MISSION: IMPOSSIBLE - FALLOUT di Cristopher McQuarrieMission Impossible: Fallout è essenzialmente un film geometrico, basato anzi su una doppia geometria. Una è quella della trama (da intendersi anche in senso letterale, come ordito, congiunzione di fili che compongono un disegno o un tessuto), dove si intrecciano i rapporti tra i personaggi, le alleanze continuamente ribaltate e ribaltabili, le doppie identità, le false identità e le identità nascoste, i doppi giochi e i tripli giochi. E’ appunto una geometria euclidea, dove il sopra e il sotto non esistono, le facce del piano sono speculari e parimenti percorribili. Ma senza che questo implichi una confusione dei ruoli o tra il bene e il male: i buoni restano sempre squisitamente buoni, i cattivi inguaribilmente malvagi, i cinici (in genere appartenenti ai servizi segreti governativi) incrollabilmente convinti che qualsiasi fine giustifichi qualsiasi mezzo. I buoni aiuteranno sempre l’amico in pericolo e si adopereranno sempre per salvare il mondo; i cattivi al contrario dedicheranno tutte le loro energie a distruggerlo, il mondo, convinti che un nuovo ordine (?) sorgerà solo da un’immensa sofferenza (nel film lo si ripete come un ritornello); i cinici se ne fregheranno degli uni e degli altri, utilizzandoli come pedine su una scacchiera dove non è importante vincere la partita quanto mettersi nella situazione utilitaristicamente migliore in quel dato momento. La seconda geometria è quella dello sviluppo narrativo, essenzialmente lineare e paratattico, basato sulla congiunzione in serie di segmenti in cui la figura chiave è quella dell’inseguimento, impaginati su sfondi intercambiabili (Parigi, Londra, il Kashmir) come quelli di un videogame. In automobile, in moto, in motoscafo, a piedi, in elicottero, il movimento si svolge sempre su un piano orizzontale (la scena in caduta con paracadute è solo un’eccezione che conferma la regola), dove qualcuno insegue qualcun altro ed eventualmente è seguito da qualcun altro ancora. E’ una linearità apparente, continuamente insidiata da una minaccia frattale, dove i pezzi accessori, residuali e inessenziali del mondo che non appartiene all’azione dei personaggi (come le automobili nel traffico parigino, o le stesse montagne del Kashmir nella loro rocciosa ma pericolosamente letale immobilità) minacciano in continuazione di spezzare la linea, o di deviarla, o di farla esplodere. Cruise, spesso stuntman di se stesso (sul set ha subito un infortunio che ha tenuta ferma la produzione per settimane), è il vero autore del film (ne è anche il produttore), che intorno al suo corpo in perenne movimento trova non solo il focus narrativo, il filo conduttore, ma la stessa propria ragion d’essere. Alessandra, che ha visto il film con me, si chiedeva chi fosse in grado all’uscita di riraccontare l’intricatissimo intreccio del film; ma è facile, e non ci sono fili da snodare: la trama si racconta dicendo che Ethan Hunt insegue qualcuno, poi è inseguito da qualcun altro; che Tom Cruise corre, scappa con la moto, si butta nelle fogne, scappa col motoscafo, salta da un palazzo all’altro, insegue qualcuno in elicottero, poi in cima alla montagna, e così via. Poco importa del resto. Il godimento è cinetico e cinestetico, legato alla meccanica del movimento, in grado di tenere dentro di sé tanto l’ironia del gioco degli equivoci (il socio di Hunt che dà indicazioni a Hunt durante un inseguimento alla cieca, tracciando i movimenti del cattivo attraverso un geolocalizzatore, ma guardando una mappa 2D e ignorando che Hunt si sta muovendo non a livello del suolo ma lungo gli ultimi piani dei grattacieli londinesi...), quanto le citazioni del cinema d’azione classico (gli inseguimenti automobilistici contromano alla Friedkin o alla Frankenheimer). Il divertimento vertiginoso non è inficiato nemmeno dalla preoccupazione per la sorte dei nostri eroi. Tanto lo sappiamo già che a scomparire saranno solo le comparse, o al limite i più cattivi (per quanto non è neppure escluso che possano trovare il modo di tornare in episodi futuri); i buoni devono sopravvivere (con l’eccezione di una morte, senza troppo pathos né rimpianto), icone mobili già pronte a schierarsi in un nuovo sequel, a riprendere la corsa accanto o meglio dietro all’inossidabile, indistruttibile, inarrestabile Ethan Hunt. Con tanti auguri di buona salute al 56enne Tom Cruise; al quale, evidentemente, il moto fa solo bene.
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LA TRUFFA DEI LOGAN (Logan Lucky) di Steven SoderberghJimmy Logan era un quarterback promettente, ma ora è solo un operaio divorziato con una gamba offesa, che le aziende licenziano per non avere problemi con l’assicurazione. La sua figlia piccola, affidata alla madre risposata con il classico venditore di automobili, sogna di trionfare nei concorsi di bellezza e nei talent per bambini. Clyde, il fratello di Jim, ha perso un braccio in Iraq e ora gestisce un bar di terz’ordine; Mellie, la loro sorella, lavora come dipendente in un negozio di parrucchiera. Sullo sfondo, un’America reazionaria, venale, consumista, che ha dimenticato l’umanità e la solidarietà, dove il valore sovrano è il denaro e l’assistenza sanitaria pubblica consiste in un camper itinerante sovvenzionato da donatori privati. Ma La truffa dei Logan non è uno spaccato sociologico dell’America profonda, impoverita e imbarbarita (quella che in Trump ha visto la possibilità di una revanche e della rinascita di un american dream che è più o meno il contrario di quello sognato da Obama). O non solo. Soderbergh, dopo aver dichiarato che non avrebbe più fatto cinema, dirige un heist-movie (cioè un film di rapina, di colpo grosso), sulla base di un’arzigogolata ma efficientissima sceneggiatura firmata da Rebecca Blunt (la cui esistenza è stata messa in dubbio da più parti: chi ipotizza che sia la moglie di Soderbergh, chi, ed è comprensibile, Soderbergh stesso), con evidente divertimento. Smessi i panni cool ed eleganti dei compagni di Ocean, i rapinatori sono stavolta una “banda di contadinotti”, come vengono definiti dai media, degli sfigati (sulla famiglia sembra gravare una maledizione, che però viene ribaltata dal titolo originale stesso, che predice la Logan Lucky), degli insospettabili per apparente insufficienza intelligenza, capacità progettuale, competenza tecnica, sangue freddo. Tutte qualità che invece i Logan dimostrano di possedere, progettando e portando a termine un colpo "in famiglia" che svuota i forzieri sotterranei di un grande circuito automobilistico sportivo, approfittando della conoscenza dei luoghi di Jimmy che ha lavorato nei suoi sotterranei per dei lavori di manutenzione straordinaria. Il piano implica addirittura l’arresto preventivo di uno dei due fratelli, funzionale a preparare l’evasione di Joe Bang (un Daniel Craig tatuato e ossigenato, in un godibile ruolo anti-bondiano), il miglior rapinatore in circolazione, dalla prigione in cui è detenuto e nella quale lui e il suo compagno di fuga dovranno tornare senza farsi scoprire al termine dell’operazione, sfruttando la confusione di una rivolta carceraria suscitata ad arte... Ovviamente non tutto andrà come previsto, e i colpi e i contraccolpi di scena proseguiranno inaspettatamente anche dopo l’esecuzione del colpo, con un finale apparentemente in calando che riserva invece diverse sorprese. Scrittura, direzione, interpretazioni: tutto funziona in una narrazione fluida e disincantata. E alla fine, oltre al divertimento, rimane da riflettere sullo stato dell’America, tra sventolii di bandiere a stelle e strisce, denaro che scorre, volgari pubblicitari e nostalgiche canzoni country (“Take Me Home, Country Road”), in bilico tra le tentazioni reazionarie di un’America che vorrebbe ripiegarsi su se stessa e il rimpianto sui veri valori cancellati dalla modernità neocapitalista. E - ancora questo va detto - quella trovata del caveau sotterraneo in cui, come in un gigantesco stomaco vorace e mai sazio, affluiscono fiumi di soldi attraverso tubi pneumatici che sembrano vene o tubi dirigenti (quindi i rapinatori fanno in un certo senso rivomitare i soldi ingurgitati), sono un’invenzione iconica fantastica e una metafora geniale degna del Marx de “Il Capitale” DON'T WORRY di Gus Van SantGus van Sant ha sempre oscillato nel suo percorso artistico tra cinema indipendente (Dugstore Cowboys, Belli e dannati, Cowgirls), a volte al limite dello sperimentalismo (Psycho, Paranoid Park), e cinema mainstream (Will Hunting, Scoprendo Forrester, lo stesso Milk, malgrado le tematiche affrontate). In Don’t Worry lo si direbbe tornare a certi stilemi del cinema indipendente, nella scelta di temi e personaggi, nell’eclettico o stile di ripresa, e all’interesse biografico per personaggi borderline realmente esistiti (John Callahan è morto nel 2010). Qui il suo interesse si sposta su un artista già in età abbastanza matura (Van Sant è considerato uno dei cantori americani dell’età dell’adolescenza), ma profondamente immaturo dal punto di vista psicologico e comportamentale. Senza padre e abbandonato dalla madre, afflitto da problemi di alcolismo, Callahan è coinvolto in un grave incidente stradale mentre è in macchina con un amico occasionale (Dexter, interpretato da Joe Black in due incisivi camei) e rimane tetraplegico, impossibilitato ad usare le gambe e anche le dita delle mani. Il film narra il triplo percorso che John deve combattere contro l’alcolismo (grazie all’aiuto e al sostegno di un gruppo dell’Alcolisti anonimi), contro la grave menomazione con cui deve imparare a convivere (un percorso prima di tutto psicologico), ma anche contro i fantasmi del proprio passato che l’hanno portato prima all’abuso di alcol e poi di conseguenza all’incidente che ne ha provocato l’infermità. La lezione del film, apparentemente più per accumulo di situazioni, mescolate da un montaggio che va avanti e indietro nel tempo, più che per un percorso lineare e di crescita progressiva (pure esemplificato iconicamente da una vignetta dello stesso Callahan, che rappresenta il percorso evolutivo dal paramecio all’uomo evoluto – proiezione di se stesso - che tiene una conferenza), emerge chiaramente: il protagonista deve trovare al proprio interno, ma anche attraverso il confronto con il mondo esterno e con gli altri esseri umani, i mezzi e le risorse per uscire da una condizione di abiezione e di degrado, e trovare la forza e il coraggio per perdonare gli altri (a cominciare dalla madre che lo abbandonò bambino) e se stesso per gli errori commessi e trovare la serenità necessaria ad affrontare un presente e un futuro difficili. Un grosso aiuto John lo scopre nel proprio senso dell’umorismo, che lo mette in grado di vedere anche gli aspetti grotteschi e umoristici della propria condizione, e di trasformarli in vignette umoristiche disegnate a forza di braccia (le dita non funzionano più), anche politicamente scorrette, apprezzate da molti (e pubblicati da diversi giornali e riviste) e aborrite da altri come sconvenienti ed offensive. Inoltre, la malattia e la condizione psicologica non proprio equilibrata non impediscono al protagonista del film di concupire belle infermiere e di conquistare il cuore e il corpo di un’affascinante hostess scandinava (Rooney Mara, cui il regista dedica seducenti primissimi piani). Pure, a mio parere Don’t Worry (il titolo invita naturalmente ad aggiungere Be Happy, individuando l'obiettivo apparentemente impossibile posto al protagonista, ma in realtà appartiene al testo di una vignetta da lui disegnata, in cui il capo di un gruppo di cow-boy a cavallo, davanti ad una sedia a rotelle abbandonata nel deserto, dice ai suoi compagni di inseguimento: “Non preoccupatevi. Non andrà lontano a piedi”) non funziona come dovrebbe. Pur essendo indubbiamente un film d’autore (Van Sant ha curato oltre alla regia anche il soggetto – dall’autobiografia di John Callahan -, la sceneggiatura e il montaggio del film), sembra paradossalmente un film poco sentito. Parte della responsabilità sta forse anche nella scelta di Joaquin Phoenix per il ruolo del protagonista, un attore “freddo” con il quale è spesso difficile l’identificazione o l’empatia; gli ruba la scena anche Jonah Hill, nella parte di Donny, sponsor e guru del gruppo di alcolisti anonimi, un personaggio contradditorio e complesso: ricchissimo e alcolista a sua volta, omosessuale e malato, credente in un ente superiore che però chiama Chucky, saggio e debosciato, appassionato e nello stesso tempo annoiato. Mentre alcuni film di Van Sant degli anni 2000 avevano praticamente raggiunto l’afasia (Elephant, Last Days, Paranoid Park), Don’t Worry è invece un film molto, troppo parlato, in cui gli sfasamenti temporali riconducono spesso a situazioni omologhe (diversi incontri degli alcolisti anonimi, gli interventi di John alle riunioni o a una conferenza pubblica) che producono un effetto di letterale monotonia, probabilmente proprio nel tentativo di dissimulare un percorso di maturazione, di rappacificazione e di crescita all’interno di una narrazione frammentaria in cui è difficile individuare un progresso (significativa da parte del regista la scelta di elidere la scena potenzialmente più drammatica e spettacolare, evitando di mostrare l’incidente fatale). Su un tema simile, ho decisamente preferito il recente Stronger, che racconta un percorso simile inquadrandolo in un contesto più propriamente politico ma dando nel contempo anche alla vicenda esistenziale un maggiore spessore emozionale. Alessandra diventa critica cinematografica e recensisce in anteprima: COME TI DIVENTO BELLA (I Feel Pretty), di Abby Kohn e Marc SilversteinE se un giorno ci svegliassimo più belle? Anzi proprio bellissime, sexy e irresistibili? E soprattutto sicure di noi stesse e del nostro fascino? A Renée Barrett (interpretata da Amy Schumer attrice, sceneggiatrice e comica statunitense) capita proprio questo, o meglio le capita solo l’ultima parte. Dopo aver preso un colpo in testa per una brutta caduta dalla cyclette su cui stava pedalando con grande entusiasmo, spronata dalla trainer che la invitava a focalizzare il proprio obiettivo e a vedersi come sarebbe voluta essere, Renee non si riconosce più allo specchio. La nuova Renée (il nome sarà un omaggio alla Zellweger, interprete dell’eroina Bridget Jones?) non è più grassottella e insignificante ma bella, sexy e affascinante. Come per il ragazzino di Big (citato esplicitamente in una scena del film), il desiderio si avvera come per magia, e con la sua realizzazione la protagonista si troverà a dover fare i conti. Mentre tutti gli altri continuano a vederla come realmente è e come è sempre stata, ecco invece che la vita di Renée cambia comunque, perché cambia il suo modo di affrontare le situazioni di tutti i giorni, e perché si convince di avere diritto a quel che prima le era negato: essere servita velocemente al bancone di un bar, mostrare il proprio corpo con disinvoltura e, persino, essere il simbolo di una casa di cosmetici e non essere più relegata nel sottoscala dei lavoratori invisibili e inguardabili. Abituate ad un modello di donna fisicamente perfetto a cui si è spinte ad omologarsi e a trasmissioni in cui si cambia il proprio aspetto con operazioni o estenuanti esercizi fisici, è incoraggiante vedere un film la cui protagonista non subisce alcun cambiamento fisico, ma solo psicologico: lei non è diversa da prima ma si sente bene con se stessa e con il proprio corpo e quindi non ha più paura di affrontare un colloquio di lavoro a testa alta o di invitare un uomo ad uscire. L’idea iniziale del film è più originale del suo svolgimento; naturalmente il nuovo atteggiamento della protagonista la porterà a successi poco probabili, a litigare – e poi rappacificarsi - con le amiche di sempre e a scoprire che anche le ragazze bellissime non si sentono perfette e soffrono per amore. L’happy end c’è e ci sta bene, altrimenti che sogno sarebbe? LA TERRA DELL'ABBASTANZA di Damiano e Fabio D'InnocenzoDue giovani maschi, la vita nello squallore della periferia urbana, un futuro che non sembra in grado di offrire prospettive allettanti. Poi un incidente notturno, un evento che potrebbe cambiare loro la vita. Il cinema italiano, soprattutto quello più nuovo e indipendente, sta cercando e trovando ispirazione in personaggi (giovani in situazione di marginalità), ambientazioni (le periferie urbane, quella romana soprattutto) e vicende (lo sconfinamento nell'illegalità) simili ; gli ultimi anni ci hanno regalato opere non solo in varia misura interessanti, ma a volte toccanti e di folgorante bellezza, come, tra gli altri, Non essere cattivo, Fiore, Inseparabili, Cuori puri. La terra dell'abbastanza, già concepito come progetto qualche anno fa, prima di trovare una coraggiosa produzione (Pepito) e trovare poi subito la strada verso il Festival di Berlino, è l'ultimo epigono di questa tendenza, un film in cui il realismo naturalistico di personaggi e situazioni si accompagna ad una narrazione fortemente ellittica e a una forte tensione morale. I fratelli D'Innocenzo raccontano un mondo di marginalità sociale che ispira un senso di claustrofobia anche nei campi lunghi, fotografato con luci fredde sia negli interni che negli esterni, spesso invaso dal buio, in cui risuonano le voci sporcate dalle inflessioni dialettali e dalla presa diretta, in cui il senso di disorientamento dello spettatore viene accresciuto dalle ellissi narrative o dal relegamento ai margini o fuori campo – o nell'asettica distanza di un campo lungo, come nel finale – eventi cruciali per la narrazione. Scelte stilistiche non certo accattivanti per lo spettatore, e non sempre di piena efficacia. In questo mondo, che pure è il loro territorio, i due giovani maschi protagonisti, Mirko e Manolo (Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano),si aggirano spaesati, senza bussole (oggi di dovrebbe dire senza navigatore) e senza riferimenti. Le famiglie, entrambe monogenitoriali, non sono in grado di fornire (anzi) né protezione, né insegnamenti, né indicazioni. La madre di Mirko (Milena Mancini) cerca con fatica di gestire un rapporto sentimentale problematico, un figlio difficile, il lavoro, la casa, una figlia abbandonatale come un fardello. Il padre di Manolo (un inedito Max Tortora) spreca il suo tempo alle slot machine, spinge il figlio verso un declivio fatale, e alla fine non riesce più nemmeno a trovare quel minimo spessore umano e morale per piangerne davvero la scomparsa. La scuola non sembra in grado di fornire né strumenti né certezze per affrontare un futuro nebuloso e privo di prospettive. Il salto (del tutto casuale e fortuito) nella criminalità viene visto così come “la svolta”, la possibilità di cambiare e di migliorare la propria vita, di balzare oltre un probabile futuro fatto di lavori precari e verso i quali non si prova nessun interesse né propensione; la botta di fortuna capace di cambiare una vita, quasi fosse la conquista di un posto fisso o l'ammissione a un talent show televisivo. La legittima aspirazione al successo e al benessere che tutti accomuna, assume per Mirko e Manolo il volto del mondo della malavita. Non fa niente (o così i due fanno finta che sia) se questo vuol dire togliere la vita ad altre persone, o sfruttarne le debolezze e le sofferenze. Mirko e Manolo, nella loro giovanile sprovvedutezza e nella loro ottusa inettitudine, ma anche, paradossalmente, a causa delle inconsce e istintive, inconfessate e inconfessabili remore morali che i due non riescono del tutto a lasciarsi alle spalle, sono del tutto incapaci di entrare nelle logiche e nelle strategie imprenditoriali e commerciali dell'organizzazione criminale di cui entrano a far parte; al punto da preferire uccidere, piuttosto che spacciare o gestire le ragazze condannate alla prostituzione; preferendo alla complessità del male organizzato la semplice gratuità di un atto “puro” come l'omicidio, del quale non si preoccupano neppure di conoscere motivazioni o finalità. Un omicidio fortuito nel buio della notte, un uomo investito a morte: prologo ed epilogo si chiudono in un anello dove il caso e la necessità assumono la stessa avvilente veste. Il cerchio si chiude; in mezzo, in fondo, non è successo nulla di importante. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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