e Charles nel deserto notturno e si conclude con la fuga di lei lungo una strada a spirale in salita che conduce a una costruzione circolare. Ma i problemi nascono dal momento in cui il mistero viene svelato. Non tutti i conti narrativi e simbolici tornano, comincia una serie di inseguimenti piuttosto convenzionali, e soprattutto il formidabile salto ontologico impresso al racconto è difficile da conciliare con uno sviluppo narrativo che sembra ignorarlo con una disinvoltura decisamente eccessiva. La Wilde e la fida sceneggiatrice Katie Silberman raccontano una trama che affonda le proprie radici nella fantascienza sociologica che dagli anni 50 in poi (da Dick a Levin) ha immaginato distopie del controllo sociale e la possibilità di vivere in dimensioni alternative e allucinatorie, poi ampiamente confluite al cinema (da La moglie perfetta a The Truman Show, con tutte le possibili varianti). Le tematiche sono sempre e più che mai attuali: il controllo sociale, la delega al leader carismatico, la chiusura delle società opulente che scelgono di ignorare cosa succede al di là dei loro confini per proteggere la propria confort zone, il ruolo della donna nella famiglia e nella società e le discrepanze tra immaginario maschile e femminile a tale proposito. La Wilde, anche attrice nel film, dove riveste un ruolo secondario ma significativo, cerca di rinnovare il tema della città ideale e della moglie perfetta mescolando e ribaltando i generi (d'altra parte che dietro i favolosi anni '50 si nascondesse il volto dell'orrore ce lo aveva già raccontato visionariamente David Lynch), con ambizioni stilistiche e iniezioni di regia, a volte interessanti a volte al limite dello stucchevole. La Pugh (Lady Macbeth, Midsommar, Piccole donne) è sempre una conferma, e Styles (che ha sostituito Shea LaBeouf durante una lavorazione piuttosto polemica e travagliata) esordisce sullo schermo con una prestazione dignitosa e con grande clamore mediatico.
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IL SIGNORE DELLE MOSCHE di Gianni AmelioSenza voler fare del riduzionismo biografico, c'è forse un nesso tra la storia personale di Gianni Amelio, cresciuto in assenza del padre, e la scelta dei suoi soggetti cinematografici. Lungo tutta la sua filmografia, infatti, da Colpire al cuore a Hammamet e ora a Il signore delle formiche, si ripete una stessa situazione archetipica, il confronto tra un'istanza “paterna” (padri, anziani o maturi, uomini di potere, maestri, ecc.) e un'istanza “filiale” (figli, bambini, ragazzi, giovani, discepoli, ecc.), in genere entrambe incarnati in personaggi maschili. Si tratta sempre di rapporti e relazioni problematici, spezzati, negati, o da inventare ex novo, in una reciproca sofferente ricerca di definizione e di identità La storia del caso Braibanti, intellettuale accusato di plagio (e unica persona nella storia giudiziaria italiana ad essere condannata per questo reato) nei confronti di un giovane coinvolto in una relazione omosessuale, deve aver quindi attirato Amelio per diversi motivi. C'è una storia emblematica ambientata nell'Italia retriva e bigotta degli anni '60 (con il sottotesto abbastanza palese che le cose non sono ancora del tutto cambiate da allora, tra vecchi e nuovi moralismi): e Amelio, tassello dopo tassello, sta componendo una propria Storia d'Italia, che parte dagli anni '30 del fascismo e passa attraverso il boom economico, l'emigrazione interna, gli anni di piombo, l'immigrazione, la parabola del craxismo, la deindustrializzazione, fino alla contemporaneità. E c'è soprattutto l'ennesima declinazione del rapporto padre/figlio, nella variante del “cattivo maestro”, seduttivo ma maieutico nel far emergere natura, inclinazioni e identità del proprio discepolo. Braibanti, ossessionato dal controllo (i formicai artificiali che lo appassionano tanto ne sono un'esplicitazione) plasma un proprio figlio/amante, e costui è ben felice di seguire chi gli sta indicando un percorso lungo il quale potrebbe conseguire la propria più piena realizzazione. Ma la famiglia, la società, la giustizia, l'opinione pubblica non sono d'accordo e imbastiscono il processo per plagio visto, che l'omosessualità non è neppure contemplata dai codici usciti dal fascismo. Come mediazione tra l'aspetto pubblico e quelle privato della vicenda, Amelio inserisce poi un terzo personaggio, quello del giornalista de l'Unità incaricato di seguire il caso. Amelio mette forse un po' di se stesso in ciascuno dei suoi personaggi: l'autorevolezza culturale e l'atteggiamento sdegnoso di Braibanti; l'ingenuità del suo giovane discepolo (che scopre la vita culturale e l'ambiente omosessuale romano più o meno negli stessi anni e alla stessa età del regista) e infine il ruolo di testimone coinvolto del giornalista (che solo nel finale accenna velatamente alla propria omosessualità; lo stesso Amelio ha aspettato la soglia dei 70 anni per il proprio coming out). Se il film ha un suo perché, nel rinnovare attraverso un aneddoto storico il dibattito mai concluso sul diritto a vivere liberamente la propria sessualità, e il tentativo di rappresentare tre sfaccettature della vicenda appare generoso, la narrazione è forse troppo frammentata nel seguire i tre protagonisti e le relative frustrazioni. E, nella foga di stigmatizzare anche i comportamenti di una sinistra prudente e reticente, azzarda anche quello che appare come un falso storico, adombrando a carico del direttore dell'epoca de l'Unità comportamenti tartufeschi e censori. Ma l'editoriale del giornale pubblicato in prima pagina in occasione della sentenza di primo grado del processo si può ancora reperire e leggere, ed è estremamente netto ed esplicito nel condannare un processo ingiusto e assurdo, espressione della peggior società retriva e moralista. Parlerò più diffusamente de IL SIGNORE DELLE FORMICHE nel numero n. 238 (in uscita a novembre) di SEGNOCINEMA. LA NOTTE DEL 12 di Dominik MollIn un paesino di fondo valle, nel distretto di Grenoble, qualcuno aspetta una ragazza che sta rientrando a casa in piena notte, le getta addosso del liquido infiammabile e le dà fuoco provocandone la morte. Chi può aver perpetrato un crimine così atroce? E perché? Ad indagare è la squadra di polizia del capoluogo, che comincia a scavare nella vita e dell’amicizia della ragazza. Una ragazza apparentemente semplice, dalle molte amicizie (alcune anche sbagliate) e dalle molto relazioni sessuali. Sull’interrogativo su chi sia l’autore del suo assassinio e su quali motivazioni lo abbiano spinto si impernia la narrazione, seguendo puntualmente l’indagine che si snoda nell’arco di diversi anni e la cui conclusione non è scontata (se non fosse per un improvvido cartello posto prima dell’inizio del film, che purtroppo dà un’inopportuna indicazione sullo scioglimento finale: tenete gli occhi rigorosamente chiusi prima che inizino a scorrere le immagini). Se la prima parte del film ha un impianto corale, dove l’attenzione si distribuisce tra la squadra di sei investigatori alle prese con il caso, la miglior amica della vittima (quella che la conosceva meglio e l’ultima ad averla vista a parte il suo assassino), i suoi genitori, i suoi amici ed ex-fidanzati, mano a mano l’attenzione si focalizza sul giovane ufficiale di polizia Yohan (Bastien Bouillon), per il quale la soluzione del caso diventa gradualmente una vera e propria ossessione. Alcuni personaggi rimangono indietro - i sospettati via via esclusi ma perfino il collega Marceau (Bouli Lanners), il più vicino al protagonista -, ed altri ne compaiono via via: nuovi sospetti, un combattivo giudice istruttore, una nuova collega. E’ forse la comparsa di questi ultimi due personaggi femminili ad aiutare il poliziotto a riconciliarsi con se stesso e con le proprie ossessioni, a farlo uscire dal proprio isolamento venato di moralismo (simboleggiato dai solitari giri notturni in loop su una pista ciclistica) per aprirsi a una prospettiva futura (nelle ultime immagini Yohan corre in bici all’aria aperta, di giorno, tra il cielo e le montagne). Il film, tra polar e noir, con una sensibilità molto francese per le dinamiche di gruppo e i rapporti interpersonali, racconta molto efficacemente il lavoro di indagine e di scavo dei poliziotti, costretti a gettare lo sguardo dove non vorrebbero, costantemente frustrati dalla mancanza di risultati e dalla sensazione di essere beffati dal male e dall’assenza di senso che rischiano di avere la meglio sui loro sforzi e sul mondo. Partendo da uno spunto poliziesco, la morte di una donna - come il Maigret che esce sui nostri schermi quasi contemporaneamente, ma anche come il precedente film di Moll, Only the Animals, dove l'involuto mistero di una scomparsa veniva sviscerato attraverso punti di vista differenti -, La notte del 12 finisce per costruire un ritratto di provincia in chiaroscuro (ma dove lo scuro prevale decisamente sul chiaro, come in Roubaix – Una luce nell’ombra), in cui entrano in gioco la promiscuità sessuale giovanile, sempre passibile di essere interpretata come una colpa in sé (come nel recente e anch'esso francese La ragazza con il braccialetto) ma anche una galleria di giovani maschi all’interno della quale molti (tra linguaggio violento, cinismo, indifferenza, atteggiamenti prevaricatori, gelosia, disagio psicologico) avrebbero potuto legittimamente vestire i panni dell’assassino. Il giovane Yohan vive la scoperta sconvolgente della latenza del male all’interno di ciascuno di noi letteralmente sulla propria pelle, quando sul suo volto disteso insonne la regia sovrappone le fisionomie e le parole dei tanti potenziali assassini. Quasi l’unico “effetto” che Moll si concede in una narrazione sobria e dimessa, efficacemente lineare, dove la tensione cresce malgrado l'assenza di veri e propri colpi di scena, dominata, indipendentemente dalla quantità di sequenze effettivamente ambientate di notte, dalle tonalità cupe del buio della ragione e dell'umanità. MAIGRET di Patrice LeconteHo l'impressione che Maigret non abbia avuto fortuna nelle ultime trasposizioni che l'hanno visto protagonista. Si va dall'esagitato visionario – inguardabile - di Castellitto (in una serie tv subito abortita), allo smilzo Rowan Atkinson, che decisamente non possiede il fisico del ruolo. Proprio quello che ormai si ritrova ad avere Gerard Depardieu, trasformato dall'agile e robusto contadino di un film “rivoluzionario” come Novecento alla corpulenza fin eccessiva ma adeguata ad incarnare in un film de papa la figura del più celebre commissario della letteratura francese, già portato sugli schermi da Jean Gabin, Gino Cervi, Bruno Cremer. Proprio qui, nella materializzazione del celebre investigatore nella massiccia corporeità del carismatico attore risiede molta parte dell'interesse del film, della curiosità del pubblico e probabilmente delle ragioni produttive che hanno portato alla sua realizzazione. Diciamo subito che la prova interprete è pienamente superata: Depardieu è un Maigret credibile, corpulento, torpido, che nasconde la sua sagacia, il suo acume, la sua capacità di penetrazione psicologica e la sua sensibilità umana dietro una maschera di ottusità quasi bovina. Altrettanto convincente è il disegno del personaggio, cui vengono assegnate alcune battute che ne delineano il carattere psicologico e morale. Maigret è un implacabile segugio che persegue l'accertamento della verità entrando fisicamente e mentalmente negli ambienti, nelle psicologie dei personaggi, nelle loro storie; ma non si erge mai a giudice né delle vittime e delle loro eventuali debolezze né degli assassini che assicura alla giustizia. Pur dotato di un solido e istintivo senso morale, Maigret non giudica mai, evita le condanne moralistiche, nel nome di un implicito umanesimo che compone ogni volta i puzzle delle storie su cui si trova ad indagare come a comporre i quadri di una gigantesca e variegata commedia umana, o come un romanziere che annoda i fili di una narrazione. Nel film il commissario accenna anche al suo metodo investigativo (smentito purtroppo dal film stesso), che non è fatto di trappole, di minacce, di azioni, ma che è basato essenzialmente sull'ascolto. Comprensibilmente, il film tenta di dare anche uno spessore esistenziale al personaggio che Simenon ha costruito nell'arco di decine di romanzi scritti e pubblicati nel corso di decenni, mentre il film deve giocare tutte le proprie carte nel limitato tempo di svolgimento di un lungometraggio: Maigret soffre pertanto una temporanea debolezza – un sospetto sul suo stato di salute che gli impedisce per qualche giorno di fumare le amate pipe – ma soprattutto rievoca la perdita di una figlia morta neonata, che se fosse sopravvissuta avrebbe avuto l'età della giovane morta, in modo da dare al protagonista un motivo più intimo e personale per indagare sulla morte della piccola provinciale arrivata a Parigi in cerca di fortuna. Ma le note dolenti iniziano quando gli sceneggiatori, lo stesso Leconte e Jerome Tonnerre, decidono di allontanarsi (moltissimo) dal testo originale del romanzo Maigret e la giovane morta (1954) per arricchire e speziare una storia sulla carta in sé abbastanza semplice e lineare, priva di colpi di scena e dal finale piuttosto affrettato. Un regista/sceneggiatore come Leconte, che aveva già portato sullo schermo il romanzo di Simenon Les fiancailles de M. Hire nel 1989, faceva ben sperare, e l'adattamento non ha necessariamente obblighi di fedeltà alla fonte letteraria. Ma il problema è che la sceneggiatura prende dal romanzo semplicemente lo spunto iniziale e qualche personaggio, ne elimina altri e ne inventa di nuovi, reinventa l'intreccio ma soprattutto accumula molti elementi (tra rapporti a trois e lesbici, vestiti inzuppati di sangue, comportamenti illogici dei personaggi, trappole a base di apparizioni fantasmatiche, e così via), che poco o nulla hanno a che fare con la lettera e lo spirito delle opere di Maigret, e che - quel che è peggio - sono zeppi di evidenti incongruenze narrative che rischiano di screditare la credibilità dello scrittore, addirittura citato – in modo del tutto indebito – tra gli autori della sceneggiatura, sulla quale avrebbe avuto molto probabilmente qualcosa da obiettare. Che qualcosa non vada per il verso giusto si capisce d'altra parte già nei primissimi minuti, in un prologo gratuito che non solo costituisce un inammissibile spoiler sulla spiegazione degli avvenimenti, violando la più elementare di qualsiasi giallista che si rispetti, ma è del tutto estraneo alla logica simenoniana, che vuole che personaggi, situazioni, ambienti e fatti emergano dal nulla, gradualmente, solo grazie alle pazienti ma testarde investigazioni di Maigret. Il tutto non è aiutato da una regia televisiva e piuttosto fiacca, con movimenti di macchina stranamente poco fluidi e una penuria di riprese in esterni che testimonia anche di una parsimonia produttiva, che nulla concede al potenziale fascino dell'ambientazione d'epoca parigina. BRIAN E CHARLES di Jim ArcherLa narrativa inglese è ricca di racconti che hanno per tema la creazione di una Creatura, un uomo artificiale generato dall'ingegno umano anziché dall'unione tra un uomo e una donna, dal Frankenstein di Mary Shelley agli androidi domestici di Macchine come me di Ian McEwan. Alla galleria di narrazioni si aggiunge ora Brian e Charles, diretto da Jim Archer ma in realtà coideato dagli sceneggiatori Chris Hayward (che recita restando invisibile sotto le spoglie del robot Charles) e David Earl, già inventore del personaggio per il palcoscenico e la radio. Stavolta al posto del dotto professor Frankenstein o delle multinazionali della robotica c'è un dropout di campagna, un inventore strampalato, che assembla un essere artificiale con materiali prese dalle discariche, come pezzi di manichino, lavatrici, guanti di gomma e così via. Ma che qualcosa non funzioni è evidente fin dall'incipit, quando la presentazioni slapstick delle strampalate invenzioni, fatte dallo stesso Brian, che si rivolge direttamente allo spettatore, non fanno ridere e nemmeno sorridere. Eppure era la parte più semplice e meno impegnata del film. Le cose infatti peggiorano con l'entrata in scena del robot allampanato e capriccioso che si autobattezza – chissà perché – Charles Petrescu, che impara ad esprimersi in inglese in una notte leggendo il dizionario (sic) e che si appassiona ai posti esotici e avventurosi che vede in tv. Siamo nell'ambito della fiaba, e sarebbe sbagliato avanzare pretese di realismo, di credibilità o di verosimiglianza, ma qui la scelta di un genere libero e giocoso sembra il pretesto per trascurare qualsiasi coerenza anche solo poetica o umoristica della storia, con una messa in scena trasandata in cui lo spirito di patata cerca di essere fatto passare per comicità puerile e naïf. Siamo al livello in cui il robot si agghinda grottescamente da vecchia signora inglese affermando di sentirsi “molto figo” o si imbastisce un gonnellino di paglia per imitare le hawaiane viste in tv, e vi assicuro che è più divertente a raccontarlo che a vederlo. Almeno per quanto mi riguarda, nulla funziona, il film non diverte, non appassiona, non commuove, non trasmette. Anche sul piano metaforico (ogni robot è sempre una metafora), Brian e Charles si limita a imbastire la solita storiella sul diverso che ha un'anima, sulla possibilità che anche l'ultimo degli sfigati possa trovare l'amore, e sul riscatto del debole e sottomesso contro le prepotenze dei bulli di turno. Esteticamente Brian e Charles persegue la sua impostazione pauperistica adottando uno stile visivo, paesaggistico e sonoro (anche il personaggio femminile sembra ispirato alla Bess del film di von Trier) che mi è parso debitore nei confronti de Le onde del destino (film con il quale ha ben poco a che fare, sia in termini tematici che di resa), mentre il bric-a-brac della messa in scena ricorda il cinema infantile e naïf di Gondry (senza a sua volta possederne la forza poetica). Complessivamente, sembra esserci una corrispondenza tra la Creatura di Brian e quella degli autori del film, ma in questo caso non si tratta di un pregio né di un complimento: e Brian e Charles il film finisce per essere altrettanto sgraziato, goffo, poco credibile e povero di spirito quanto il Charles messo insieme con rottami inservibili dal velleitario e inconcludente Brian. A lui alla fine gli autori concedono di trovare amore e dignità; non so se gli spettatori saranno altrettanto generosi nei confronti del film. LABOUR FILM FESTIVAL XVIII edizione |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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