IL GIOCO DEL DESTINO E DELLA FANTASIA (Guzen to sozo) di Ryusuke HamaguchiIl gioco del destino e della fantasia mette in scena tre episodi in cui caso e sentimenti si intrecciano nel corso del tempo. Nel primo (Magia – o qualcosa di meno rassicurante) una ragazza riceve le confidenze dell'amica, che ha subito un colpo di fulmine per un ragazzo appena conosciuto. Una volta intuito che si tratta del suo ex, la brace si riaccende sotto le braci di quella che sembrava una relazione ormai superata, e davanti alle sliding doors che si aprono sul futuro dovrà prendere la sua decisione. Nel secondo (Porta spalancata) una ragazza è indotta dal suo amante che vuole vendicarsi di un suo professore a tendergli una trappola sessuale; ma la situazione è ribaltata quando lei è soggiogata dalla sua correttezza, dal suo autocontrollo e dalla sua onestà intellettuale, fino a commettere un errore fatale; ma, tempo dopo, verrà forse l'occasione di vendicarsi a sua volta. Nel terzo (Ancora una volta) due donne credono di riconoscere l'una nell'altra una loro conoscenza del passato; è un equivoco, ma assecondando la casualità e l'errore ognuna troverà nell'altra qualcosa che le mancava. Le protagoniste dei tre episodi appaiono sospese tra desiderio e rimpianto del passato, tra errori dalle forti conseguenze e finzioni, che raggiungono o meno lo scopo, ma che conducono comunque a delle rivelazioni su se stesse. Nel gioco della geometria e degli affetti, del caso e dell'attrazione, sembra di riconoscere in chiave esotica (e con una maggiore disinvoltura sui temi sessuali, aggiornati ai tempi) l'esprite de geometrie e l'esprit de finesse che era forma e sostanza del cinema dell'Eric Rohmer dei Racconti morali e del Ciclo delle stagioni; ma Hamaguchi riduce tutto ad una serie di dialoghi, in genere a due personaggi, rinunciando apparentemente a qualsiasi tentativo di vivificare la materia narrativa al di là della tensione psicologica e dialogica. A parte i brevi prologhi introduttivi (uno shooting fotografico; una scena all'università; una rimpatriata tra ex-compagni di classe) e le immagini simboliche che chiudono ciascun episodio (un cantiere; un tunnel; un abbraccio), tutto si riduce a lunghe sequenze di dialogo, con inquadrature prolungate, che escludono quasi completamente qualsiasi contesto. Un cinema in gran parte d'interni, con una fotografia non particolarmente brillante (almeno questa è l'impressione che ne ho avuto vedendo il film in un'arena estiva), affidato esclusivamente alla sceneggiatura e alla resa degli (e soprattutto delle) interpreti. Comunque, Orso d'argento al Festival di Berlino 2021.
0 Commenti
LA RAGAZZA CON IL BRACCIALETTO (La fille au bracelet) di Stéphane DemoustierIn questi tempi pandemici è difficile stilare un ordine cronologico delle produzioni cinematografiche, tra ciak, riprese interrotte, uscite sospese o rimandate, sortite fulminee e sfortunate. La ragazza col braccialetto, comunque, rimanda per assonanza ad un film quasi contemporaneo, Roubaix, une lumière (che ho recensito qui) per ragioni di cast e di assonanze tematiche. Il primo eclatante elemento è la carismatica presenza in entrambi i film di Roschdy Zem quale protagonista maschile; il secondo è quello della situazione e della struttura drammaturgica. Nell'uno e nell'altro caso ci sono al centro della narrazione giovani donne accusate di un efferato delitto; e se il film di Desplechin è occupato in gran parte dagli interrogatori dell'ispettore (interpretato appunto da Zem) alle due sospettate, in un'indagine che si fa quasi dostoevskiana, quello di Demoustier è ambientato in grandissima parte nelle aule del tribunale dove si svolge il processo ad un'adolescente accusata di aver ucciso a pugnalate la sua miglior amica. Nell'uno e nell'altro caso i personaggi interpretati da Zem sono impegnati in una terribile battaglia per comprendere la verità e le origini del male, ma mentre in Roubaix a condurre l'inchiesta è un ispettore di polizia, ne La ragazza è un padre sconvolto a dover cercare nel vissuto della propria stessa figlia le radici della possibilità o dell'impossibilità di un male insospettabile e devastante. Il contesto è differente; ne La ragazza con il braccialetto siamo lontani dal disordine e dalla marginalità sociale descritti in Roubaix. I Bataille sono una famiglia agiata e tranquilla; una coppia di professionisti, una figlia adolescente al liceo e un fratellino più piccolo; una bella casa, un'altra casa per le vacanze al mare. Una famiglia (che potrebbe essere) felice come tante. Ma da due anni, dopo che la sedicenne Lise è stata arrestata durante una giornata in spiaggia con la famiglia, la loro vita ha preso un corso completamente diverso. Lise ora porta un braccialetto alla caviglia ed è sotto processo per l'assassinio di una sua coetanea, l'amica del cuore. Aveva il movente e l'occasione per uccidere. Lo ha fatto veramente? Al processo Lise si trincera dietro un'espressione imperturbabile e impenetrabile, appena increspata a volte da un'ombra di nervosismo o di fastidio; le sue risposte sono secche, taglienti, ma i suoi frequenti silenzi sono impossibili da penetrare e da interpretare. I suoi genitori (Zem e la riluttante madre interpretata dalla Mastroianni) vedono dipanarsi lungo le ricostruzioni processuali e le ammissioni della ragazza un ritratto della propria figlia completamente differente da quello che pensavano di conoscere molto bene, un insospettabile vissuto fatto di promiscuità sessuale, di rancori profondi, di esperienze pericolose, di sentimenti insondabili. La ragazza con il braccialetto non ha nulla del romanticismo della ragazza con l'orecchino di perla; il suo “gioiello” non è un ornamento di bellezza, ma un marchio di sospetto e di infamia; è un braccialetto elettronico alla caviglia, per scongiurare i rischi di fuga, e la catenina con cui lo sostituisce nell'ultima sequenza è l'ultimo sigillo di un enigma tremendo e indecidibile. Demoustier si ispira al film argentino Acusada, del 2018, diretto da Gonzalo Tobal, scritto con Ulises Porra e presentato alla Mostra di Venezia, ma lo asciuga fino ad ottenere un dramma processuale freddo e rigoroso. Pochissima musica in colonna sonora, larghissima prevalenza dei primi piani, economia delle ambientazioni (la casa, l'aula del tribunale), parsimonia dei movimenti di macchina, rigido controllo espressivo degli interpreti, con un tour de force di indecifrabile impassibilità e di sfumature sottili imposto all'esordiente Melissa Guers, spesso inquadrata frontalmente, con lo sfondo rosso intenso delle pareti dell'aula processuale alle sue spalle. Demoustier, mentre mostra il duello formale tra un determinato Pubblico Ministero (interpretato dalla propria sorella) e un'avvocato che cerca di scongiurare il pericolo che Lise venga condannata per la propria amoralità percepita, anziché per il delitto ascrittole, lascia che l'incandescenza, che pure si percepisce benissimo, sia tutta interna ai personaggi familiari; nel mistero dell'animo di Lise e della sua verità; nello sgomento del padre Bruno che ha perso ogni certezza e non sa più a cosa credere; nell'inutile tentativo di sfuggire alla realtà della madre Cèline, alla fine costretta a costruirsi una propria intima presunzione d'innocenza e a perorarla in aula davanti alla madre della vittima. E' difficile stabilire chi ha ucciso l'amica di Lise; ma è impossibile comprendere davvero l'animo umano, anche delle persone che ci stanno più vicino. THE FATHER - NULLA E' COME SEMBRA di Florian ZellerIl sottotitolo italiano, Nulla è come sembra, è veramente infelice. Primo perché rivela già quello che bisogna aspettarsi e indebolisce il mistero del film, e poi perché lo fa assomigliare ad un dozzinale film di truffe, illusionismi o sorprendenti colpi di scena. E' vero, si rimane spiazzati guardando il film. Già nei primi cambi di sequenza ci si accorge che c'è qualcosa che non va. In una sostanziale unità di luogo (il film deriva dal testo teatrale di Florian Zeller, che debutta alla regia dirigendo anche l'adattamento cinematografico scritto insieme a Cristopher Hampton – che a sua volta aveva già scritto nel 1985 The Good Father, la storia di un padre interpretato da Hopkins), ci troviamo a che fare con un tempo disomogeneo e indecidibile, con un'azione dove i fatti e le parole dette si trovano ad essere smentiti o falsificati pochi minuti dopo. Uno stesso personaggio sembra avere volti, o addirittura nomi, diversi. E' difficile dire quanto tempo passa tra una sequenza e l'altra, decidere se quello che abbiamo visto è realtà o allucinazione, se una sequenza è successiva alle altre o se stiamo assistendo alla medesima scena da un punto di vista differente. La situazione è in parte analoga a quella di film come Mother! (che ha guarda a caso un titolo a specchio rispetto a quello di cui ci stiamo occupando) o Sto pensando di finirla qui, anch'essi ambientati - o meglio perduti - all'interno di labirinti onirici e mentali. Ma in questo caso la storia, pur all'interno di un'entropia narrativa e percettiva, è paradossalmente molto semplice e lineare. Anne si occupa del padre Anthony, affetto da demenza senile, e cerca di convincerlo ad accettare l'assistenza di una badante. Suo marito comincia a vivere con insofferenza la dedizione con cui la moglie si fa carico di questo fardello e propende per un ricovero in una casa di cura. Una situazione dolorosa ma banale, probabilmente presente nell'esperienza di vita o comunque conosciuta da molti spettatori. Null'altro. Nel film non ci sono trucchi, non ci sono inganni, non ci sono colpi di scena clamorosi. La storia non fa altro, purtroppo, che fare il suo corso. Quello che è rende particolare il film è il punto di vista adottato, che gli conferisce a volte quasi le cadenze di un horror psicologico. Noi vediamo le cose attraverso la percezione di Anthony alterata dalla malattia. La nostra confusione di spettatori è radicata nella sua confusione mentale, che non gli permette più di dare un ordine al mondo, di serbare ricordi precisi di quanto accade, di riconoscere le persone e di interagire con loro. La narrazione, apparentemente così oggettiva, limpida e domestica, è corrotta e viziata all'origine dal decadimento mentale del protagonista, che non si rende conto della propria malattia e che cerca inutilmente di combattere in difesa della propria autonomia e della propria dignità. Olivia Colman, già apprezzata ne La favorita di Lanthimos, è brava nel ruolo della figlia che vede il padre soccombere alla malattia e pronunciare inconsapevolmente verità dolorose, ma Zeller ha trovato in Anthony Hopkins l'interprete perfetto. Hopkins costruisce il suo Anthony (attore e personaggio hanno lo stesso nome) con i mattoni del suo mestiere e della sua storia d'attore: quel carattere freddo, di intelligenza sopraffina, arguto, aristocratico e un po' sprezzante che appartiene a tante delle sue interpretazioni; ma accetta poi di lasciarli sgretolare corrosi e aggrediti dalla malattia, dall'incertezza, da un'umana debolezza senza rimedio. Anthony appare ridicolo e buffo quando lo vediamo tentare di dominare con l'astuzia e la forza di carattere una realtà e degli antagonisti che ormai sono del tutto al di fuori del suo controllo, ribaltando quegli equilibri di potere e di superiorità cui era abituato; ma è degno di compassione quando ci identifichiamo nel suo disorientamento, nella larvata consapevolezza di essere parte di un mondo sul quale non può più esercitare alcun potere e del naufragio della propria personalità e delle proprie facoltà; e degno di pietà quando infine si abbandona ad un irrefrenabile pianto di disperato, irrimediabile smarrimento. Sia agli Oscar che ai Bafta insindacabili premi alla sceneggiatura non originale e all'interprete protagonista. Leggi anche la recensione de IL FIGLIO, di Florian Zeller, nella messa in scena di Piero Maccarinelli, in cartellone al Teatro Franco Parenti di Milano fino al 3 marzo 2024. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|