THE PALE BLUE EYE - I DELITTI DI WEST POINT di Scott CooperNon conosco il testo di origine. Comunque nel film la presenza di Edgar Allan Poe mi è parsa uno specchietto per allodole mid cult e dare una patina di curiosità culturale ad un prodotto piuttosto anonimo. Siamo nel 1930, e l'investigatore August Landor viene chiamato presso l'Accademia di West Point, dove è stato ritrovato il corpo di un cadetto, impiccato e con il cuore asportato. Conducendo le indagini Landor, che ha perso sia la moglie che la figlia in circostanze diverse, si imbatte in ufficiali e cadetti, in un medico e le di lui moglie e figlia – uniche presenze femminili in un mondo uniformemente maschile -, e in un cadetto molto particolare, anomalo soldato-poeta, dalla fronte alta e pallida e di nome Edgar Allan Poe. Mentre le indagini proseguono senza molto metodo e costrutto spariscono un altro paio di cadetti; uno in qualche modo ricompare, l'altro no. In qualche modo si arriva ad una redde rationem con catastrofe e classico incendio, ma manca ancora una mezz'ora di film per cui ci sono da aspettarsi altre sorprese. Dire come fanno in molti che Cooper rivisiti i generi classici (gangster movie, western, horror, gotico) è un'esagerazione, perché i suoi film mancano in genere di innovazione e originalità; semmai vi si adegua con il minimo indispensabile di aggiornamento alla contemporaneità; qui rappresentato, soprattutto, dal twist drammaturgico che nell'ultima parte fa rileggere gli avvenimenti in un'altra chiave. Niente di che, in un film calligrafico e monotono per gran parte dello svolgimento e nell'ambientazione, che alterna pedissequamente esterni freddi e nevosi e interni caldi e pittorici. La trama gialla procede fiaccamente, in un universo dove quasi tutti sono dello stesso sesso e indossano gli stessi vestiti, e la stessa sorpresa che prelude al vero finale non è né scioccante né molto credibile. Nella minestra sciapa un po' di pepe avrebbe dovuto mettercelo il personaggio di Poe, che non riveste però un ruolo determinante nelle indagini e di cui non viene rivelata – almeno così mi pare - nessuna verità né umana (tra l'altro lo scrittore innamorato del film, nella vita reale quattro anni dopo aver lasciato West Poin sposò una cugina tredicenne) né artistica (il film si limita a buttare lì qualche distratto omaggio come un corvo su un ramo, un cuore nascosto sotto un pavimento, o la pallida citazione nel titolo). Se il personaggio ha un fascino, è merito esclusivamente della fisicità particolare e dell'interpretazione lunare di Harry Melling; Christian Bale (già in Hostiles e ne Il fuoco della vendetta dello stesso Cooper e anche produttore del film) si destreggia in un ruolo che alterna melanconie cool e scoppi d'ira un po' incongrui.
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EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE di Daniel Kwan e Daniel ScheinertQuando ho letto delle undici candidature assegnate a Everything Everywhere All at Once mi sono precipitato a recuperarlo, perché fino al giorno prima a dir la verità non è che morissi dalla voglia di vederlo. Dopo dieci minuti mi ero già annoiato. Ma ho pensato: siamo solo all'inizio. Poi l'inizio è passato e ho cominciato a stupirmi. Non tanto che esista un film con questi canoni estetici (diciamo così), con questo livello di recitazione, con questa pseudo-sceneggiatura. Probabilmente film simili sono sempre esistiti, e io ho sempre cercato di non vederli. Ma che qualcuno abbia potuto anche solo di pensare di potergli dare non undici, ma anche un solo Oscar. Poi mi sono fatti i sudori freddi. Forse è che non ho (più) l'età. Forse sono vecchio, sono tagliato fuori, il cinema forse continua a scorrere e io mi sono spiaggiato sulla riva ad un certo punto e sono rimasto lì con le branchie fuori dall'acqua, mentre il fiume del cinema del futuro continua ad andare avanti, veloce, sempre più lontano da me. Ma quanti anni possono avere i giurati che l'hanno scelto per undici candidature? e i critici che l'hanno lodato? e che cinema hanno visto prima per dare undici candidature a EEAaO? Ma già all'inizio, quando la maionese del film deve ancora impazzire, nella scena della casa e della lavanderia, quando i registi devono farci già vedere quanto è incasinata la vita della protagonista: sono solo io che lo trovo lento, goffo, inadeguato? Poi la storia prende questa piega qua: come in Terminator c'è un uomo che viene da un'altra dimensione (là temporale, qui appartenente alla moltitudine degli universi possibili) a cercare la persona che potrebbe salvare l'umanità (là la rivolta delle macchine, qui un'entità maligna e distruttiva). Ma la linearità elegante del prototipo qui esplode in un caleidoscopio demenziale con schegge impazzite che volano in tutte le direzioni. Eh certo, dirà qualcuno, è il multiverso, la rappresentazione dell'infinità possibilità dei mondi possibili. Logico che sia così. Ma cosa c'è nel multiverso? Qual è la rappresentazione che se ne dà agli spettatori, e a quei pochi personaggi che, come in Matrix, conoscono com'è la realtà vera (cioè l'infinito, vertiginoso abisso delle realtà vere possibili?) Beh, vediamo, c'è Jamie Lee Curtis con parrucca e pancetta, un nonno che alla fine sembra trasformarsi in Tetsuo l'uomo d'acciaio, una cattiva che sembra una cosplay un po' patetica, un bagel (leggasi ciambella) in cui viene stipato l'universo, e poi cuochi con procioni sulla testa, gente e attori del film nel film che hanno dita di hot-dog, donne che inalato insetti vivi, uomini che mangiano il rossetto, combattenti che si autoinculano con trofei per la migliore impiegata delle tasse, ecc. ecc. Perché il presupposto per passare da un universo all'altro, a raccogliere le abilità che in questo universo non si hanno (in una schietta logica da video-game), è fare un gesto insolito e senza senso, e così oplà, ogni nonsense è ammesso e legittimato e tutti possono essere tutt'altro in tutt'altri universi. Se sapessi cos'è Tik Tok, direi che quello del film è il mondo trasformato in Tiktokverso, un delirio che non si sa se più vicino all'infantile o all'adolescenziale (si diverte di più un bambino o un adolescente a vedere due che fanno kung fu con delle statuette infilate nel culo? sono più i risolini con i denti da latte o le sghignazzate in mezzo ai brufoli?). E poi via di combattimenti di armi marziali, dove si lotta solo con i mignoli, o con un marsupio, o con gli attrezzi per le pulizie, e poi non so cos'altro, per un tempo che sembra finito, perché tutto si ripete all'infinito senza un vero perché, come una giostra roteante dove ci ripassano davanti gli stessi elementi (ecco il marito Alpha! il nonno! la figlia lesbica entità maligna! l'impiegata delle tasse! quelli che si menano! le carte del divorzio! le ricevute cerchiate! il bagel! ecco quelli con i diti di hot-dog! ). E insomma, gira, gira, e rigira ma non è mica poi così divertente. Annoia anche, e nausea. Ogni tanto il mio senso cinefilo cerca di strapparmi dall'apatia e dall'insensibilità causata dall'assordante ronzio del film-frullatore: guarda! C'è 2001 Odissea nello spazio! E guarda adesso! In the Mood for Love! IN THE MOOD FOR LOVE?!?!). Rattristato, vado a rivedere per che cosa è candidato, e la tristezza cresce, l'angoscia mi attanaglia la gola. Insomma, mi accorgo con disagio che l'elenco delle candidature e di quello che mi ha fatto schifo nel film più o meno coincidono. Miglior film. Miglior regia. Miglior sceneggiatura originale. E gli attori, mio Dio. Michelle Yeho (almeno lei ha dovuto farsi in quattro e anche più, lavandaia, attrice, cantante, pizzaiola, cuoca, combattente di arti marziali, donna delle pulizie, ecc.). Ke Huy Quan. Jamie Lee Curtis (poverina, non si sarà sentita umiliata rivedendosi?). Stephanie Hsu. Il montaggio, e grazie tante. E i costumi, la colonna sonora, la canzone. Non so cosa pensare. Forse è meglio che vada a rivedermi qualche film premiato agli Efa, insomma quel cinema europeo lì, magari un po' ostico, un po' antipatico, un po' imprevedibile, un po' adulto, che sta nella mia confort zone cinefila. Poi nell'avvilimento penso a Babylon visto solo qualche giorno fa, e a questa smania cinematografica di dire tutto, everything, tutti gli universi, everywhere, tutto il cinema, everymovies, tutta la Storia, everytime, tutte le storie, everystories, tutti i finali, every(the)end, come se un mondo, una storia, un film non bastassero. Come se tutto il cinema, tutta la vita ci passassero davanti agli occhi. Come succede alla Yeho già all'inizio del film. Ma non succede così quando si sta per morire? Sì: come se non ci fosse (più) un domani. PINOCCHIO DI GUILLERMO DEL TORO di Guilliermo Del Toro e Mark GustafsonNon c'è due senza tre: torno ad occuparmi di Pinocchio, dopo aver recensito per SegnoCinema il film di Benigni di vent'anni fa e aver disquisito sulla stessa rivista della versione di Garrone del 2019. Cominciamo col dire che guardando il Pinocchio di Guillermo Del Toro si ha l'impressione di vedere Pinocchio. Quello di Collodi, insomma. Invece è un'illusione ottica, perché si sta guardando, ovviamente, il Pinocchio di Guillermo Del Toro. C'è Geppetto padre amorevole, c'è il burattino di legno discolo e vivace, c'è il Grillo parlante, ci sono i libri di scuola e il circo, ci sono Lucignolo e il Pescecane. Ma poi? Poi c'è Guillermo del Toro. Che vira la fiaba sadica di Collodi in un apologo dark e politico che esalta la libertà e la ribellione l'autorità; che slitta l'epoca di ambientazione verso l'era fascista (analogamente, il franchismo faceva da sfondo a Il labirinto del fauno), dove le istanze dell'autorità messe in pagina da Collodi acquistano un altro più circostanziato risalto; cancella l'istanza femminile della Fata dai capelli turchini (compagna di giochi, severa maestra di morale, madre amorevole) per sostituirla con spiriti femminei e bluastri; fonde la negatività di Mangiafoco, del Gatto e della Volpe nel personaggio-crasi del signor Volpe, che sembra più vicino ai loschi manager de Il gatto e la volpe di Edoardo Bennato che al Mangiafoco collodiano; inventa un padre di Lucignolo fascista e guerrafondaio; cambia di segno al Paese dei Balocchi - convertendolo in un campo di giochi di guerra che prepara i ragazzini alla violenza e alla morte - e alla relativa punizione dei monelli edonisti, trasformandoli in virtuosi ribelli antimilitaristi; introduce un aiutante proppiano nella figura della scimmietta Spazzatura, inesistente nel romanzo (dove pure abbondano animali e personaggi zoomorfi), mentre lo schiacciamento del Grillo parlante (doppiamente parlante: sua è infatti anche la voce narrante del film) diventa un tormentone presumibilmente comico. D'altra parte la storia di Del Toro sembra prendere a rovescio il canovaccio collodiano: il film parte con un bambino “vero” (senza madre e con un padre molto anziano) e termina con un Pinocchio definitivamente orfano che è e sarà per sempre un burattino di legno. Lo stesso allungamento del naso, punizione umiliante per le bugie del monello, diventa un escamotage che garantirà fuga e salvezza ai personaggi rinchiusi dentro lo stomaco del pescecane. Pinocchio qui è molto più innocente, o per lo meno incolpevole, dell'originale e le sue sventure sembrano scaturire più da circostanze avverse che dai comportamenti avventati o disobbedienti del burattino: per fare un esempio, anche quando si brucia i piedi nel camino è su istigazione di Lucignolo e non per propria sventatezza. Collodi a Pinocchio gli amputa i piedi, lo impicca, lo fa condannare e imprigionare, lo fa ferire in una tagliola, ridurre alla catena come un cane, infarinare per essere fritto e mangiato; quindi lo trasforma in un asino, lo fa frustare, lo annega, lo fa ingoiare da un pescecane. La Fata turchina è continuamente oltre o in punto di morte, e anche l'amico Lucignolo muore senza mai redimersi dall'umiliante trasformazione in asino. Anche qui Pinocchio muore più volte, ma il suo andirivieni dal mondo all'al di là (dove i conigli neri, macabri becchini nel libro, nel film passano il tempo a giocare a carte) diviene un'oscillazione ritmica e quasi spensierata. Tuttavia l'operazione di positivizzazione morale e politica del personaggio e della storia non portano affatto ad una rappresentazione più allegra e giocosa, anzi. Fedele al proprio immaginario, Del Toro, con il coregista Mark Gustafson, impagina una fiaba dai toni gotici e lugubri, un universo corrusco e minaccioso abitato, questo sì in maniera consona al mondo di Collodi, da esseri mostruosi, tanto da renderne presumibilmente la visione poco adatta ai bambini più impressionabili. Se la scimmietta che diventa amica e alleata di Pinocchio è un essere brutto, sgraziato e guercio di nome Spazzatura, è sul personaggio di Geppetto che si può misurare la visione dell'autore: già vecchissimo fin dall'inizio, quando è padre del piccolo Carlo, alla fine del film, invece di ringiovanire come nel romanzo, muore, mentre Pinocchio, lungi dal trasformarsi in un bambino in carne e ossa, dopo la morte del papà e di tutti i compagni d'avventura, è condannato ad un'eterna esistenza da burattino; senza fili, certo, libero e svincolato dalle regole non solo sociali (il tema del lavoro come strumento di redenzione morale e di assunzione della responsabilità famigliare e sociale adulta è un'altra delle grandi assenze nel film) ma umane, compresa quella della caducità. Senza fili, senza regole, senza preoccupazioni, senza età - se non quella di un'infanzia eterna - senza legami, neppure più quelli degli affetti; ma pur sempre, e per sempre, un burattino di legno. THE MENU di Mark MylodGli ospiti colpevoli invitati su un’isola deserta con il successivo gioco al massacro, come in Dieci piccoli indiani; la cena infinita con gli ospiti imprigionati in un luogo senza via d’uscita, come ne L’angelo sterminatore; la cena terminale dove tutti sanno di dover morire come nel recente apocalittico-intimista Silent Night; l’annientarsi mangiando come ne La grande abbuffata (ma in una strategia eterodiretta di sottrazione anziché di consapevole eccesso; il personaggio demiurgico che dirige il set della propria rappresentazione-performance manipolando i personaggi in suo potere - alcuni complici e consenzienti, altri inconsapevoli e forzati - come in The Truman Show (là il demiurgo si chiamava addirittura Christo e operava da una sfera celeste, qui il deus-ex-machina, lo chef Slowik, è inquadrato più volte in primo piano con una sorta di aureola triangolare dietro la testa). Sono parecchi i riferimenti letterari e cinematografici che vengono alla mente guardando The Menu: e tutti i suoi temi che si stipano dentro la scatola della food mania che contrassegna forse oggi icasticamente il declino della civiltà occidentale proprio mentre pensa di esserne l’apice e il più raffinato simbolo e compimento. Qui l’isola deserta ospita solo un esclusivissimo ristorante (simile nell’aspetto a molti locali di extra-lusso, come il Noma di Copenaghen di cui si annuncia proprio in questi giorni la chiusura), oltre alla magione dello chef e al container che ospita il selezionatissimo personale di servizio. La dozzina di commensali invitati all’ultima cena (si potrebbe scrivere anche Ultima Cena, con dodici commensali e un celebrante) sono stati scelti accuratamente: tutti hanno qualcosa da nascondere, compresa Margot, la giovane donna che scoprirà di essere stata coinvolta per caso dal proprio accompagnatore fanatico buongustaio, sostituendo all’ultimo momento la sua fidanzata che ha scelto bene il momento per piantarlo. Come nel romanzo della Christie, tutti o quasi si sono macchiati di una colpa; come nel film di Buñuel tutti o quasi rappresentano una classe agiata che si crogiola nei propri privilegi, che confonde l’avere con l’essere - o meglio l’assaporare con il mangiare - lo status symbol con la sostanza, l’apparenza con la realtà. Dove il cibo stesso si disincarna (il pane è talmente raffinato da scomparire dalla tavola, dematerializzandosi e virtualizzandosi nella memoria dei propri condimenti) per diventare immagine, sensazione, effimera e quasi impalpabile esperienza. Ai tavoli del ristorante siede una società vanesia, velleitaria, corrotta, compiaciuta della propria fatuità. Il “fornitore di servizi” Slowik, il ristoratore, l’ha compiaciuta, blandita, gli si è asservito, ma solo per condurla sull’abisso della distruzione, per diventare lo chef, il dominus che capovolge la situazione, che si erge a giudice dei personaggi e li riduce in propria balia, convinto che solo un sacrificio supremo potrà redimere e sublimare insieme la propria somma abiezione e la corruzione dell’umanità. Slowik ha sacrificato tutto alla ricerca della perfezione astratta, ma ha dimenticato l’amore del far da mangiare: salvo dover umilmente ammettere la propria impotenza dinanzi alla fame, ad uno stomaco vuoto da riempire, infine, americanamente, con un succoso, carnoso cheeseburger. Ma detto questo, il Menu cucinato da Mark Mylod, pur mantenendo desta l’attenzione e la curiosità dello spettatore/commensale per la portata successiva, non può dirsi completamente riuscito, a causa soprattutto della sceneggiatura scritta da Seth Reiss e Will Tracy. Rispetto alle opere citate sopra, The Menu non possiede l’implacabile, geniale meccanismo narrativo ideato dalla Christie; la metafora non possiede la forza onirica di Buñuel; né la coerenza del mondo fittizio di Truman Show (diretto da Weir e scritto da Niccol). Le motivazioni di tutti i personaggi, vittime e carnefici (e talvolta entrambe le cose insieme) sono risibili (e sono gli stessi personaggi a rilevarlo); il segreto di Margot su cui si insiste nella parte centrale del film non è gran cosa; e l’invalicabile porta d’argento del moderno Barbablù, una volta aperta, non offre rivelazioni significative. Le metafore non lievitano, alcune “portate” (come “La follia del maschio”) sono veramente indigeste, altre, come la fuga offerta agli uomini del gruppo, degli inutili riempitivi che rovinano l’appetito. Quel che è peggio, ci sono alcuni momenti dove il grottesco dilaga, come nel finale con budini di cioccolato in testa ai commensali e giubbotti di mashmellows come corpetti costrittivi; e come il Ralph Fiennes con gli occhi lucidi di commozione davanti a un cheeseburger, che non non ha potuto non ricordarmi il cuoco vegano della sublime parodia di Maurizio Crozza. Con le sue spalle esili, le sue labbra stilizzate e i suoi occhioni da cerbiatta spiritata, Anya “Regina degli scacchi” Taylor-Joy è sempre una presenza incisiva e Nicholas Hoult è adeguatamente fatuo e vanesio; ma in definitiva The Menu rimane il frutto immaturo di una trovata interessante che non ha trovato la coerenza di struttura e la forza metaforica che avrebbero potuto farne un piccolo gioiello. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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