MATTHIAS & MAXIME di Xavier DolanXavier Dolan è Xavier Dolan: prenderlo o lasciarlo, amarlo o detestarlo. O forse no; qualche suo film mi ha convinto di più, altri meno. Spinto dal padre, Xavier comincia a recitare a 4 anni, fin da bambino doppia centinaia di film e telefilm; la sua prima sceneggiatura la scrive a 17 anni, a 19 dirige il suo primo film e arriva direttamente alla ribalta di Cannes. Probabilmente non è facile per un enfant prodige continuare a fare cinema per tutta la vita; fino ad ora il regista canadese ha mantenuto una coerenza che si può tranquillamente definire d'autore, e il suo percorso si muove nel medesimo campo tematico e narrativo. Si tratta di temi importanti: l'amore e l'attrazione, il rapporto con la madre (il padre, attore e cantante, è invece assente come personaggio, ma presente come attore in diversi suoi film, a cominciare dal suo primo J'ai tué ma mère), l'identità sessuale, la rivelazione dell'omosessualità. Ma il suo cinema comincia già a segnare il passo, e a rivelare, ma è solo un mio parere, una certa ripetitività. Le sue caratteristiche autoriali – le sequenze impetuose, i dialoghi concitati e confusi, le parentesi musicali, che utilizzano sia la musica classica che il pop, i ralenti, lo spunto autobiografico – cominciano a lasciare un sospetto di maniera, in un film eccessivo anche come durata, dove tutti sembrano gay anche quando non dovrebbero esserlo, comprese le donne. Dolan interpreta in prima persona il personaggio di Maxime, in partenza da Montreal verso l'Australia, per cercare una dimensione nuova di vita. Matthias fa parte della sua cerchia di amici, e ha invece la strada segnata verso l'affermazione professionale e la formazione di una famiglia. Ma Galeotto fu il filmino arty (che non vedremo mai) girato dalla una sorella di un terzo amico, secondo il cui copione i due devono scambiarsi un bacio. E' il risvegliarsi di un'attrazione nata già anni prima e rimasta a covare sotto la cenere. Stavolta invece, mentre scorre il conto alla rovescia verso la partenza di Matthias, la passione sembra destinata a scoppiare inarrestabile. Forse, in definitiva, è il tema del distacco il filo rosso, la tematica profonda del cinema di Dolan. Matthias è in procinto di lasciare la sua vecchia vita e il suo nuovo amore, Rupert deve mollare il suo idolo John F. Donovan (La mia vita con John F. Donovan), Louis torna a dire addio ai famigliari prime di morire (E' solo la fine del mondo), Tom va alla fattoria per il funerale dell'amato (Tom a la ferme), la mamma Diane e Steve sono destinati a lasciarsi dopo una serie di separazioni (Mommy), Laurence deve separarsi dalla sua identità sessuale (Laurence Anyway), il represso Hubert sogna niente di meno che di uccidere sua madre per trovare sollievo al suo male di vivere (J'ai tué ma mère). Ma Xavier, a quanto pare, non ha nessuna intenzione di separarsi dal proprio cinema.
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GLI ANNI PIU' BELLI di Gabriele MuccinoChe l'ispirazione di Muccino puntasse verso Scola lo si era già capito con A casa tutti bene, che richiamava per diversi aspetti La famiglia: entrambe sono storie corali, che mettono in scena un gran numero di personaggi appartenenti o affini allo stesso gruppo famigliare, in una sostanziale unità di luogo, la casa di famiglia, appunto. Dal punto di vista narrativo, la differenza sostanziale era quella del tempo, dilatato ellitticamente lungo l'arco di una vita intera quella di Scola, concentrata in una sostanziale unità temporale quella di Muccino. E' proprio il senso del tempo invece stavolta a dominare sia l'opera ispiratrice che quella derivata, che già nei rispettivi titoli allude alla lontananza e alla nostalgia: C'eravamo tanto amati (1974) e Gli anni più belli. Muccino prende il canovaccio scoliano e lo adatta ai nostri decenni: la storia dei tre amici e della ragazza amata da almeno due di loro, che si snoda attraverso i decenni, partendo dai primi anni '80 fino più o meno ai giorni nostri. Gli entusiasmi, i sogni appassionati, gli amori impetuosi, le aspettative ingenue si scontrano ben presto con le avversità della vita: la lontananza forzata, la delusione, il tradimento, la difficoltà nel raggiungere i propri obiettivi, ma anche nel mantenere fede ai propri ideali e ai propri affetti. Perfino il successo professionale, economico e sociale, rivela un prezzo molto alto da pagare. E' il terreno su cui Muccino si muove più a suo agio, quello delle storie famigliari o di coppia, in un ambiente piccolo o meno piccolo ma sempre borghese, all'interno del quale è abile nel descrivere amori e conflitti, ambizioni e fallimenti, tradimenti e pentimenti, grazie anche a una capacità di dirigere gli attori – anche nei toni più alti e gridati - non comune nel cinema italiano. Qui Muccino si confronta però anche con la Storia con l'iniziale maiuscola, che per quanto sullo sfondo non è indifferente rispetto ai destini dei personaggi. Se i protagonisti di C'eravamo tanto amati venivano dalla Resistenza e attraversano il dopoguerra fino alle lotte sociali degli anni '60 (non senza rendere omaggio al grandissimo cinema italiano, dal neorealismo di Ladri di biciclette al mito de La dolce vita, quelli de Gli anni più belli abitano tempi – i nostri - decisamente più prosaici. Nel prologo vengono mostrati alle soglie degli anni '80, sulla linea di trapasso che segna il confine tra il fallimento dei movimenti di contestazione degli anni '70 e il riflusso del decennio successivo. Riccardo (poi soprannominato per questo Sopravvissuto, o meglio Sopravvissù) viene ferito in scontri di strada tra poliziotti e manifestanti, ma gli amici che lo soccorrono escono da una discoteca. Le ambizioni intellettuali di Riccardo e Paolo vengono frustrate, per la difficoltà di inserirsi nel mondo dell'editoria o in quello farraginoso e inefficiente del sistema della scuola pubblica; Giulio, invece, dopo gli studi di Giurisprudenza, passa dal difendere gli ultimi e i bisognosi a salvare un ex-ministro impunito colpevole di strage, in una società perennemente malata che passa dal sistema di potere democristiano a quello berlusconiano. Riccardo si illude di poter tornare a perseguire ideali di palingenesi sociale e politico con il nascere del Movimento a cinque stelle; e i tre amici finiranno dopo anni ancora a discutere di principi e di politica, o di niente: di illusioni perdute e forse mai veramente al centro del racconto. Muccino rivela infatti una certa goffaggine alle prese con l'esigenza di raccontare la Storia, ricorrendo spesso a facili e didascaliche marcature temporali: non gli basta farci sentire in discoteca Il tempo delle mele, ma deve anche esibire la copertina del disco; e i passaggi epocali sono spesso allusi da scene viste in tv, dalla caduta del Muro di Berlino alla discesa in campo di Berlusconi al crollo delle Torri Gemelle. Il suo interesse vero è per i sentimenti, per la storia d'amore tra Paolo e Gemma e tra Gemma e Giulio; per la frustrazione di Riccardo il cui fallimento professionale trascina in rovina anche la famiglia; per il disagio di Giulio che invece il successo l'ha conseguito, ma che stenta a rassegnarsi a pagarne il prezzo. Alle marcature storiche posticce corrispondono quindi non a caso i racconti sguardio in macchina dei quattro protagonisti, frasi fugaci lanciate in fretta e in confidenza allo spettatore mentre la vita li trascina via. Da questo punto di vista il film, che soffre di qualche goffaggine di sceneggiatura (firmata da Muccino e Costella), trova, come quasi sempre succede all'autore, alcuni accenti di verità, ottenuti grazie all'abilità nell'entrare in intimità con i personaggi e alla già citata capacità nel dirigere gli attori. Con qualche difficoltà, questa volta, nel tenere a bada il manierismo e le maschere preesistenti di interpreti molto tipizzati, alle prese con personaggi non privi di stereotipi e schematismi. Mi pare ci riesca bene con il solido Favino; la Ramazzotti è sul crinale tra intensità e manierismo, mentre Santamaria e Rossi Stuart mi sembrano indulgere di più nelle rispettive caratterizzazioni; una piacevole sorpresa è la presenza della cantante Emma Marrone, con un personaggio non principale ma neppure secondario, che svolge egregiamente il suo compito nel suo debutto cinematografico, e molto azzeccate sono le scelte dei giovani che impersonano i personaggi all'inizio (anche se il passaggio ad un Favino cinquantenne che discute la tesi di laurea è molto stridente). Ma se a nessuno dei personaggi vengono risparmiate sofferenze, delusioni e fallimenti, anche per propri errori o per propria incapacità, qualche dubbio di misoginia sorge a vedere la rappresentazione del personaggio di Gemma, l'unica dei quattro amici a non proseguire gli studi, ad avere un comportamento sessuale molto disinibito (“la dà via con la fionda”, dice di lei un'icastica battuta), a tradire l'innamoratissimo Paola; e per altro anche gli altri personaggi femminili sono forse più negativi che positivi, come la frivola Margherita, moglie di Giulio, o la rancorosa (non le mancano però i motivi) Anna, moglie di Riccardo. Scola chiudeva su una nota amara e incrinata; Muccino, dopo il finale problematico di A casa tutti bene, sceglie stavolta un finale forse a lui più congeniale, risarcitorio e consolatorio. Vince l'amicizia che supera il tempo e le incomprensioni, vince l'amore che vince sugli errori e su tutto, vince la speranza nei giovani; e quindi, forse, gli anni più belli devono ancora venire. BOMBSHELL - LA VOCE DELLO SCANDALO (Usa) di Jay RoachBombshell (la bomba, ma metaforicamente, come anche in italiano, la notizia esplosiva) si iscrive in quel filone del cinema americano impegnato a spingere lo sguardo nel backstage dei grandi centri del potere, molto spesso ispirandosi a personaggi e fatti reali, come la politica e l'economia, svelandone i meccanismi oscuri e spesso perversi e adottando spesso dei veri e propri escamotage didascalici per rendere comprensibile anche allo spettatore comune dinamiche estremamente complesse e sconosciute alla maggioranza. E' un cinema adulto, spesso difficile, che, per dirla marxianamente, racconta di come si costruisce e si gestisce la struttura politico-economica della società, anziché fermarsi al racconto delle più pittoresche sovrastrutture in genere predilette dal racconto cinematografico. Esempi recenti di questo tipo di cinema sono Vice, sulla storia politica di Dick Cheney, o i Panama Papers raccontati da Soderbergh, o La grande scommessa, sulla crisi finanziaria del 2008, sceneggiato dallo stesso Charles Randolph che ha scritto Bombshell. Da certi punto di vista, e in particolare da quello del genere sessuale e del casting, l'operazione di Bombshell è speculare a quella de La grande scommessa: ai protagonisti quasi tutti maschili, un gruppo di speculatori e analisti finanziari interpretati da una squadra di attori del calibro di Bale, Carell, Gosling, Pitt, corrisponde qui invece un trio di protagoniste tutto al femminile, che comprende tre splendide attrici, Nicole Kidman, Charlize Theron e Margot Robbie, rappresentanti in diversi momenti della bellezza (bionda) nella cinematografia americana (e non solo: Kidman e Robbie sono australiane e hanno esordito in patria, la Theron è di origini sudafricane). Sia detto non a caso: perché è appunto la questione di genere e il rapporto tra i sessi al centro di Bombshell, che racconta i fatti recenti e veri che hanno portato al licenziamento per molestie sessuali del Ceo nonché deus ex machina della Fox, ovvero della schieratissima rete televisiva (incidentalmente e per una strana ironia della sorte produttrice anche di uno degli show più liberal della tv americana, I Simpsons) che dà voce al più schietto e agguerrito conservatorismo statunitense. La denuncia dell'anchorwoman Gretchen Carlson (Kidman) contro Roger Ailes, potentissimo Ceo della rete, per molestie sessuali (a dire il vero nel suo caso solo verbali e allusive), apre una breccia nel muro del silenzio, attraverso il quale si riversano le voci di altre donne molestate (anche molto più pesantemente) dal boss che si crede onnipotente. Tra esse la volitiva giornalista Megyn Kelly (Theron), impegnata a contrastare l'ascesa del candidato alla presidenza Donald Trump, e la giovane Kayla (Robbie), personaggio di fantasia, l'ultima arrivata, ambiziosa ma sconcertata davanti al prezzo che scopre di dover pagare per arrivare al successo. Quella che dovrebbe essere la casa dell'informazione, della parola, della verità autorevole e accertata, si rivela così essere ed essere stata la casa del silenzio, della dissimulazione e della menzogna, dove è preferibile tenere nascosta le proprie idee politiche e i propri orientamenti sessuali, e dove si deve tacere sui torti e sui ricatti subiti, almeno finché si leva finalmente la voce dello scandalo. Il film mostra il momento in cui il muro si incrina, poi si fende, poi (in parte) si sbriciola: poco dopo esploderà un'altra bomba, il caso Weinstein, e il movimento #MeToo. Eppure è lo stesso momento in cui si svolge l'irresistibile ascesa di Donald Trump (un joker inaspettato e ingestibile che costringe perfino la Fox a ricalibrarsi per adeguarsi al suo personaggio esuberante e alle sue pittoresche prese di posizione) che fa del machismo, del sessismo, dell'omofobia, del suprematismo razziale i propri espliciti e spudorati punti di forza. La contraddizione è resa ben visibile nel film: per una donna che parla e denuncia, ci sono orde di persone che la insultano e la minacciano; per una giornalista che si pronuncia contro la libera circolazione delle armi d'assalto (non delle pistole, quelle vanno bene...), c'è l'89% degli spettatori di Fox News che sono contrari a qualsiasi limitazione. Non è l'unica contraddizione legata alla situazione descritta nel film, dove l'arroganza molesta di (certi) maschi si mischia all'arrivismo spregiudicato di (certe) femmine, disposte ad accettare o a subire in silenzio molestie e ricatti, non solo per non perdere il posto di lavoro, ma anche per avanzare nella carriera e conseguire il successo professionale, in un rapporto di scambio perverso e autoalimentantesi. Il film è ambientato nel mondo dell'informazione televisiva (l'impresa più competitiva che esista, viene definita da uno dei personaggi del film), veicolata da un medium visivo (come ricorda più volte Ailes, traendone la conseguenza che gli è permesso farsi mostrare le gambe nude fino all'inguine da aspiranti giornaliste compiacenti o più spesso perplesse, mortificate, intimidite, spaventate, umiliate); eppure il racconto punta molto più sulla parola che sull'immagine, sul racconto didascalico piuttosto che su quello drammatico. Jay Roach, già espertissimo di cinema politico e di scandali tratti dalle cronache, amministra la sceneggiatura tirando le fila di un racconto abbastanza corale (le tre protagoniste sono riunite tutte insieme una sola volta, senza rivolgersi la parola, in un ascensore), stando vicino e mezzo ai personaggi, evitando colpi di scena e scene madri. Film più di parola che di corpi (forse paradossalmente: il sesso di cui si parla e che è al centro dello scandalo non si può neppure intuire), dove a dominare l'attenzione visiva dello spettatore alla fine è il paragone tra la prossemica e la prostetica delle tre mattatrici, tra la Kidman (53enne), inscalfibile all'esito di un processo di rimodellazione estetica, la Theron (44enne), indurita e truccata per esigenze mimetiche di copione, e la Robbie (30enne), con la sua fresca espressività libera e contagiosa. Nobile, tempestivo, istruttivo, politicamente impegnato, generoso nelle prestazioni delle sue attrici (cui fanno da degno contraltare due mitici villains come John Lithgow, 74enne, il cattivo dei migliori thriller di De Palma, nel ruolo di Ailes, e di Malcom McDowell, 77enne, indimenticato ultraviolento e stupratore in Arancia meccanica), Bombshell finisce per risultare cinematograficamente anche un po' noioso. I MISERABILI (Les miserables) di Ladj LyE' il training day di una nuova recluta in una squadra che opera nella banlieu parigina; scoprirà presto che i suoi compagni sono dei bad boys; che il rappresentante del Comune, una sorta di Sindaco del rione Sanità, che dovrebbe fare da paciere e da mediatore tra istituzioni e collettività, è in realtà impegolato come tutti in losche manovre; che nel quartiere, abitato da miserabili come in un romanzo di Hugo (o nelle sue numerose trasposizioni audiovisive), l'odio è sempre pronto ad esplodere; che non basta avere un distintivo (shield) per farsi rispettare, e che per tutti quanti è assai difficile fare la cosa giusta, mentre un ragazzino sfigurato come un joker è pronto a scatenare l'inferno... I Miserabili di Ladj Ly si può anche raccontare, come ho cercato di fare, collezionando una serie di titoli del cinema e della televisione degli ultimi decenni, ma è senza dubbio il corto circuito con la realtà presente che la sua visione innesca il principale motivo di interesse per lo spettatore. Il film viene presentato al Festival di Cannes nel maggio 2019 (lì vince il Premio della Giuria ex-aequo con lo sconcertante Bacurau, e da lì inanella una serie di prestigiosi premi e candidature); da allora, tra le altre cose, esplode la protesta rabbiosa dei gilet gialli che mette a ferro e fuoco la Francia; nelle ultime settimane la protesta del Black Lives Matter infiamma gli Stati Uniti e si propaga in tutto il mondo; negli ultimi giorni a Mondragone scoppia una guerra tra locali e immigrati bulgari sullo sfondo dell'epidemia del Covid 19. Scene di guerriglia urbana che eravamo abituati a vedere in Medio Oriente o in Paesi lontani, o nelle metropoli americane più o meno abituate alla violenza hanno trovato luogo e rappresentazione, inaspettatamente, nel cuore di quella che viene vista come una delle capitali morali e culturali della vecchia Europa, senza bisogno di fanatici terroristi islamici a seminare la violenza. Le ineguaglianze sociali mai estirpate, l'inefficacia delle politiche per le periferie, gli attriti mai veramente sanati che covano anche nelle seconde, terze o ennesime generazioni di immigrati, sfociano alla fine nelle strade, dove le culture o le inculture diverse si scontrano tra loro e con la brutalità sbrigativa e frustrata della polizia, gettata in prima linea senza strumenti (o con quelli sbagliati) a combattere una guerra le cui cause sono al di fuori della sua portata d'azione e che non può in alcun modo vincere. Il furto di un cucciolo di leone da un circo di zingari da parte di un ragazzino nero rischia di far scoppiare una guerra interetnica; la squadra di polizia - nella quale Stephane, immediatamente ribattezzato “Pomata” per i suoi capelli imbrillantinati, sta svolgendo il suo primo giorno di servizio nella periferia parigina, guidata dal supponente Chris e completata dall'apatico Gwada - si trova coinvolta nel caso ma non fa che peggiorare le cose, ferendo gravemente, senza reale motivo, l'autore di un furto fatto per gioco e finendo per di più filmati dal drone di un ragazzino voyeur. La caccia al leone si sovrappone quindi alla caccia alla scheda di memoria con il filmato compromettente, mentre si scatena una guerra di tutti contro tutti dagli esiti imprevedibili. La realtà quindi, prima della finzione o della citazione cinematografica: Ladj Ly ha vissuto davvero in quel quartiere, ha visto e vissuto veramente quelle situazioni, e neppure il furto del leone è completamente frutto di invenzione. Eppure è proprio dal punto cinematografico che il film non mi ha convinto molto, e proprio nella sua ambizione di rapportarsi alla realtà. Forse buona parte del mio tiepido gradimento risiede in fattori marginali e apparentemente superficiali: il doppiaggio innanzitutto, che mi è sembrato (come altre volte, sopratutto con film francesi o con quelli non occidentali) inadeguato, con toni poco autentici; o l'interpretazione dell'attore protagonista, uno Stephane (interpretato da Damien Bonnard) che non mi ha mai tolto l'impressione di star guardando Neri Marcoré impomatato e incongruamente precipitato in un polar francese; o, e questo già pesa di più, la rappresentazione di poliziotti che, malgrado la vantata esperienza sul territorio, per tutto il film non ne azzeccano mai una, non riuscendosela a cavarsela neppure nelle procedure apparentemente più gestibili. Tra tutti sarà (ovviamente) proprio il novellino a dimostrare quelle minime capacità di diplomazia e buon senso utili per cercare di disinnescare il precipitare degli eventi. Da una parte Ladj Ly non rinuncia ai topos cinematografici più classici (e antirealistici) come la musica extradiegetica o le riprese dall'alto, o – peggio – una certa stereotipizzazione di personaggi, abbandonati a loro volta in un racconto senza un retroterra esistenziale o sociale che dia loro un po' di spessore; dall'altra però la narrazione smaliziata e spregiudicata non è riuscita a provocarmi vere emozioni. Neppure il messaggio etico e politico ha finito per convincermi. In fondo, nella rappresentazione di Ladj Ly, tutti sono pronti alla violenza o inclini al malaffare. Solo i personaggi di Stephane e Salah sembrano per un attimo sfuggire a queste logiche; ma il film lascia nelle mani di un ragazzino offeso ma molto abile nell'organizzare un'inesorabile guerriglia - sotto il tiro di una pistola - la miccia accesa di una bomba la cui deflagrazione potrebbe avere conseguenze che vanno ben al di là delle sue intenzioni di vendetta. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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