LA FAVORITA (The Favourite) di Yorgos LanthimosBisogna dire che stavolta il materiale paratestuale (manifesto e locandine) del film è il prodotto di un artwork che si spinge al di là di quella che è la funzione consueta di questi materiali pubblicitari, cioè gettare un'esca agli spettatori/consumatori promettendogli emozioni di un certo tipo (per mezzo di immagini, colori, composizione grafica , ecc.) o la presenza di divi ben conosciuti, ma si spinge addirittura sul terreno dell'interpretazione colta dell'opera. A rappresentare iconicamente il film c'è infatti il profilo della testa della regina, distesa sulla schiena, con due minuscole figurette che si affannano sul suo viso. Oltre ad essere una palese citazione de I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, precursore della satira moderna e citato esplicitamente nel film nella sua qualità di notista politico, l'autore del materiale ha chiaramente individuato il corpo della Regina come campo di battaglia tattico e strategico sul quale si affrontano le due aspiranti favorite. Il corpo della regina Anna (sul trono prima d'Inghilterra e poi di Gran Bretagna e Irlanda dal 1702 al 1714), ultima degli Stuart, è il corpo dello Stato, ma è un corpo umano malato e infecondo, desideroso di ispirare piacere col proprio aspetto, ma anche di pretendere e ricevere piacere fisico. Oberata dalla responsabilità politica, tiranneggiata dai propri stessi capricci frutto di un arbitrio assoluto e incontrastabile, frustrata dal proprio aspetto fisico e dai propri malanni, Anna è l'emblema di una società nubile e sterile (la sua stirpe è rappresentata da 17 conigli, simulacri dei 17 figli abortiti o morti in tenerissima età - e tutti gli atti sessuali rappresentati nel film, da chiunque compiuti, sono varianti masturbatorie); una società autorefernziale e autosufficiente (il film stesso non si allontana quasi mai dai possedimenti reali, se non per seguire personaggi appunto espulsi dal cerchio magico della regina); ma nello stesso tempo è l'umanissimo, vulnerabile centro di una battaglia di potere combattuta intorno, sopra e grazie alla sua persona. Lady Sarah Churchill, duchessa di Marlborough, e sua cugina Abigail Masham, nobile decaduta, venduta dal padre e costretta alla prostituzione prima di approdare alla corte reale, dove grazie alla protezione della cugina spera di poter risalire la china sociale e tornare ad essere una dama, intessono ben presto un duello per conquistare le grazie della regina - e quindi le posizioni di potere che ne conseguono - tutto condotto con le armi della seduzione e delle blandizie da una parte, dell'astuzia spinta sino alla perfidia dall'altra. Lady Marlborough è talmente vicina alla regina da poter influire sulle decisioni politiche in un momento reso delicato dalla guerra con la Francia ancora in corso e dagli scontri all'interno della corte tra i neonati partiti dei tories e dei whigs, tra coloro che vogliono por fine al conflitto e ai sacrifici economici e umani che esso richiede e quelli che, come Lady Marlborough e il marito al comando delle operazioni militari, vogliono proseguire il conflitto fino a prostrare il nemico, ma a costo di nuove tasse e del malcontento di parte della classe dirigente e di tutta la popolazione: le sue armi, oltre all'ascendente erotico che esercita sulla sovrana, sono quindi in particolare le parole, usate per il convincimento, ma spinte anche a livelli di brutale sincerità; le armi di Abigail, invece, sono soprattutto lo sguardo (per tutta la prima parte Abigail guarda: dal momento del suo imbarazzante arrivo in carrozza, all'osservazione delle dinamiche di potere, alla mira nello sparare con cui conquista la fiducia della propria protettrice, alla ricerca delle erbe medicamentose e agli sguardi di sfida amorosa scambiati con un nobile di corte, sino alla scena primaria in cui assiste non vista agli amplessi della regina Anna con Sarah) e quindi, dopo le mortificazioni iniziali (il corpo imbrattato di fango al suo arrivo, le sue mani bruciate dalla soda caustica grazie ad un'altra domestica invidiosa, a indicare una sleale rivalità femminile che opera ad ogni livello sociale), il suo corpo: le mani con cui blandisce le piaghe dell'augusta malata, il suo aspetto attraente, il suo corpo nudo infilato tra le lenzuola reali. Lanthimos, dopo le astrazioni di The Lobster e de Il sacrificio del cervo sacro, si sporca finalmente le mani con le passioni umane grazie alla sceneggiatura firmata da Deborah Davis e Tony McNamara, prendendone nello stesso tempo le distanze grazie all'ambientazione storica, che permette sia di condurre un discorso su dinamiche di potere valide ancora oggi (curiosamente, accanto a questo film sulle donne nell'ombra della regina, che ne influenzano scelte e decisioni, un altro pluricandidato ai premi Oscar è Vice, sulla figura di Dick Cheney, che fu l'uomo nell'ombra e l'anima nera della presidenza Bush jr.), sia di stilizzarne la rappresentazione. Se figurativamente il riferimento diretto è il Barry Lyndon kubrickiano e le sue fonti iconografiche nella pittura d'epoca (anche nello sforzo di rendere realistiche e leggibili le riprese effettuate alla luce di sole candele o torce), Lanthimos è però decisamente meno interessato del maestro (che si dice avesse commissionato ai costumisti perfino l'invisibile biancheria intima settecentesca, in modo da ottenere dagli attori “movimenti d'epoca”) alla filologia, sia dal punto di vista del linguaggio parlato (nella realtà comunque assai più esplicito di quello che siamo portati ad immaginare), che di quello musicale, che si permette vistosi anacronismi, che di quello cinematografico. Gli ambienti sono deformati da antinaturalistici fish eye e ingranditi dall'uso di lenti grandangolari (con la correzione però delle curvature delle linee che ne sarebbe derivata), usati a volte con effetto leggermente straniante abbinati a panoramiche in interni. Dei dieci Oscar in palio (prevedibilmente per scenografia, fotografia, costumi, ecc., oltre che per miglior film, regia e sceneggiatura), tre se li giocano le tre interpreti: uno nella categorie delle protagoniste a Olivia Colman (eletta un po' arbitrariamente a personaggio principale a scapito delle altre due, che hanno pari se non maggiore risalto), despota debole, complessata e vulnerabile; gli altri due per le “non protagoniste” a Rachel Weisz (già con Lanthimos in The Lobster) e a Emma Stone, una vera forza della natura di bravura e simpatia, che riesce a rendere accattivante un personaggio cinico e spietato che al di là di ogni intrigo politico lotta selvaggiamente e senza scrupoli per affermare i propri interessi e il proprio desiderio di rivalsa umana e sociale.
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VICE - L'UOMO NELL'OMBRA di Adam McKaySe siete dei fedelissimi di Into the Wonderland (ammesso che ne esistano) sapreste che non amo molto i film alla McKay. I film alla McKay (La grande scommessa; ma non è l'unico a farli, e forse in fondo la fonte ispiratrice è Michael Moore, che però non si è mai mascherato dietro il cinema di finzione classicamente inteso) si fa così: si prende un tema legato all'economia o alla finanza, o alla politica, possibilmente infilmabile e assai poco empatico, e lo si pone al centro di un racconto di finzione; poiché in sé l'operazione sarebbe poco o nulla spettacolare e altrettanto poco comprensibile, si infarcisce il film di battute, grafici, animazioni, trovatine visivo-linguistiche che, se probabilmente non fanno capire meglio allo spettatore ciò di cui gli si sta parlando, lo dovrebbero intrattenere divertendolo e dandogli l'impressione di essere il beneficiario di un generoso tentativo di divulgazione didascalica. Ovvero, “lo sappiamo che è troppo difficile per voi, ma messa così in parole povere qualcosa dovrebbe pure restarvi in mente”. Sono perciò partito molto prevenuto nei confronti di Vice, ma in buona parte mi sono ricreduto. Il filo conduttore qui è biografico, perché il film racconta la vita di Dick Cheney, soprattutto nel periodo (il titolo lo dice) in cui ricoprì la vicepresidenza degli Usa, diventando così una sorta di onnipotente Rasputin all'ombra (il sottotitolo italiano lo dice) dell'inetto George W. Bush. Per capirci, andando subito al sodo, Cheney gestì la crisi ell'11 settembre mentre Bush svolazzava nei cieli sull'Air Force One e costruì le false motivazioni che portarono alla guerra contro l'Iraq, a beneficio dell'industria petrolifera, e in primo luogo dell'Halliburton, di cui Cheney era già stato amministratore delegato e che aumentò del 500% le proprie ricchezze a seguito della guerra contro le mai trovate “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Nella sua sfrenata sete di potere, alimentata anche dalla vorace moglie Lynne, che rinuncia alle vette di potere irraggiungibili per una donna, ma non a spronare e sorreggere il marito durante le sue scalate ai vertici istituzionali, Cheney terremota anche l'assetto costituzionale statunitense, a favore di una micidiale concentrazione dei poteri esecutivi. Il procedimento di McKay è quello che ci si può aspettare: narrazione frammentata, salti temporali ed ellissi narrative, flashback, inserti di filmati dal vero, affollamento di personaggi realmente esistiti o esistenti, indicati con didascalie, ricorso a trovate grafiche (come quando Cheney mette i propri segnalini in tutte le posizioni strategiche scalzando gli uomini del Presidente), in un affastellamento frastornante di date, nomi, fatti, informazioni. Ma, malgrado non tutto sia facilmente comprensibile, il giudizio etico e politico verso la figura di Cheney emerge netto, preciso e definitivo, e la morale del film è lampante. Mentre si ripercorre la storia degli Stati Uniti dagli anni '00, si ha l'impressione inoltre di ripercorrere un ventennio di quel cinema americano che ha avuto l'ambizione di raccontare le vicende e la realtà di questo periodo storico: dai film sull'11 settembre (tra i quali United 93 di Greengrass) a quelli sulla guerra in Iraq (come Zero Dark Thirty della Bigelow) e i suoi risvolti (come Fair Game) finanche al fantascientifico The Day After Tomorrow, girato nel 2004, dove a guidare i sopravissuti della catastrofe ecologica è, non a caso, non il Presidente americano, ma il suo vice, un tipetto simile a Cheney all'inizio molto ostile alle tesi sui cambiamenti climatici... Christian Bale, che non vanta alcuna somiglianza fisica con il suo personaggio, si guadagna una candidatura all'Oscar malgrado reciti sotto chili di trucco; e se la Adams è efficace nel suo ruolo di azzimata dark lady, Sam Rockwell è di nuovo splendido in un ruolo da stupido (come già in Tre manifesti a Ebbing, Missouri), interprendando con finezza lo stolido presidente Bush. Alcune trovate narrative poi mi hanno davvero deliziato: la fine del film che arriva ad un terzo della durata, con tanto di didascalie finali e titoli di coda; la scelta spiazzante della voce narrante, di cui si scoprirà solo alla fine la particolarissima origine; e soprattutto il fatto che i molteplici finali contengano anche la critica al film e il dibattito (molto acceso...) su di esso... Mi dichiaro soddisfatto. ROMA di Alfonso CuaronLe piastrelle grigie e granulose del pavimento di un cortile vengono invase dall'acqua gettatagli sopra per pulirle: nella pozza d'acqua le piastrelle spariscono sommerse, sostituite dalla visione riflessa di uno squarcio di cielo, attraversato dal volo remoto di un aereo. Nelle prime immagini di Roma c'è già molto. Il grigiore della quotidianità, la routine prosaica del lavoro, e insieme però la possibilità di una visione, il sorgere di un punto di vista attraverso cui guardare il mondo e l'altrove, fino al limite di una fuga tanto lontana da essere non solo impossibile ma quasi impercettibile. Roma è candidato a 10 Oscar. La sua coppia femminile domestica-padrona (accomunate dall'infelicità: la seconda è tradita e abbandonata dal marito) se la vedranno con il terzetto regina-cortigiane de La favorita (anch'esso con 10 candidature – tutte e cinque le attrici dei due film sono candidate alla statuetta). Due storie di donne, con le protagoniste agli apici opposti della scala sociale (la serva e la sovrana), entrambe dirette da registi maschi (un messicano e un greco). In effetti, al centro dell'ultimo cinema di Cuaron, che scrive anche le sceneggiature dei propri film, sembra esserci costantemente il tema della maternità, della nascita, della morte e della rinascita. Ne I figli degli uomini Theo si sacrifica per salvare una donna incinta portatrice di futuro in un mondo in cui l'umanità sembra essere diventata irrimediabilmente sterile; in Gravity Kowalsky a sua volta si sacrifica per salvare Ryan Stone, una donna annichilita dalla perdita della figlia che “rinascerà” al termine di un metaforico parto tra cielo e terra. Roma si svolge per la sua gran parte durante l'arco di una gravidanza. Anche qui c'è una bambina che muore, e due bambini salvati dalle acque (e cioè fatti rinascere, portando nello stesso tempo la protagonista al superamento del proprio lutto; già all'inizio d'altra parte la protagonista aveva invitato un bambino “morto” a “risorgere”). Non ci sono però qui figure maschili a favorire la generazione e la rigenerazione. Al contrario i maschi di Roma sono figure negative, deboli o infantili, fedifraghe o machiste, comunque in fuga dalle responsabilità di un leale rapporto adulto e dalle responsabilità coniugali e parentali. La gravidanza è in questo caso quella di Cleo, domestica tuttofare, di origine india, al servizio di una ricca famiglia borghese di Città del Mexico. Cleo fa i mestieri di casa, cucina, pulisce il cortile, bada al cane, sveglia i bambini, li accudisce, li accompagna a scuola, li mette a letto con il bacio della buonanotte; è sempre pronta a soddisfare i desideri dei propri padroni, grandi e piccoli. E' sinceramente amata, dai bambini come una seconda mamma, dagli adulti come un fedele, ubbidiente e servizievole animale domestico, la cui presenza e la cui disponibilità è percepita come scontata all'interno della natura delle cose. Non bianca, non maschio, non membro della classe dominante, Cleo è sull'ultimo gradino della scala sociale, una scheggia di umanità pure viva e vibrante, un nocciolo duro di sentimenti imprigionata in una molteplice gabbia di costrizioni. Cuaron dirige un film dall'ispirazione autobiografica, tributando un sentito omaggio alle persone umili, pure in grado di donare e di ricevere affetto; ma nello stesso tempo, tenendosi sempre narrativamente vicinissimo alla sua protagonista, non rinuncia a dipingere uno sfaccettato affresco della società messicana agli inizi degli anni '70 (il film si svolge tra il 70 e il 71), tra espropriazioni delle terre agli indigeni, proteste studentesche represse nel sangue, alta borghesia impegnata nei propri riti mondani (e mortiferi), politici approfittatori, maschilismo e ideologia machista. Sullo sfondo del fluire della vita quotidiana, dove i gesti e le incombenze sembrano ripetersi senza fine, in realtà tutto si muove e cambia: terremoti, disordini, incendi, espropriazioni terriere, lutti, tradimenti e abbandoni scuotono il Messico e le vite dei protagonisti. Poco sopra ho parlato di una vicinanza dell'autore alla sua protagonista specificando che si tratta di una vicinanza narrativa; poiché Cuaron sceglie in effetti e mantiene, dal punto di vista visivo (e quindi di approccio “morale” alla storia che racconta e alla sua protagonista), una distanza di rispetto. Il movimento di macchina predominante in Roma è la panoramica, o la carrellata laterale che scorre parallelamente al piano dell'inquadratura. La panoramica mantiene la distanza, collocando la protagonista o i personaggi nello spazio. Esemplari sono i movimenti nella parte iniziale, all'interno della casa, quasi a sondarne gli spazi doppiamente smisurati, a segnalare da una parte l'opulenza esagerata degli spazi padronali contrapposti a quelli angusti e condivisi destinati alle serve, dall'altra la mole del lavoro di cura che viene sobbarcato sulle spalle di queste ultime. La mdp non si sposta in profondità ad accorciare la distanza dei soggetti (nemmeno se i protagonisti rischiano di affogare tra le onde); piuttosto scende nei dettagli (come quando descrive ironicamente un'automobile troppo grande perfino per lo spazio destinatogli) o sceglie il raggelato pudore della fissità, come nella sequenza del parto in ospedale. Roma, che pure è un cinema grande (di ascendenze felliniane suggerite dal titolo stesso come dalla dimensione memorialistica), quasi in una dimensione d'affresco (dove i personaggi appunto, e la protagonista stessa con il suo intimo “diario di una cameriera” rientrano in una veduta d'insieme), lavora infatti per sottrazione, rinunciando ad alcuni elementi fondamentali presenti nella stragrande maggioranza dei film contemporanei. Niente primi piani, niente colore, niente musica extradiegetica. La fotografia, curata dallo stesso Cuaron, attenua i contrasti per avvantaggiarsi di un'ampia gamma di grigi, a cercare di catturare ogni sfumatura della luce messicana nella distanza del ricordo. Analogamente, a fronte dell'assenza della colonna sonora tradizionalmente intesa, il tappeto sonoro di Roma è fittamente e riccamente intessuto di musiche (di bande, orchestre, radio, ecc.), parole (in lingua spagnola, mixteca, inglese ed altre ancora) e suoni (a volte invadenti, come il rombo di una macchina esageratamente potente, o quello del mare minaccioso), in un grandioso tentativo filologico di ricostruire non solo le immagini ma anche i suoni, i rumori, i fonemi di un vissuto passato (due candidature all'Oscar sono dedicate all'editing e al missaggio sonoro, oltre a quelle per la fotografia e per la scenografia, e oltre ancora a quelle per miglior film, film straniero, regia e sceneggiatura e alle due già citate per le attrici). A proposito di maternità (o paternità) e di autobiografismo, il film si prende anche una manciata di secondi per confessare la genesi primigenia del futuro Gravity: con gli eroi abbandonati nello spazio del film del '69, visti con occhi da bambino sullo schermo di un cinematografo di Mexico City. MUSEO - FOLLE RAPINA A CITTA' DEL MESSICO (Museo) di Alonso RuizpalaciosAlonso Ruizpalacios si ispira ad un fatto vero (il furto da parte di alcuni giovani di un gran numero di reperti archeologici del Museo de Antropologia di Città del Messico), e ambienta il film all'epoca dei fatti (il 1978); ma a modo suo. Perché rovinare con la verità una storia così bella? si chiede e fa chiedere a uno dei suoi personaggi al termine del film (coerentemente premiato a Berlino per la sceneggiatura). L'autore d'altra parte non è interessato alle convenzioni cinematografiche più di quanto lo sia alla realtà storica. Eliminata quasi completamente la parte classica dei preparativi, in cui si studia il colpo, si approntano le tecniche e i materiali, si organizza la strategia, ed eventualmente si raccontano le provenienze, i caratteri e le motivazioni dei personaggi, Museo parte con una breve introduzione dedicata all'ambiente famigliare del protagonista, per giocarsi subito nella prima parte il racconto dell'ingegnoso e audace furto (e non rapina, come il titolo italiano suggerisce, in quanto l'operazione è svolta evitando qualsiasi forma di violenza sulle persone). Lo affronta subito quasi abbia fretta di sbarazzarsene, perché ben presto è chiaro quello che interessa (e quel che non interessa) a Ruizpalacios: il dopo, quel senso di frustrazione e di insoddisfazione che era alla base della folle decisione ma ne è anche imprevista conseguenza. Juan e Benjamin sono ragazzi di buona famiglia, benestanti, dagli svogliati studi universitari. La rapina al museo sembra solo, da parte loro, un modo per sfuggire allo spleen di un giovane messicano (il trascinatore è Juan, di cui Benjamin è talmente succube non solo da seguirlo nella folle avventura, ma anche di mancare al capezzale del padre nel momento della sua morte) che vive a Satelite, 23 chilometri lontano da Città da Messico e anni luce da una vita capace di offrire motivazioni, eccitazione, gratificazione e riconoscimento sociale. Ma l'impresa epocale (dove l'incoscienza si mescola ad una effettiva dose di perizia e di coraggio) non sembra in grado di fornire loro nulla di quanto si aspettavano: né soldi né avventura, né soddisfazione o ammirazione da parte degli altri (i media gridano alla vergogna nazionale, i parenti prima si disperano, poi li disprezzano). Come già in Gueros, i personaggi e la storia girano a vuoto, lungo derive improduttive, ricerche senza esito. Quello di Ruizpalacios è ancora una volta un cinema del detournement, del circolo vizioso, dei vicoli ciechi e dei giri a vuoto che non portano da nessuna parte (neppure, come il film stesso sottolinea esplicitamente, al punto di partenza). Il rischio, ovviamente, in questo vagare senza costrutto, è che vada smarrito anche l'interesse e la partecipazione dello spettatore, che in questa occasione può trovare un appiglio nell'interpretazione svagata e trasognata ma carismatica di Gael Garcia Bernal e in una regia attenta ai suoni e alle immagini che rende palpabile l'indeterminazione e lo sbando (e che scarta a sua volta dalle soluzioni convenzionali anche nelle riprese e nel montaggio: come ad esempio quando alcune sequenze del furto sono mostrate come una successione di istantanee – con tanto di rumore di scatto dell'otturatore – che in realtà però istantanee non sono, tradite da impercettibili movimenti all'interno di quella che è una falsa fissità fotografica). Ancora una volta alla base dell'ispirazione c'è forse il Bolano dei Detective selvaggi, anche se qui l'autore più esplicitamente citato è Castaneda, il romanziere che ha puntato - e attirato l'attenzione del mondo - sullo sciamanesimo e sulle conoscenze ancestrali delle antiche popolazioni mesoamericane. Perché per i due giovani, e ancora una volta soprattutto per Juan, entrare in possesso dei reperti archeologici significa infatti anche dover necessariamente confrontarsi con un'identità culturale e spirituale con la quale non avevano fatto i conti. Juan si rispecchia e viene quasi risucchiato dal fascino totemico di una maschera di giada olmeca, e una volta in possesso della refurtiva comincia a porsi dei dubbi geopolitici e culturali, ma soprattutto etici, sulla loro destinazione finale, che emergono soprattutto nella discussione con un collezionista-archeologo interessato ad acquistare i reperti e che sostiene in certi termini la liceità della pratica del “saccheggio” da parte dei musei e dei collezionisti occidentali, che ha garantito dopo la scoperta la salvaguardia e la tutela di tanti preziosi manufatti del passato. Con tutte le possibili contraddizioni, per Juan (che nei telegiornali sente quasi sorpreso bollare i rapinatori del museo come “traditori della patria”) è un modo per tornare a sentirsi messicano. Anche se il Messico dovesse essere un labirinto il cui segreto è nascosto in recessi (che avrebbero dovuto restare) inaccessibili (come la stanza segreta dentro la piramide), e senza vie di uscita. E anche se il cerchio della narrazione, apparentemente inconcluso quasi per progetto, stavolta si chiuderà alla fine letteralmente su di lui. BIRD BOX di Susanne BierBird Box, con il suo poster con la donna sporca e bendata e con la firma della regista danese Susanne Bier, faceva pensare (almeno a me) ad un racconto calato nella realtà storica delle dittature del '900, delle storie di prigionia e di torture che l'hanno caratterizzato in modo nefasto. Non è così: Bird Box è - si potrebbe aggiungere, né più né meno - un film di fantascienza del genere survival. La situazione di base è quella del gruppo di persone variamente caratterizzato rifugiata in uno spazio chiuso mentre all'esterno incombe una minaccia in qualche modo aliena, alternata al racconto avventuroso, su un altro piano temporale, di una discesa sul fiume verso un migliore riparo. Gli esempi di film del primo tipo, esplicitamente o implicitamente richiamati da Bird Box, si sprecano. Tra prototipi ed epigoni, a titolo di esempio, si potrebbero citare Gli uccelli di Hitchcock, La notte dei morti viventi di Romero, Distretto 13 le brigate della morte di Carpenter, La guerra dei mondi di Spielberg, fino a 10 Cloverfield Lane. Nel secondo racconto il film risulta apparentato con altre opere come Un tranquillo week-end di paura o The River Wild – Il fiume della paura; il tutto ibridato con Cecità, film tratto dal romanzo di José Saramago, dal momento che le entità (aliene? demoniache?), si manifestano (ma non allo spettatore) in forma tale che la loro stessa visione induce chi le guarda ad uccidersi. I protagonisti pertanto per sopravvivere non hanno altra scelta che rifugiarsi in ambienti oscurati o uscire solo con gli occhi bendati. Non è quindi l'originalità che va ricercato nel film della Bier (se non nella scomposizione e ricomposizione degli elementi citati), e neppure la finezza registica nella rappresentazione psicologica e drammatica dimostrata dalla regista in altre occasioni (In un mondo migliore); e neppure i possibili risvolti simbolici e metaforici che rimangono impliciti ma mai sviluppati nelle situazioni di partenza (la cecità; il suicidio dell'umanità: decenni fa su una rivista dozzinale ricordo di aver letto un racconto a fumetti che raggiungeva un ben altro spessore di approfondimento filosofico). Dopo un breve prologo catastrofico, il film preferisce concentrarsi sulla rappresentazione piuttosto convenzionale e superficiale dei rapporti tra i personaggi, nell'ambito della dialettica interno/esterno sottesa alla situazione, da una parte; e sul racconto thrilling-picaresco del viaggio fluviale dall'altra, reso più drammatico dalla presenza di due bambini da salvare e proteggere (detto per inciso, lo sfasamento temporale implica la rivelazione anticipata di quali personaggi andranno perduti durante il percorso, vanificando parte del pathos legato alla sorte dei coprotagonisti). Rimasti quindi all'attivo essenzialmente la presenza forte e determinata della Bullock, l'assist professionale del cast di contorno, una gestione della tensione a volte efficace (nell'economia degli effetti speciali, che non vengono impegnati, se non con rumori e volteggiare di foglie, nella rappresentazioni delle entità), Bird Box gode poi della sospensione della credulità che siamo disposti a concedere fanciullescamente quasi solo ai film americani, ai quali siamo in genere disposti a perdonare generosamente vistose inverosimiglianze ed ellissi narrative decisamente comode e risolutorie. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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