ELVIS di Baz LuhrmannThe Making of Elvis Presley ovvero Elvis Aaron Presley vs Colonel Thomas Andrew Parker, aka Andreas Cornelis (Dries) van Kuijk Perché Elvis è il racconto di un mito (con dovizia di particolari e un arco narrativo che copre buona parte della vita dall'artista, dall'infanzia al prematuro decesso), ma nello stesso tempo è il racconto della costruzione di un mito, con un focus bipolare che a dispetto del titolo sintetico e monocratico si sdoppia su due personaggi: quello di Elvis Presley, cantante e musicista dalle doti naturali dirompenti, e quello del sedicente Colonnello Parker, prima imbonitore da circo, poi agente musicale con qualche scheletro nella propria valigia di immigrato clandestino apolide; colui che farà di un estroverso ragazzo del Sud un divo tra i più idolatrati, un mito planetario, un'icona, una merce tra le più desiderate. Parker sarà colui che farà di Elvis quello che è ed è stato nella storia della musica e del costume, ma anche il suo carceriere. Sarà quello che esalta il lato selvaggio di Elvis, che sbatte in faccia al suo pubblico (soprattutto femminile) il suo pube ipercinetico, ma anche quello che lo castrerà quando la reazione benpensante si fa troppo pericolosa; quello che porta al successo la miscela di country tradizionale e di dirompenti sonorità blues, rythm'n'blues e gospel (Elvis stringe amicizia con molti musicisti neri, come B.B. King e molti altri), ma che preferisce spedirlo in esilio militare in Germania quando gli animi dell'establishment razzista e segregazionista si infiammano; quello che ne fa una star planetaria, ma anche quello che lo ingabbia nel deprimente declino di Las Vegas. Ci sono più scene rappresentative del modo di raccontare di Baz Luhrmann (Ballroom, Romeo + Giulietta, Moulin Rouge, Il Grande Gatsby): una è collocata verso l'inizio del film, quando Elvis ha una crisi di panico prima di salire sul palco per la sua prima esibizione pubblica, mentre i suoi compagni lo incoraggiano; e quando il piccolo Elvis ascolta rapito i musicisti neri che suonano il blues nelle stamberghe del quartiere afroamericano; e quando il piccolo Elvis cade in trance ascoltando il gospel nella chiesa battista; e quando il giovane Elvis si presenta alla sede della Sun Record: perché tutto nel cinema di Luhrmann succede contemporaneamente, le narrazioni si accavallano, luoghi e tempi diversi si fondono nell'ansia del racconto. Montaggio alternato e sincopato, continui moviemnti di macchina, split screen, sovrimpressioni, saturazione sonora, sono tutti espedienti tecnici per combattere l'horror vacui e restituire la sovrabbondanza della vita e del racconto, espressioni dell'ansia di dire tutto, di più, e tutto insieme. In un'altra sequenza Elvis e il Colonnello sono nel labirinto di specchi, dove le loro immagini si rispecchiano all'infinito: moltiplicazione iconica (Elvis diventerà presto pupazzetti, poster, spillette, tazze e qualsiasi altro oggetto vendibile) e duplicità, con un giovane Faust ingenuo che non trova la strada e uno smaliziato Mefistofele che sa bene dove vuole (farlo) arrivare. Ancora, i due discuteranno del loro futuro e del loro destino su una ruota da luna park: è il circo visivo di Luhrmann, che credo non deluderà i fan di Elvis e stupirà il pubblico con il suo cinema pirotecnico, esibizionista, massimalista, che cita se stesso e il cinema d'altri (Orson Welles innanzitutto). In questi tempi di magra, e al di fuori del cinema di supereroi, Elvis è uno dei pochi veri blockbuster che valga la pena di vedere. Un paio di volte: in lingua originale, magari con i sottotitoli, per godere appieno delle interpretazioni di Austin Butler e di Tom Hanks; e poi doppiato per una visione meno concitata - visti i ritmi e la sovrabbondanza degli stimoli visivi, sonori, letterali, informativi - dall'esigenza di tradurre o leggere i sottotitoli. Buona visione/ascolto. Se volete saperne di più, leggete il mio articolo sul numero n. 236 di SegnoCinema, in distribuzione nel mese di luglio.
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I TUTTOFARE (Seis dies corrents) di Neus BallùsIl cinema di quest'anno è stato piuttosto prodigo (il Labour Film Festival che si tiene a settembre-ottobre a Sesto San Giovanni ne è una dimostrazione) di racconti legati al mondo del lavoro oggi: dai riders alle donne delle pulizie, dalle lavoratrici d'albergo a quelle degli aerei, dai manager agli imprenditori. Mancavano loro all'appello, idraulici ed elettricisti, e ci ha pensato la catalana Neu Ballùs a metterli in scena. Idraulici ed elettricisti veri, scelti dalla regista, preparati e lanciati in un film che offre molto spazio all'improvvisazione. E i protagonisti, il catalano burbero e un po' razzista di Valero Escolar e il marocchino timido e serio di Mohamed Mellali, se la sono cavata talmente bene da meritarsi il premio come migliori attori al Festival di Locarno 2021. La Ballùs, nell'arco dei sei giorni in cui si svolge la narrazione e che sono citati nel titolo originale, manda i suoi uomini a lavorare in diverse case, da quella dell'anziano dove non funzionano gli scarichi a quella ricchissima che sta istallando tutti gli impianti di domotica possibile, e la voce fuori campo insiste su quest'aspetto di vedere di scorcio “la vita degli altri”, come anche sui discorsi sulla natura e sull'etica del lavoro; eppure si direbbe che all'autrice non interessi tanto né offrire uno spaccato della società catalana attuale, e nemmeno imbastire un discorso sulle condizioni di lavoro nel mondo di oggi. Piuttosto, la sua attenzione è tutta presa dai rapporti tra i tre personaggi principali: il veterano Valero, amareggiato dal suo corpo che aumenta di stazza e peso, che vede con fastidio e diffidenza l'affiancamento del più giovane Moha, che oltre ad essere straniero (ma con tanta voglia di integrarsi: oltre allo spagnolo sta seguendo anche dei corsi di catalano) è anche più snello; e l'anziano e pragmatico Pep, che ha deciso di andare in pensione e cerca di mediare tra i due, per ammansire il carattere scontroso di Valero e lasciare dietro di sé un nuovo affiatato o per lo meno compatibile gruppo di lavoro. Quello che è interessante, e che costituisce insieme il pregio e il difetto del film, è il metodo della Ballùs, che mette i suoi non-attori in situazioni potenzialmente umoristiche – e qualche volta drammatiche, come in occasione degli screzi interni al gruppo o della lite con i muratori e piastrellisti – per poi abbandonarli a se stessi e ai rischi dell'improvvisazione. C'è una evidente costruzione delle situazioni di base (il sedicente centenario che spiega i suoi segreti a Moha; le gemelline terribili e Valero e Moha che rimangono chiusi sul balcone; Moha convinto a posare seminudo nello studio di una fotografa; l'intervento a casa dello psicoanalista e le bizze della casa domotica), che sembrano però dei semplici canovacci di partenza in cui la regista sta poi a guardare cosa succede. L'impressione è da una parte di naturalezza e di spontaneità, dall'altra di incompiutezza e inconcludenza. Alla fine però la morale è salva – e si può formulare come “ciascuno è uno straniero solo fino a quando non lo conosci” - e così pure la simpatia che si finisce per provare per i personaggi, “odioso” Valero compreso. TOP GUN: MAVERICK (Usa) di Joseph KosinskiSono io che invecchiando sono diventato schizzinoso? Perché mi succede di vedere film che sugli altri siti hanno avuto 4 stellette su 5 quando io farei fatica ad elargire la seconda? Mi è capitato recentemente con Ambulance di Michael Bay, e ora di nuovo con Top Gun – Maverick. O forse sono troppo giovane e con me il ricatto della nostalgia non funziona. Non mi eccita l'aura vintage, non mi commuovo se vengono usate le immagini, le situazioni, i controluce del film di Toni Scott dell'86, non mi suscita niente rivedere i vecchi personaggi. E mi sembra di vedere ad occhi asciutti il film per quello che è: un'americanata fuori tempo massimo, con le bandiere, l'ideologia di chi ritiene di essere sempre nel giusto senza avere mai un dubbio, la galleria di personaggi stereotipati, la ripetitività dell'azione (prodromi, preparazione e realizzazione dell'ennesima mission impossible). Maverick, da cavaliere rampante, torna dopo 36 anni con stimmate da eroe da western crepuscolare, di quelli che sembrano aver fatto il loro tempo, sopravanzati dalla tecnologia e dalla gioventù. E invece no, anzi: che sarà anche capace di battere gli aerei più moderni e sofisticati con un reperto da museo dell'aviazione. Intorno a lui, al di fuori dell'ambiente strettamente militare troviamo solo, al bancone del bar, la Vecchia Fiamma, ovviamente single e disponibile a riammetterlo subito nel suo letto; mentre nella scala gerarchica militare troviamo tutte le figure come avremmo potuto immaginarcele: il Vecchio Amico, che solo lo conosce a fondo e lo richiama in missione perché sa – a ragione - che è l'unico che potrà portarla a termine; il Superiore Ostile che tenta di mettergli i bastoni tra le ruote Ma Alla Fine Si Dovrà Ricredere; il Giovane Ribelle e rancoroso che però alla fine si dimostrerà un Figliol Prodigo; il Giovane Arrogante e strafottente, che però alla fine si dimostrerà un Bravo Ragazzo e un Compagno Leale; la Donna, Che Non Ha Nessun Aggettivo Speciale, ma ha la sola caratteristica di avere le palle come e forse più dei suoi compagni Veri Uomini. In questo war games dove ogni cosa va come si poteva prevedere potesse andare (e gli aerei intanto zigzagano, salgono, scendono, bombardano si rialzano, tornano alla base e poi via da capo), tutto è talmente stilizzato che non ci si preoccupa nemmeno (o, al contrario, ci si preoccupa fin troppo) di nominare il Nemico, indicato semplicemente come un anonimo Paese Canaglia senza nome, con centrali nucleari senza uranio, piloti senza volto (il casco - a differenza di quelli americani che, trasparenti, mostrano tutte le umanissime emozioni - è totalmente coprente), e poi silhouette di aerei, silhouette di batterie antiaeree (ma perché non tentare di neutralizzarle preventivamente con qualche lancio di Tomahawk per favorire la fuga dei nostri eroi?), scie di missili nel cielo. Alla fine sventolio di bandiere, sorrisi e abbracci, ravvedimenti e riconciliazioni, gloria e onore. E al centro di tutto, per tutto il tempo, c'è stato lui: Tom Cruise con il suo sorriso smagliante senza una scalfittura, il suo corpo inossidabile e cinetico (ne avevo già parlato qui), che vola, resiste ad accelerazioni inumane, naviga a vela, corre in moto, gioca a palla, va a letto con la bella (si sarà accorto che gli hanno scambiato Kelly McGillis con Jennifer Connelly? - non che gli sia andata male). Continuerà così per sempre? Con tutto il cuore glielo auguriamo e un po' lo invidiamo. AMBULANCE di Michael BayNo, ma davvero? Parliamone.
Ambulance di Michael Bay inanella personaggi e situazioni stereotipati fin dalla prima sequenza, con la moglie malata con bimbo in braccio e marito amorevole e musica melensa, poi l'innocente coinvolto suo malgrado nell'azione delittuosa dal fratello dall'anima nera, quei brutti ceffi dei complici, la rapina progettata nei minimi dettagli che ovviamente va a catafascio, gli infermieri già intravisti che verranno ovviamente coinvolti nella fuga (il film d'altra parte si intitola Ambulance) e così via. Così via: la sparatoria alla Heat, gli inseguimenti da sfasciacarrozze, la fuga contromano, la sequenza nel LA River come in Vivere e morire a Los Angeles, qualcosa alla Tony Scott, l'infermiera eroica, i cattivi redenti, i poliziotti stupidi, i gangster fuori di testa, Los Angeles sfondo e protagonista, Grand Theft Auto come navigatore, i flashback sui tempi innocenti dell'infanzia, le bancarelle rovesciate dalle auto in fuga, le macchine della polizia che deragliano come nei Blues Brothers, l'unità di tempo e azione come in Speed, (con tanto di operazione chirurgica con mani e fermacapelli su ambulanza in corsa; qui la battuta migliore del film, quando in risposta agli inviti a rallentare il rapinatore alla guida chiede se vogliono fare l'inseguimento più lento del mondo) e poi via così e via così. Senza che in tutto il film non ci sia uno ma dico un personaggio che si comporti mai con un minimo di logica o di banale buon senso. Allestire una sagra dello stereotipo e dell'illogicità non è senza conseguenze; e il grande gioco ludico e adrenalinico (corre l'obbligo di definirlo così), impegna tempo e pazienza dello spettatore per la durata abnorme di due ore e un quarto (l'originale danese di cui è il remake arrivava alla meta in 76 sani minuti), dopo che interesse e credibilità si sono già azzerate in pochi minuti. A togliere qualsiasi illusione c'è il rapinatore che invita il poliziotto ad entrare in banca durante la rapina, e poi l'interminabile sbobba manniana della sparatoria e della fuga dalla banca. Poi tutto scorre senza pathos, senza emozione, senza thrilling, senza interesse per il destino dei personaggi. I quali tutti, in ogni occasione, si comportano in modo demenziale, perché in modo demenziale è stata scritta la sceneggiatura e in modo demenziale la asseconda la regia di Bay, che cerca di renderla pirotecnica muovendo la macchina da presa sempre, dovunque e in qualsiasi situazione, con giravolte, riprese aeree, zoomate, tutto quanto può servire a cercare di frastornare lo spettatore e fargli dimenticare l'assoluta mancanza di senso e di coerenza del tutto. Le energie le assorbe tutte il montaggio (dell'italiano Pietro Scalia cha un paio di Oscar all'attivo); la musica è prevedibile e di servizio, l'epilogo, come si poteva prevedere, bassamente moralistico. L'unico che pare divertirsi è Jake Gyllenhaal, che può andare sopra tutte le righe che vuole; Yahya Abdul Maaten II deve ingessarsi (pur nel ritmo frenetico che gli gira intorno) nel ruolo del bravo padre di famiglia che è stato coinvolto anche se lui non voleva, e Eiza Gonzalez è un'infermiera patinatissima anche con la faccia schizzata di sangue. Se Bay pensa che basti autocitare i suoi primi film per diventare un autore, si sbaglia. Se c'è qualche ragazzino che si diverte sulla sua giostra imbizzarrita, buon per lui. Per quanto mi riguarda, ambulanza per ambulanza, mille e mille volte meglio l'esordio italo-belga e low budget del The Shift (leggi la recensione) di Alessandro Tonda. Analogie a non finire (unità di luogo, tempo e azione a bordo dell'ambulanza, paramedici ostaggi, il ferito a bordo, la polizia in azione). Ma lì, a dispetto del budget limitato e dell'assenza di divi, c'erano personaggi, pensiero, contemporaneità, etica, credibilità, tensione, fiato in gola, respiro sospeso, umanità: tutte cose di cui nell'Ambulance di Bay non ho trovato traccia. NOSTALGIA di Mario MartoneE' un ritorno quello di Felice Lasco, il protagonista di Nostalgia, in una Napoli dalla quale Mario Martone non è mai veramente partito. E' strano, ma forse nemmeno poi tanto, pensare come uno dei registi italiani più intellettuali, presente spesso nei festival internazionali, sia così intimamente, indissolubilmente legato ad un luogo preciso, ad una stessa città. La riscopre stavolta (perché la conoscenza si ha solo attraverso la nostalgia, e si possiede veramente solo dopo essersi perso, come recitano i versi di Pasolini messi in esergo al film) attraverso le pagine di Ermanno Rea e gli occhi di Felice, che ne è stato lontano per 40 anni, emigrato quindicenne in Libano, poi in Sudafrica, poi in Egitto. Felice ha ora un'altra fede (è diventato mussulmano), un'altra lingua (si adegua faticosamente – e Favino è abile nel farcelo percepire – ad esprimersi in italiano o napoletano), un'altra professione (è un imprenditore edile), un altro gusto, e, in definitiva, un'altra vita. Ma il ritorno a Napoli lo stacca immediatamente dalla propria condizione attuale (la bella casa, la bella moglie, la sicurezza economica), per immergerlo in un passato che sembra ancora presente. Nello skyline della città svettano i grattacieli del moderno centro direzionale, la madre è invecchiata, e da lì a poco morirà, Felice è un altro uomo; eppure immergendosi nel Rione Sanità dove ha vissuto la sua giovinezza ha l'impressione che tutto sia rimasto come allora. Eppure non è una città accogliente quella in cui si cala Felice. Napoli è una città sporca, disordinata, ostile, dove si ha l'impressione di essere spiati ad ogni passo, da ogni finestra e da ogni angolo, e dove ogni rombo di motorino nei vicoli ha il suono di una minaccia. La moto appena acquistata viene bruciata sotto casa, sulle mura del suo appartamento viene dipinta la scritta “SCOMPARI”. Quella di Felice è un'immersione non solo in un luogo, ma anche nel tempo: quel passato (felice, rievocato in immagini vintage anche nel formato più ristretto di proiezione) in cui correva in moto abbracciato all'amico del cuore Oreste, insieme al quale faceva il bagno nudo in mare e la cui fotografia conserva ancora ripiegata nel portafoglio. Ma è anche l'epoca della frattura, di un episodio luttuoso che ha determinato il suo allontanamento dall'Eden napoletano e nello stesso tempo ha segnato in modo irreversibile la sua vita e quella di Oreste (che porta la tragedia insita nel suo stesso nome), che ora è uno spietato boss della camorra che teme le conseguenze del ritorno dell'amico di un tempo, pericoloso (?) testimone di un fatto ormai lontano nel tempo. Più sopra ho usato il termine “calarsi” non a caso, perché anche fisicamente il percorso di Felice è un percorso discendente: dai piani alti dell'hotel in cui alloggia all'inizi, e da cui guarda il panorama della sua città, al piano della strada, lungo le sue peregrinazioni e le sue esplorazioni diurne e notturne (in una città cui la fotografia di Paolo Camera nega la sua proverbiale solarità), ma anche dove il prete, “di strada” appunto, cerca di offrire una prospettiva ai ragazzi del quartiere che non sia quella dell'abbandono alla malavita e alla sua subcultura; fino ai “bassi” senza luce che a livello della strada aprono le proprie finestre, e ancora più in profondità verso le catacombe della Napoli sotterranea, dove Felice troverà un momentaneo punto di congiunzione tra il passato e il proprio presente. Che sia una discesa verso il “cuore di tenebra”, il punto in cui Felice arriverà a confrontarsi con il lato oscuro di se stesso (riacquistando istantaneamente come per magia anche l'uso del dialetto che sembrava perduto e disusato) e con il proprio doppio rappresentato da Oreste, che quando i loro percorsi si sono biforcati ha seguito la via del male e dell'orrore, Martone lo dice esplicitamente con una citazione inattesa, facendo mimare al Tommaso Ragno che impersona Oreste, quasi del tutto assente per gran parte del film, la stessa gestualità del colonnello Kurtz interpretato da Brando, che emergeva dall'ombra, la testa nascosta tra le mani, nell'Apocalypse Now di Coppola. Nostalgia è un film rizomatico, lento, che richiede la pazienza dello spettatore, affidato in buona parte alla fisicità fuori luogo e agli occhi spaesati, commossi eppure famelici di riappropriazione e di risarcimento di Pierfrancesco Favino. Il finale è nello stesso tempo previsto (la tragedia era già inscritta nell'ordine della narrazione) e stridente, non sostenuto dalla logica delle dinamiche drammaturgiche: quasi che a prevalere fosse la deformazione professionale camorristica, o la pigra forza d'inerzia del male. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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