CHALLENGERS di Luca GuadagninoQuando la discussione trascende e i toni si riscaldano, Tashi chiede a Patrick se stanno ancora parlando di tennis e lui risponde che non fanno altro. E’ falso (tanto per dire, tra le foto promozionali ufficiali si fa fatica a trovarne una che abbia a che fare con il tennis, anche se il film arriva al momento perfetto, quando la sinnermania ha ridestato e portato al suo acme l'attenzione del pubblico italiano verso questo sport); o meglio, Guadagnino finge di parlare di tennis mentre parla di tutt’altro. Anche se il film iscrive tutto il suo arco narrativo, tramite continui flashback e flashforward, all’interno di un extended play tennistico, appare subito chiaro - da quando i giovanissimi tennisti Art e Patrick, amici e coetanei, guardano Tashi esibire la sua potenza sul campo di gioco - che si sta parlando d’altro, e cioè di desiderio; e si intuisce anche, cosa che verrà subito confermata, che il corpo di Tashi è solo il tramite su cui confluisce e rimbalza l’attrazione reciproca tra i due giovani maschi.
Di desiderio si parla, come in Io sono l’amore, A Bigger Splash, Chiamami col tuo nome o perfino in Bones and All: Guadagnino parla di tennis quasi come un giovane Almodovar (banane allusive e ventilati usi non ortodossi del manico della racchetta compresi) parlava di matador, dove la legge del desiderio conta altrettanto o più delle regole del gioco. Se ne ha la conferma quando ci si accorge che sequenze di sport, di dialogo o di intimità sono tutte ritmate dalle cadenze ossessive ed elettroniche delle musiche da rave party infinito di Trent Reznor e di Atticus Ross. I desideri si intrecciano con le frustrazioni: Patrick avrà Tashi ma dovrà rinunciarvi (ma non per sempre…); Art avrà Tashi ma dopo che sarà stata di Patrick; Tashi dovrà interrompere la sua carriera tennistica ma riverserà le sue ambizioni sul marito Art di cui diventerà allenatrice e manager; Tashi avrà Patrick e Art, ma senza trovare appagamento da nessuna delle due relazioni; l’attrazione tra Art e Patrick sembra non arrivare mai a compimento… E’ un losing game in cui nessuno sembra poter vincere, né sul lato sentimentale e dei rapporti di coppia (o di triangolo, al cui vertice è saldamente installata Tashi), né su quello sportivo e professionale, dove infortuni, incostanza, stanchezza sembrano precludere a tutti di coronare i propri sogni di gloria (e il film d’altra parte si svolge durante un challenge, cioè un torneo di qualificazione, e non durante il torneo maggiore, in questo caso l’U.S. Open). Challengers è il nome del torneo, ma il termine significa anche gli sfidanti, e viene da pensare anche ai duellanti di Ridley Scott (da Conrad) che si affrontano ripetutamente attraverso anni e vicissitudini. Guadagnino (con la complicità dello sceneggiatore Justin Kuritzkes) nasconde le sue carte narrative mescolando il mazzo delle scene in un continuo andirivieni nel tempo, con ellissi in avanti e indietro che possono durare ore o giorni o addirittura anni, costruendo a ritroso le motivazioni personali che stanno alla base delle passioni che rendono il match tra Art e Patrick la partita della vita; anche per Tashi, che assiste al gioco dalla tribuna, girando la testa da una parte e dall’altra, come tutti gli altri spettatori, o tenendola immobile fissando lo sguardo la da una parte sola, o abbassando lo sguardo a terra mentre la partita si fa rovente. Guadagnino concentra tutto il film su tre unici personaggi, elidendo tutti gli altri e tutto il resto; ma dà al film una miccia lunga e una combustione lenta (slow burn, per dirla all’inglese), iniziando dalla fine con una partita di tennis di cui non capiamo l’importanza e con un ralenti inessenziale e un po’ maldestro sulla schiena di Zendaya, per dare solennità ad una vicenda che non ne ha ancora alcuna. La tensione narrativa, dopo che il culmine erotico è già da tempo raggiunto e superato in una scena di bacio a tre da seduti, cresce lentamente, fino al racconto della sera precedente la partita fatidica, in cui il vento delle passioni (ancora una volta, molto almodovariano) spazza letteralmente e melodrammaticamente tutto e manda le intenzioni dei protagonisti a gambe all’aria. Sicché nella fase finale della partita succede di tutto, emotivamente, sportivamente e registicamente parlando, tra esacerbazioni ed escandescenze, richiami e penalizzazioni, gesti allusivi e sguardi d’odio (la partita diventa una specie una sorta di duello alla Sergio Leone in versione ipercinetica), bolidi tirati direttamente contro l’avversario o spedite volontariamente in rete, soggettive della pallina che vola a 200 chilometri all’ora e smash in cui è il giocatore stesso a volare dall’altra parte della rete, abbracci sconvenienti e sorrisi liberatori, ma anche un po’ enigmatici, alla Mona Lisa, in tribuna. Sembra di capire che Guadagnino si sia divertito, e parte del divertimento passa agli spettatori, anche se non tutto a mio parere funziona a dovere: come dicevo, la costruzione è lenta e il film ci mette un po’ a scaldarsi; nelle ellissi narrative si perde forse qualche passaggio importante (della relazione tra Patrick e Tashi ci viene detto ben poco, se non che finisce litigando sulle posizioni di potere nella coppia, che si definiranno invece molto più nettamente a favore di Tashi nel rapporto con Art; e ben poco viene detto anche sui motivi per cui Patrick finisce per essere emarginato - o per autoemarginarsi - dal mondo del tennis che conta e dalla vita, tanto da finire a dormire in auto perché non ha i soldi per pagarsi un albergo). Poi c’è Zendaya, che dovrebbe essere la donna di cui non è possibile innamorarsi, ma che ai miei occhi (se mi è concesso dirlo) è troppo poco sexy, espressivamente imprigionata in un broncio un po’ infantile o in pose dure e volitive da manager in tailleur. Se amate le gambe di Zendaya, è il vostro film; ma le nudità totali e frontali sono riservate agli attori maschi. Mike Faist e Josh O’Connor, nei ruoli di Art e Patrick, rispettivamente “ghiaccio” e “fuoco” nel tennis e nella vita, finiscono per assomigliare forse più a Starky e Hutch in tenuta da tennis che a Borg e McEnroe, ma "servono" a dovere nel ruolo degli amici doppiamente rivali dal carattere opposto.
0 Commenti
Si approssima la 33a edizione del festival del cinema milanese che più amo, il FESCAAAL, ovvero il Festival del Cinema d'Africa, d'Asia e d'America latina. Una preziosa occasione di lanciare lo sguardo verso altri mondi, altre culture e verso altri modi di fare cinema; poiché anche nel mondo globalizzato (dove spesso i cineasti d'altrove si formano in Occidente e non ignorano certo i modelli occidentali), esistono senz'altro delle specificità di temi, di ambienti, di linguaggi e di paesaggi che rendono l'esperienza del Festival sempre molto interessante, sorprendente ed istruttiva, oltre che emozionante. Inutile dire poi del valore del confronto culturale, che anima il Festival fin dalla sua nascita, in un mondo che appare attraversato da catastrofiche divisioni e conflitti, ad un livello di tensione e di pericolosità difficilmente immaginabile solo qualche anno fa. Rispetto agli anni scorsi il Festival si sposta di qualche settimana ma rimane sempre nel periodo primaverile, con un'edizione caratterizzata dal numero 3: la 33a edizione inizia il 3 maggio, con 3 sezioni competitive (Finestre sul Mondo con lungometraggi dai 3 continenti, cortometraggi africani ed Extr'a, dedicata alle opere italiane sui temi dell'interculturalità e delle migrazioni), e con un logo dove la familiare zebra prismatica si fa in 3. Il Festival si ripresenta nella sua forma ibrida, in sala a Milano alla Cineteca Arlecchino, al Godard di Fondazione Prada e nella sede tradizionale dell'auditorium San Fedele; ma anche on line (sulla piattaforma MyMovies) per quelli che, dovunque vivano, non vogliono o non possono essere fisicamente in sala. Come sempre il programma prevede nell'arco di dieci giorni la proiezioni di lungometraggi (spesso in prima italiana, europea o mondiale, oltre a proiezioni di film fuori concorso già premiati o acclamati dalla critica), cortometraggi, documentari, ma anche un ricchissimo calendario di incontri con gli autori e di eventi collaterali. Costole del Festival sono anche lo spazio di riflessione Africa Talks, con un focus su arti visive e creatività in Africa, e il MiWY, un festival nel festival rivolto interamente alle scuole e dedicato alla conoscenza e all'approfondimento delle cinematografie e alle culture di Africa, Asia e America latina e all'educazione interculturale, con proiezioni a Milano, a Lecco e on line, sempre su MyMovies. La Giuria Internazionale sarà composta dal regista filippino Lav Diaz (Presidente), dall'iraniano Ali Asgari (co-regista di Kafka a Teheran), e dalla distributrice Anastasia Plazzotta, mentre la Giuria Premio della Critica, in collaborazione con Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, sarà presieduta da Nicola Falcinella. E' già stato reso noto il titolo che venerdì 3 maggio inaugurerà il Festival al Cinema Godard di Fondazione Prada: si tratta di Fremont, di Babak Jalali, la storia di una rifugiata afghana a Fremont, una cittadina californiana chiamata Little Kabul, in equilibrio tra passato e presente, tra sensi di colpa e ricerca dell'amore, tra il lavoro come scrittrice di bigliettini per i biscotti della fortuna, insonnia e psicoterapia.
Il film, scritto con Carolina Cavalli, ha avuto la sua prima mondiale al Sundance Film Festival 2023 e si è già aggiudicato numerosi premi, tra cui il Premio alla Miglior Regia al Karlovy Vary IFF e il John Cassavetes Award agli Independent Spirit Awards e sarà distribuito in Italia da Wanted Cinema. Il regista Babak Jalali sarà presente alla Cerimonia di apertura. Insomma, preparate le valigie. Si va a conoscere il mondo. CIVIL WAR di Alex GarlandSi inizia che la rivolta contro il Presidente autocratico degli Usa è già iniziata e la guerra contro le repubbliche secessioniste e le forze armate degli Stati occidentali è in pieno corso. A New York disordini nelle strade, incendi, coprifuoco, mezzi dell'esercito a pattugliare le strade; dovunque guerra, sparatorie, cecchini appostati, case incendiate o semidistrutte, automobili abbandonate lungo le strade, cadaveri.
Non poteva esserci uscita più tempestiva per Civil War, presentata in anteprima mondiale il 14 marzo, proprio mentre Trump - dopo aver tra l'altro definito “animali” i migranti - paventava “un bagno di sangue” ("bloodbath") in caso di sua mancata elezione il prossimo 6 novembre. Civil War questo “bagno di sangue” l'ha già messo in immagini, fino al suo esito finale e fatale, dentro l'ufficio presidenziale della Casa Bianca (malgrado tutto un lieto fine? ma l'immagine che accompagna i titoli di coda è una foto macabra che emerge lentamente da uno schermo bianco per sprofondare poi in uno schermo nero). Il film suona pertanto come un tempestivo, molto sinistro ma per niente inverosimile ammonimento preventivo a tutto il popolo americano, al quale dice: ecco cosa succederà se veramente vorrete eleggere Trump buttando alle ortiche i due secoli e mezzo di storia della più antica Costituzione del mondo ancora vigente. Poiché sarebbe chiaramente indiscreto inserire nel film dettagli politici più precisi e imbarazzanti (già così è presumibile che l'uscita del film negli Stati Uniti, prevista per il prossimo 12 aprile, susciterà non poche polemiche), le ragioni della guerra civile non sono spiegate da Garland (sceneggiatore oltre che regista; britannico per nascita e formazione), né vengono esplicitate le malefatte del Presidente; il giudizio più “politico” che viene espresso nel film è una battuta che ne assimila la personalità mediocre a quelle di Gheddafi, Mussolini e Ceasescu. L'aspetto politico, per quanto sia il più eclatante e suggerisca i maggiori motivi di curiosità, non è però quello preponderante. In realtà Civil War, cosa non nuova, accumula ed intreccia ambiziosamente diversi generi cinematografici piuttosto classici, in un impasto ad alto tasso di spettacolarità. C'è prima di tutto l'on the road, con la struttura nomade e la narrazione episodica, fatta di incontri e scontri, fermate e ripartenze, soste e spostamenti, mentre i viaggiatori approfondiscono la conoscenza reciproca e si delinea il gioco delle relazioni. Perché Civil War è anche il racconto di una sorta di famiglia putativa, anche se tra i quattro protagonisti nessuno ha rapporti di consanguineità con gli altri. Si trovano infatti a condividere un po' per caso lo stesso automezzo, che deve percorrere più di 800 miglia in zona di guerra, uno strano quartetto composto da una pseudo-coppia genitoriale, una pseudo-figlia ribelle e uno pseudo-nonno saggio: sono in realtà Lee Miller (omonima di Lee Miller Penrose, che fu, oltre che modella e fotografa di moda, una delle prime corrispondenti di guerra negli anni '40 e la prima a documentare per immagini gli orrori dei lager nazisti dopo la liberazione), fotografa di guerra impersonata da Kirsten Dunst; il suo socio giornalista Joel (Wagner Moura), che ostenta il necessario cinismo richiesto dal mestiere; Jessie (Cailee Spaney – la Priscilla del film della Coppola), giovane fotografa che vuole emulare la sua compagna di viaggio più anziana e navigata; e il saggio giornalista veterano Sammy (Stephen McKinley Henderson), anziano, corpulento e claudicante. I quattro rappresentano anche un paradigma dell'atteggiamento nei confronti della guerra e della propria professione: l'inesperta Jessie che deve ancora mettere la propria vocazione alla prova dei fatti e dell'orrore; il cinico e pragmatico Joel; la matura Lee, indurita dall'esperienza ma ormai provata dalla sommatoria degli orrori cui ha dovuto assistere; l'anziano Sammy che vede le cose dalla prospettiva disincantata ma anche ricca di buonsenso dovuta all'età avanzata. Nello stesso tempo, ancora, Civil War è, ovviamente, un film di avventure bellica, con imprevisti, pericoli, salvataggi, fughe, prese in prigionia da una parte; stormi di elicotteri rombanti, campi militari e battaglie con carri armati, mitragliatrici e mitragliatori, fucili di precisione, esplosioni e quant'altro, dall'altra parte. Ma c'è di più: Civil War è ambientato nel noto e tranquillizzante paesaggio americano, dalle vie di New York ai notissimi luoghi simbolo del potere politico di Washington, passando attraverso la campagna bucolica dove gli uccellini cinguettano e i placidi paesini della provincia, dove però ogni strada, ogni prato, ogni stazione di servizio ospita cadaveri, sangue e orrore; dagli edifici distrutti esce il fumo nero degli incendi, e i cieli sono solcati giorno e notte dai traccianti dei proiettili. Civil War assume quindi anche le caratteristiche di un film apocalittico e distopico, dove le situazioni più comuni – uscire per strada, fermarsi a fare rifornimento di carburante, andare in un parco-giochi - acquistano una tonalità sgradevole e perturbante. Infine, Civil War vuole anche essere, o così vuol far credere, un film sulla rappresentazione della guerra, e sullo strano mestiere e sull'etica peculiare che consiste nel fotografare la violenza e la morte, senza dovere né volere intervenire – né per combattere, né per salvare, né per soccorrere. Ma purtroppo, a mio parere, Civil War, dopo aver messo tutta questa carne al fuoco e aver mescolato questi diversi ingredienti narrativi, non eccelle nel portarne a cottura (per continuare con l'improprio paragone culinario) nessuno. L'idea forte di fondo, con un'America divisa e lacerata da una guerra intestina, con un Presidente che ha abusato dei propri poteri tanto da aver suscitato secessione e rivolta, non viene sviluppata più di tanto. Il film inizia già in media res, anzi in extrema res, visto che siamo già vicini all'epilogo drammatico, e poco o nulla ci viene detto su come e perché si sia giunti a questa situazione, né vengono approfondite le lacerazioni di una lotta fratricida che vede su fronti opposti americani contro americani, ora nemici ma presumibilmente avvinti da mille legami. L'on the road impone l'andamento episodico, dove ogni segmento è basato su un'idea che si vorrebbe forte e straniante, come ad esempio i torturatori alla stazione di servizio, il cecchino al parco di divertimento invernale, i soldati alla fosse comune. Quest'ultimo è effettivamente l'episodio più riuscito (per quanto risolto in maniera corriva), con la visione infernale dei cadaveri cosparsi di calce ammucchiati nella fossa comune nella quale cade la giovane fotografa, e soprattutto con la tensione creata l'interrogatorio del soldato dagli occhiali rossi, dove la vita e la morte (che tocca in modo ovvio ai personaggi più sacrificabili) dipendono dalla risposta che si dà alla domanda “da dove vieni?”. I personaggi tuttavia non progrediscono più di tanto passando da una situazione all'altra, in uno sviluppo che conferma quelli che già si intuivano i caratteri di partenza: l'anziano grasso e zoppicante ma saggio e disposto all'eroismo; la ragazzina ambiziosa messa alla prova dalla realtà della guerra; il cinico non immune al dolore per la perdita di un amico; la burbera dalla dura corazza ma affaticata e protettiva verso quella che vede una versione giovanile di se stessa. Anche le scene di combattimento, per quanto girate con professionalità da Garland (regista che ha dato già prova di un talento visionario nei suoi film precedenti), non sono particolarmente innovative o emozionanti e sono spezzate dalla interpolazione degli “scatti” degli ardimentosi war reporter; e se i protagonisti sono spesso a pochi centimetri di distanza dai combattenti, sempre esposti al fuoco incrociato e indiscriminato e alle pallottole vaganti, tanto già sappiamo che i proiettili li colpiranno mai. La maggiore novità (relativa) è forse il fatto di essere ambientate in luoghi che negli americani, come già si diceva, devono per forza indurre una sensazione di straniamento e di perturbamento, come il Lincoln Memorial o la Casa Bianca (in un epilogo con tanto di ralenti colpevolmente scontato). Come il tema politico, anche quello etico imperniato sui reporter di guerra appare poco o nulla approfondito. Ancora una volta, rispetto a opere come Urla dal silenzio, Salvador o Un anno vissuto pericolosamente, la maggiore novità consiste nell'ambientazione, non nei cortili d'America, ma direttamente in casa sua, fin dentro la Casa americana per eccellenza, quella Bianca. Nel trattare il tema delicato dei confini dell'etica giornalistica e del diritto alla rappresentazione della guerra, dell'orrore e della violenza, però, non si va oltre l'alternanza tra i sentimenti adrenalici dei protagonisti: eccitazione vs terrore, fascinazione vs repulsione, attrazione morbosa vs insensibilità. I nostri eroi si catapultano in mezzo alle azioni di guerra o sopra mucchi di cadaveri: in genere senza paura, nemmeno per se stessi, ma anche senza pietà e senza ritegno per le vittime. ZAMORA di Neri MarcorèQuando il proprietario dell'azienda in cui lavora come ragioniere decide di chiudere per riposarsi, Walter viene raccomandato per un'altra azienda di Milano. Questo (siamo negli anni '60; nel 61 usciva Il posto di Ermanno Olmi, nel 62 il romanzo di Mastronardi Il maestro di Vigevano e nel 63 il film che ne trasse Petri) significa spostarsi dalla soporifera provincia vigevanese alla metropoli. Walter Vismara è un bel ragazzo, bravo, coscienzioso, serio, lavoratore, un po' impacciato. Sa tutte le risposte dei quiz di Mike Bongiorno, ma nulla di calcio, e purtroppo per lui il suo nuovo principale è invece un fanatico del pallone (anzi, del folber, per dirla alla Gianni Brera), che obbliga tutti i dipendenti a partecipare agli allenamenti e all'annuale torneo aziendale scapoli-ammogliati. Colto alla sprovvista, Walter si spaccia imprudentemente per portiere, ma praticamente non ha mai toccato una palla in vita sua, e a causa della sua imbranataggine calcistica e del suo carattere riservato e compito diventa presto il bersaglio del ganassa aziendale, cui deve il soprannome “Zamora” (mitico portiere spagnolo), che dà ingannevolmente il titolo al film. Quando una bella collega si dimostra decisamente interessata a lui, Walter si ritiene miracolato da un'imprevista fortuna, ma un equivoco rimette tutto in gioco. Letteralmente, perché la rivalsa di Walter passa proprio dalla porta di un campo di calcio, dove, con l'aiuto prezzolato di un ex-portiere in disgrazia a causa di scandali e vita sregolata, cercherà di riguadagnare approvazione e rispetto. Anche se il dolce del lieto fine riserva un'inaspettata punta decisamente amara.
Non è forse un film importante, Zamora, esordio alla regia di Neri Marcoré, ma è un film delizioso e di garbato ma efficace umorismo - che forse ho amato particolarmente per alcune mie affinità con il carattere del protagonista, di cui il film fornisce un'analisi psicologica piuttosto sottile. Come viene sottolineato più volte nel film, siamo negli anni '60 (precisamente nel 1965, anno di uscita di Giulietta degli spiriti, che i protagonisti vanno a vedere al Cinema Manzoni – anche se i milanesi noteranno qualche riferimento anacronistico), e i tempi stanno cambiando, relegando in secondo piano i valori e le virtù che appartengono per natura all'impettito Walter, a favore di un maggior dinamismo e maggior aggressività, tanto in ambito individuale, che professionale e sociale. Più che l'attrazione dimostratagli dalla bella Ada, sarà proprio il rapporto con il portiere in disgrazia Cavazzoni (e con la sorella Elvira, che nasconde un segreto ai famigliari) a farlo crescere, ad incrinare la sua corazza caratteriale, portandolo ad acquisire maggiore sicurezza in se stesso. Il beneficio d'altra parte sarà reciproco, e anche il portiere trarrà qualche insegnamento dalla frequentazione con Walter. Più che il messaggio sulla conquista della fiducia in se stesso o sul valore della famiglia (anche quando riserva delle sorprese inaspettate), o lo spaccato sociale d'epoca e d'ambiente abbozzato dal film, l'opera prima di Neri Marcoré trova in particolare il suo stato di grazia nell'equilibrio che riesce a trovare tra personaggi in fondo macchiettistici e umoristici e la loro umanità. Sono molti i personaggi del film a riservare delle sorprese o a rivelare delle debolezze o delle risorse impreviste, acquistando una loro credibilità psicologica che li sbalza dal semplice bozzettismo. A venare il film di umorismo e a conferirgli attendibilità contribuisce un cast composto da attori comici di estrazione prevalentemente milanese, a volte con ruoli di rilievo (Walter Leonardi, Giovanni Storti, Antonio Catania, Pia Engleberth, con Giovanni Esposito nel ruolo dell'infiltrato finto milanese), a volte presenti in cameo (Giacomo Poretti, Ale e Franz). Alberto Paradossi ha la sua prima occasione da protagonista (era stato il figlio di Craxi in Hammamet), mentre Neri Marcoré riserva per sé la parte del malinconico portiere, con una recitazione tutta virtuosisticamente in sottotono. Decisamente apprezzabile poi è la prova delle due protagoniste femminili: Marta Gastini (che avevo già apprezzato recentemente a teatro ne Il figlio di Zeller diretto da Maccarinelli), nel ruolo di Ada, e Anna Ferraioli Ravel (che si è già fatta notare nel cast corale di Un altro ferragosto di Virzì), in quello della sorella Elvira. Curiosamente, una storia milanese (tratta dal primo romanzo di Roberto Perrone, scomparso l'anno scorso), con tanti attori milanesi (ma non il quartetto dei protagonisti), ambientata tra Vigevano e Milano, insaporita dal dialetto e dalla cadenza milanese, malgrado gli scorci meneghini riconoscibili (il Duomo, l'Arena, il Manzoni) è stato girata in gran parte a Torino con il supporto della Piemonte Film Commission. PRISCILLA di Sofia CoppolaPrimo tempo: Elvis conosce Priscilla in Germania. Priscilla ha 14 anni, Elvis 24. Elvis vola negli Usa. Invita Priscilla. Priscilla vive nella casa del padre di Elvis. Poi vive a Graceland nella casa di Elvis. Elvis e Priscilla non scopano. Elvis le regala vestiti, pistole, automobili. Elvis si impasticca. Elvis e Priscilla si impasticcano. Gli anni passano. Elvis e Priscilla non scopano. Elvis si diverte con i suoi amichetti. Elvis va a girare i film. Priscilla cambia pettinature. Elvis flirta con le altre. Priscilla non flirta con nessuno. Elvis e Priscilla non scopano. Priscilla si rompe un po' le palle. Elvis ogni tanto sbrocca.
Secondo tempo: Elvis sposapriscillaelametteincinta. Elvis e Priscilla hanno una bambina. Elvis e Priscilla non scopano più. Elvis diventa un alternativo. Elvis brucia tutti i libri spirituali perché gliel'ha detto il Colonnello. Elvis si veste da Elvis. Priscilla prende la macchina e se ne va. Fine. Questa è più o meno la sinossi di Priscilla, il film con cui Sofia Coppola torna a parlare del suo tema, o meglio dei suoi temi - verrebbe da dire dettati dalla sua autobiografia di regista figlia di uno dei più grandi registi (o almeno lo è stato) della contemporaneità, Francis Ford Coppola (che la fece “recitare” a qualche mese o settimana dalla nascita ne Il padrino). I temi si possono sintetizzare in: bambina o ragazza o giovane donna (o gruppo di) “prigioniera” di una situazione di privilegiato benessere, che per lei diventa una sorta di gabbia soffocante; il rapporto di una bambina-ragazza-giovane donna (o gruppo di) con un maschio adulto o maturo , figura paterna o elemento di tentazione sentimental-sessuale. Sono temi che si trovano, entrambi - con pesature diverse - o uno per volta, ne Il giardino delle vergini suicide, Lost in Translation, Marie Antoinette, Somewhere, L'inganno, On the Rocks. Nel libro Elvis and Me di Priscilla Ann Wagner Beaulieu Presley, Sofia Coppola ha ritrovato entrambi i suoi temi prediletti, racchiusi nella storia di Priscilla, sedotta a 13 anni da un Elvis Presley ancora giovane ma già stella del rock'n'roll, idolo della gioventù americana intera, e irresistibile e inedito sex symbol per una generazione di adolescenti e donne giovani e meno giovani. Ma Elvis, in tutto l'universo femminile che gli sarebbe caduto i piedi ad una sola alzata di sopracciglio, sceglie la giovanissima, acerba Priscilla. E nemmeno per un'attrazione sessuale irrefrenabile: a detta del film (e quindi della stessa Priscilla) passano anni di conoscenza prima e di convivenza poi senza che i due abbiano mai un rapporto sessuale completo. Eppure Priscilla è pronta, ma è Elvis a procrastinare finché non sarà giunto il momento giusto (e cioè un brevissimo lasso di tempo in cui Elvis sposa Priscilla e la mette incinta, dopodiché il desiderio sessuale torna ad assopirsi o a dirigersi altrove). Perché allora una giovanissima adolescente come Priscilla? Dal film una possibile spiegazione emerge: Elvis è ormai preso nell'ingranaggio dello show business che (forse proprio a partire da lui) diviene inesorabile, e che nel suo caso è spietatamente, sapientemente regolato dal sedicente colonnello Tom Parker (il rapporto tra la rock star e il suo agente è stato raccontato in modo definitivo dall'Elvis di Baz Luhrmann). Se Elvis non può rimandare il servizio militare a quando vuole, non può sbattere il bacino come vuole, non può cantare quello che vuole come vuole, allora si procurerà una bambolina su cui rivalersi esercitando un analogo potere, coprendola di regali ma rifiutandole il compimento sessuale, influenzando le sue scelte di abbigliamento, tirandola o respingendola s suo piacere dai set in cui lavora, tenendola sostanzialmente imprigionata nella reggia kitsch di Graceland, urlandole dietro o scacciandola nei momenti di malumore. La Coppola sceglie un attore più alto di Elvis (Jacob Elordi) e un'attrice più bassa di Priscilla (Cailee Spaeney, Coppa Volpi a Venezia, che rivedremo presto in tutt'altri panni in Civil War), per sottolineare anche visivamente la sproporzione asimmetrica tra una star inarrivabile e la ragazzina qualunque di cui cerca la compagnia quasi si trattasse di un animaletto domestico. Ma alla Coppola in realtà non interessa Elvis; il suo Elvis (bizzarro destino cinematografico per una delle più grandi star del firmamento musicale e dell'industria transmediale dello spettacolo) non sarebbe esistito senza Priscilla, come quello di Luhrman non sarebbe esistito senza il Colonnello Parker. Il suo Elvis è un Elvis senza concerti e senza spettacoli, senza canzoni e senza film, senza sale d'incisione e senza set cinematografici o televisivi. E' un anti-Elvis, talmente consapevole e programmatico che forse poco sarebbe cambiato se i detentori dei diritti le avessero concesso l'uso delle canzoni che invece le hanno inopinatamente negato. E' un gioco tutto a sottrarre. I protagonisti del film (intorno a Elvis e Priscilla non emergono altri personaggi degni di nota) sono spesso ripresi in penombra o in controluce, a rimarcare che si sta parlando di una dimensione intima, sentimentale e domestica che è quanto di più lontano si possa immaginare dalla luce dei riflettori e dallo splendore di Hollywood o di Las Vegas, o dovunque stia di casa lo show business. E che cosa rimane di Elvis se a Elvis si sottrae Elvis? Priscilla, è appunto, ovviamente, la risposta della Coppola. Priscilla che parte come una giovanissima adolescente affascinata da un mito, diventa una ragazza con propri desideri, bisogni e aspettative; poi una giovane donna con qualche opinione e sempre più insoddisfatta di non poterle esprimere. Come la Belle di Povere creature! che parte da un cervello prenatale, Priscilla evolve, matura, diventa una donna. Come la (Diana) Spencer di Larrain, alla fine si mette al volante e si allontana dal suo regno sempre meno dorato e dal suo principe di un azzurro sempre più scolorito. Nel mentre, però, tra gli schiamazzi degli amici di Elvis sempre in occhiali da sole e un cambio e l'altro di pettinatura di Priscilla - esattamente come lei - rischiamo di annoiarci e di disamorarci della storia che lei sta vivendo e che noi stiamo guardando. MAY DECEMBER di Todd HaynesLa prima cosa a colpire, sui titoli di testa, con riprese ravvicinate di farfalle nella vegetazione, è la musica. Ad aprire il film e ad accompagnarne tutto il suo svolgimento ci sono infatti le musiche (rielaborate da Marcelo Zarvos) tratte da un film precedente, Messaggero d'amore, un film del 1971 in cui Joseph Losey descriveva i turbamenti sentimentali di un ragazzino affascinato da una donna più grande. Una scelta bizzarra, a tratti un po' sconcertante, che sembra dichiarare una scelta manierista e citazionista di Haynes (che già ha reso omaggio in precedenza, nei suoi ritratti femminili realizzati con Lontano dal paradiso e Carol, a uno dei più grandi esponenti del melò americano classico, Douglas Sirk).
Ma qui i riferimenti da cercare sono forse diversi. May December descrive soprattutto la relazione tra due donne (Julianne Moore sempre perfetta e sgradevole, tra determinazione e fragilità, ambiguità e nevrosi nel ruolo della più anziana, Natalie Portman, insinuante e ossessiva, in quello della giovane attrice). La prima è Gracie, assurta agli onori (e ai disonori della cronaca) per lo scandalo suscitato quando, trentaseienne sposata e con un figlio, venne scoperta amoreggiare con un compagno di scuola del figlio tredicenne; ora Gracie (sessantenne) e l'ex-ragazzino, ormai giovane adulto, sono sposati, hanno tre figli (la prima nata quando Grace era in carcere) e conducono un ménage famigliare apparentemente normale. La seconda è Elizabeth, una giovane attrice che ha scelto di interpretare un film ispirato alla vicenda di Gracie, di cui sarà la protagonista. Elizabeth arriva quindi a Savannah, dove vivono Gracie con il giovane marito Joe (interpretato da Charles Melton, paradossalmente il più premiato in un film che è un duello di attrici) e i figli, per conoscere la donna che dovrà interpretare e per capirne meglio la personalità, la storia, e il contesto in cui ha avuto luogo. Ma Elizabeth più che un'attrice coscienziosa sembra quasi una detective ossessionata da un cold case appassionante: la sua indagine psicologica e sociologica si svolge tra interrogatori alla colpevole (Gracie), alla vittima (Joe), ai testimoni (l'ex-marito e i figli di Gracie, l'avvocato), sopralluoghi suggestivi sulla scena del crimine (il magazzino del negozio di animali dove furono scoperti Gracie e Joe, e dove Elizabeth cerca di procurarsi un orgasmo), esame delle prove e della documentazione (vecchi giornali, foto, filmati, lettere rivelatrici, perfino radiografie). E' chiaro che l'immersione di Elizabeth nel mondo di Gracie tende ad un'immedesimazione che si fa identificazione mistificatoria, spossessamento e sostituzione. Gli echi cinematografici rimandano ai film dove la relazione femminile diventa rivalità, identificazione ostile, furto del ruolo e dell'identità: da Eva contro Eva di Mankiewicz, a Persona di Bergman, fino al cinema di Assayas che porta all'esplicitazione la suggestione vampiresca (Irma Vep, Sils Maria) o al Polanki (cosceneggiatore con lo stesso Assayas) di Quello che non so di lei (tutti film, detto per inciso, scritti da registi-sceneggiatori maschi). In un gioco di specchi che si fa insistito, le due donne si guardano fianco a fianco, si truccano a vicenda, cercando un'assimilazione fisica oltre che psicologica. La presenza di Elizabeth si fa sempre più invadente, tesa ossessivamente ad impadronirsi dell'aspetto, della psicologia, dei sentimenti e dei corpi delle persone che costituiscono il mondo di Gracie. Nel momento in cui Elizabeth legge/recita allo specchio le parole di Gracie (scritte su una lettera che la donna indirizzò al suo amante-ragazzino) è ormai sola, letteralmente al posto di Gracie, preludio alla impersonificazione finale sotto l'occhio delle cineprese, dove Elizabeth/Gracie si trasforma in una grottesca Eva tentatrice che induce al peccato con la complicità di un serpente. Ma in realtà il tema della manipolazione è molto più complesso di così: Elizabeth (che in un incontro con gli studenti rivela la labilità del confine tra realtà e finzione nella propria professione, parlando esplicitamente delle scene di intimità e sesso interpretate e vissute sul set) sfrutta la psicologia e anche le fragilità di Gracie per sublimarle nella propria interpretazione; ma il nodo centrale della storia risiede nel rapporto asimmetrico nato a suo tempo tra una trentaseienne e un tredicenne (May December è un modo di dire per indicare una relazione anagraficamente squilibrata – in genere in situazioni in cui è il maschio ad essere il più anziano); un'asimmetria che si ripercuote anche nel presente: ora entrambi i due sono adulti, ma Gracie è una matriarca che si comporta ancora con l'insicuro Joe con un'autorevolezza e una condiscendenza materna, mentre le sue certezze cominciano a frantumarsi in crisi nevrotiche e lei cerca di autoconvincersi che fu il giovanissimo a sedurla, e non il contrario. E d'altra parte il fatto che Gracie abbia accettato che si girasse un film su di lei e sulla sua storia sembra nascondere (fino ad un certo punto) anche il compiacimento narcisistico di chi vuole esibire le proprie scelte eterodosse e una pretesa serenità psicologica e famigliare, in un tranquillizzante contesto borghese e domestico (la prova del nove si avrebbe capovolgendo la storia a generi invertiti, e pensare alla vicenda di un trentaseienne maschio che seduce una ragazzina delle scuole medie mettendola incinta per poi assorbirla nella propria vita). Ma c'è un altro livello di manipolazione da considerare, quello della società e dei media, pronti a scandalizzarsi perbenisticamente davanti ad una relazione poco o per nulla ortodossa ma pronta ad avventarsi avidamente sulla storia per soddisfare le proprie pruderie voyeuristiche. La storia di Gracie e di Joe non appartiene solo a loro, ma ai tabloid, alle fiction, e a noi spettatori di May December. Tempo più o meno presente, ambientazione in una città che potrebbe essere Londra (o i suoi sobborghi). Un uomo ancora giovane ha perso le persone più amate in un incidente automobilistico. Gli si offre però il modo di ricontrarli nella casa che un tempo avevano abitato insieme (in una dimensione fantasmatica ma realistica nella rappresentazione), per un periodo limitato di tempo: sarà l'(ultima) occasione per confrontarsi di nuovo con un lutto mai completamente elaborato e risolto, per congedarsi da loro, ma soprattutto per affrontare e cercare di sciogliere dei nodi esistenziali ed affettivi rimasti in sospeso dopo la prematura scomparsa. Nel frattempo il protagonista intraprende una nuova relazione sentimentale, che sembra indirizzare la sua vita verso un'evoluzione più positiva. Ma non tutto è come sembra, e l'esistenza reale di uno dei protagonisti (non dico di più per non rovinare quella che deve essere una sorpresa per lo spettatore) viene rimessa radicalmente in discussione. Nell'ultima immagine, gli amanti dormono abbracciati in un letto, in un'immagine malinconica ed enigmatica. Sembrerà impossibile, ma questa è la sinossi non di uno ma di due film, che per una straordinaria coincidenza escono sugli schermi cinematografici italiani a distanza di poche settimane l'uno dall'altro. A me è capitato di vederli a pochissimi giorni di distanza e mi hanno provocato un tale corto circuito mentale che devo davvero fare uno sforzo per distinguerli l'uno dall'altro. Sono rispettivamente Estranei (All of Us Strangers), del regista inglese Andrew Haig (Weekend, 45 anni, Charley Thompson), uscito il 29 febbraio, e Another End, dell'italiano Piero Messina (L'attesa), previsto in uscita il 21 marzo. Certo, le differenze, ovviamente, abbondano: in Estranei i famigliari defunti sono due, il padre e la madre (Jamie “Billy Elliot” Bell e Claire Foy), morti sulla strada quando Adam (Andrew Scott), oggi uno scrittore adulto che si confronta con la propria storia famigliare, aveva solo 12 anni. Adam si incontra con i loro fantasmi (“presenti” in modo realistico; ma con l'età che avevano quando sono mortie consapevoli di esserlo) nella casa dell'infanzia. Adam ha così modo di rivelare loro la propria omosessualità, che al momento della loro scomparsa era, in lui ragazzino, solo latente, e cerca disperatamente da loro comprensione, rispetto, accettazione. Il suo nuovo amante è quindi un uomo (Paul Mescal), l'estraneo del piano di sotto, bizzarramente l'unico coinquilino in un grande caseggiato nel sobborghi di Londra non ancora abitato. In Another End la persona cara scomparsa prematuramente è la moglie del protagonista Sal, che vive in una città non nominata, modernamente anonima, dove si parla inglese (anche se lui parla in spagnolo con la sorella: Garcia Bernal è di origine messicana, Berenice Bejo argentina). L'occasione per incontrare di nuovo la moglie morta è fornita a Sal dalla scienza, che è ora in grado di impiantare in ospiti volontari, per periodo limitati di tempo, la personalità e i ricordi appartenenti a cari defunti. L'operazione vanta un dubbio valore terapeutico: ovviamente Sal non riuscirà più a staccarsi dalla donna (c'è un punto in cui il film incrocia precisamente uno snodo de La donna che visse due volte), che è un po' la moglie (con la quale deve rielaborare il rimpianto di non avere avuto un figlio, a causa delle proprie paure), un po' una donna sconosciuta, che a sua volta ha avuto un lutto e ora deve faticosamente cercare una nuova ragione di vita. Non aggiungo di più sui rispettivi finali, che, pur non nelle rispettive differenze, adottano un analogo twist narrativo, con la rimessa in gioco dello statuto ontologico dei personaggi protagonisti, e si chiudono entrambi su un'immagine plastica praticamente sovrapponibile. Ho trovato assolutamente singolare comunque la consonanza dei due film nel trattare in modo immaginifico lo stesso pressoché identico tema, ovvero quello della possibilità di confrontarsi con i propri fantasmi affettivi e sentimentali, di dire finalmente le parole che non si sono mai dette, di risolvere questioni esistenziali che non si è saputo o potuto affrontare - anche perché è mancato drasticamente quel tempo che si credeva di avere a disposizione. Lo spunto da fantascienza o da ghost movie è solo un labile pretesto narrativo per mettere in gioco un teatro mentale dove si rappresenta la resa dei conti con se stessi e con i fantasmi della propria coscienza e della propria storia individuale e famigliare. Another End (decurtando il titolo si ottiene l'espressione “not here”, poiché si ha a che fare con persone che non sono più qui, cioè tra noi, ma anche “the end”, come esplicita il trailer del film) in ossequio alla sua natura pretestuosamente fantascientifica, si apre con un paio di sequenze ad effetto. In una Sal si reca dall'anziana vicina per aiutarla a riparare un guasto domestico. Mentre la signora offre un tè a Sal e chiacchiera abilmente, il marito dorme sul divano, con il giornale aperto sulle ginocchia. Poi arrivano degli inservienti che cominciano a trafficare intorno all'anziano. Non sono badanti o infermieri: lo impacchettano in un involucro e lo portano via, nell'indifferenza della moglie, come se fosse un cadavere. Nella sequenza successiva siamo in un hangar gigantesco, dove sono stesi moltissimi corpi, chiusi in involucri simili. Poi i presunti cadaveri si risvegliano, aprono dall'interno le cerniere dei rispettivi involucri, si alzano e si incamminano. Ma la parte preponderante di entrambi i film si svolge in realtà in ambienti domestici, sottolineando la dimensione intimistica ed emozionale della narrazione, con pochissime sequenze girate all'esterno (in un'ennesima consonanza o rima visivo-narrativa, in entrambi i film c'è un'importante sequenza girata in discoteca). L'ambiente urbano è sempre impersonale e anonimo: in Estranei Adam (il primo uomo, in attesa di un compagno tratto dalla propria costola) vive in un grande condominio disabitato, e Londra è solo un remoto skyline visto alla finestra; in Another End Sal vive ormai solo nel suo appartamento, in una città senza nome dall'aspetto moderno e scostante. Gli interni (la casa dei genitori di Adam, quella di Sal) hanno invece una dimensione un po' vecchia, vagamente claustrofobica, dove si ascoltano vecchi vinili o si guardano film dal divano del salotto. Anche l'ambientazione è costantemente crepuscolare: il mondo di Another End è grigio e piovoso, mentre dalla finestra di Adam si vede incombere sul lontano skyline della città un sole costantemente rosso, come in un eterno estenuante malato tramonto.
Perfino le personalità dei protagonisti maschili hanno delle consonanze: se Adam è un gay (o queer - nel film si discute della definizione più appropriata) dichiarato, e chiaramente la parte passiva e più femminile della coppia che si viene a formare con il vicino Harry, Sal sembra rappresentare il lato meno virile del triangolo (o quadrilatero) formato con la moglie Zoe (interpretata da Renate Reinsve, che supera vistosamente anche in statura fisica il “piccolo” Gael Garcia Bernal) e con la sorella Ebe (ed eventualmente con Ava, “ospite” della personalità di Zoe). Entrambi i film infine adottano un twist finale che dovrebbe sorprendere lo spettatore con una rivelazione a sorpresa. E' un ribaltamento esistenziale-ontologico di cui Philip Dick fu un precursore in letteratura e che ormai abbiamo già visto più volte sullo schermo in diverse declinazioni (da Il sesto senso a The Others a Sto pensando di finirla qui). Evidentemente sono due film che, per i temi toccati e per il tono della narrazione - in entrambi i casi calibrato sulle emozioni dei protagonisti, sui loro rimpianti e rimorsi, sui loro sensi di colpa e sul desiderio di poterli fugare con un confronto postumo con le persone più importanti della loro vita, sul loro amore e sul bisogno di riceverne - toccano o possono toccare profondamente la sensibilità di spettatori e spettatrici. Con qualche veniale difetto. Ad Estranei imputerei soprattutto il rischio di sfiorare in qualche occasione il ridicolo involontario (v. le scene in cui i protagonisti discutono disinvoltamente della propria morte o dei tempi moderni che ne sono seguiti; o, peggio, quella in cui Adam, adulto, veste un pigiamino da dodicenne e si mette a dormire tra i genitori nel letto matrimoniale); a Another End (che deve superare nella fase iniziale la difficoltà di rendere comprensibile la situazione evitando l'effetto “spiegone”) qualche goffaggine in certi aspetti della narrazione (le parti del laboratorio o del bordello), una certa durezza della Reinsve ed un finale un po' troppo affrettato, non si sa se più ambiguo o più confuso. Direi che vale comunque la pena di vederli. Seguirà dibattito: inevitabilmente, principalmente con se stessi. UN ALTRO FERRAGOSTO di Paolo VirzìSembra che non sia mai una buona idea dare un seguito a distanza di tempo a film che in qualche modo hanno segnato un'epoca. Nemmeno se sono gli stessi autori (e gli stessi attori, quando possibile) ad interpretarli. Non è difficile immaginarlo a priori, e la casistica ormai potrebbe dar luogo ad una legge enunciabile. Raccontare Vent'anni dopo potevano andare bene per Alexandre Dumas, che non doveva confrontarsi con la cruda e tangibile realtà dell'invecchiamento fisico dei personaggi – e che comunque pubblicò il romanzo poco dopo I tre moschettieri. Ma non ad esempio per i Blues Bothers (che tornarono 18 anni dopo senza Belushi); o per i trainspotter di Boyle (20 anni dopo); o per i blade runner, replicati negli anni in una serie di director's e final cut e poi riassemblati da Villeneuve (che se ne è nel frattempo pentito) 35 anni dopo gli originali; o per Un uomo una donna, tornati con una ventina d'anni in più per una ballata da vecchi amanti; o per Il regalo di Natale di Avati, con rivincita al tavolo da gioco 15 anni dopo; o per i Comedians di Salvatores, riesumati lugubremente – con tutti gli attori cambiati - da un celebre spettacolo da lui diretto al Teatro dell'Elfo addirittura 36 anni prima e già portato sullo schermo in forma apocrifa 33 anni fa.
Un altro ferragosto non sfugge alla legge. 30 anni fa, Ferie d'agosto aveva rappresentato icasticamente l'Italia nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, con la sinistra sempre perdente contro il predominio democristiano che si apprestava a perdere di nuovo – con onore? - di fronte alla marea montante del berlusconismo, del suo edonismo pacchiano, della sua volgarità intellettuale, della sua immoralità corrotta e corruttrice. Ora, per rappresentare l'evoluzione, o l'involuzione, della società italiana, Paolo Virzì, cosceneggiatore con il fratello Carlo e con Francesco Bruni, riconvoca di nuovo sulla piccola isola di Ventotene i rappresentanti delle famiglie Molino e Mazzalupi, i protagonisti di allora. O, per lo meno, i sopravvissuti, visto che alcuni degli interpreti sono scomparsi prematuramente, come Ennio Fantastichini o Piero Natoli. Chi non è morto – ovviamente - è invecchiato (anche se Sabrina Ferilli ha sempre un suo perché, malgrado i 30 anni di più); Silvio Orlando è impressionante per credibilità nel ruolo dell'anziano Sandro Molino, ex giornalista de l'Unità, che comincia a perdere forze, memoria e trebisonda: il combattivo intellettuale di sinistra si è trasformato in un vecchio che detta al giovanissimo nipote velleitarie lettere da mandare a Ursula von der Layden per la tutela della memoria storica di Ventotene, terra di confino per molti antifascisti durante il ventennio; che predica un'ormai smarrita “igiene delle parole” e che fa sogni in bianco e nero dove dialoga con Pertini e Spinelli mentre fischia il vento e dove viene accusato dalle donne partigiane, forse non a torto, di non saper amare, vivere e divertirsi. Invece di partire in barca imbracciando il mitra per andare a liberare l'Italia e costruirne una migliore, come nei suoi sogni, scomparirà in ambulanza inseguito dalla moglie e dai famigliari afflitti, come se fosse Roma città aperta. La moglie Cecilia (Laura Morante), che da sempre si sente trascurata dal marito, nel frattempo si è trastullata e angustiata nevroticamente con il sogno di nuove avventure erotico-sentimentali, e il figlio (la new entry Andrea Carpenzano) ha fatto soldi inimmaginabili con una app e ora si accompagna ad un fatuo amante ossigenato. Roberto (Gigio Alberti) continua a non avere né arte né parte, eterno playboy fricchettone sgualcito e squattrinato, mentre Mauro (Silvio Vannucci), aspirante attore, e ora imprenditore turistico a Ventotene, organizza squallidi festival di cinema alternativo (dove lui è protagonista) per quattro spettatori che non hanno di meglio di fare per passare la serata. Dall'altra parte della barricata la Sabri da bruttina complessata (Vanessa Marini nel primo film) è diventata una bruttina stagionata (Anna Ferraiol Ravel); è sempre ignorante, ma anche lei ha fatto talmente fortuna sul web, con dei tutorial di cosmesi con cui consola e fa sperare bruttine come lei, da essere sul punto di sposarsi (in diretta social, ovviamente) con un cinico e buzzurro cacciatore di dote (Vinicio Marchioni), e da essere corteggiata anche dagli emissari di un partito destrorso molto molto simile a Fratelli d'Italia, che, ingolositi dal numero esorbitante dei suoi follower, le offre una prestigiosa e inopportuna candidatura; la bella Marisa (Ferilli), rimasta vedova ma sempre frustrata da una vita che non la soddisfa, ha cercato un nuovo compagno in Pierluigi-Nardi-Masciulli (Christian De Sica), un maneggione inguaiato che i suoi stessi figli cercano di fare interdire. Ma insieme ai personaggi sono invecchiati anche Virzì e gli autori, e, malgrado la professionalità nella scrittura e nella regia e la lucidità della visione, qualcosa non funziona più come una volta, e l'ironia, l'umorismo, il gusto socioantropologico, la malinconia e la poesia di Ferie d'agosto non ritornano più allo stesso modo in questo Ferragosto. La rappresentazione dell'Italia (e del mondo) odierno sembra in certi momenti più enunciata che messa in scena, i vizi e i problemi contemporanei più elencati che incarnati, e le macchiette stentano (anche se la struttura corale lo rende difficile) a farsi personaggi di carne e sangue. C'è nel film una vena senile, catastrofista, per certi versi rassegnata, che sembra coerente con l'apocalisse già annunciata da Virzì nel precedente Siccità, che pure aveva dalla sua lo scarto fantastico. Qui invece è proprio un nuovo scarto che manca, si sente un po' il peso della ripetizione, e i personaggi girano intorno ai ricordi e ai rimpianti, tra qualche pudico e veloce flash delle passate Ferie d'agosto e i ritratti dei defunti incorniciati sul comò. Tra social e app, gender fluid e omofobia, tatuaggi e wedding planner, radical chic e influencer, inglesismi e neologismi, fascismo in doppiopetto e sinistrismo sterile e autocondannato alla sconfitta, discoteche anni '80 e stornellate di chitarra acustica, la varia umanità si muove sotto un cielo estivo reso plumbeo dall'aria dei tempi di cui si parla, tra guerre mondiali già iniziate e cataclismi climatici forse già inarrestabili. La commedia all'italiana (in una parabola non inedita) perde il suo afflato progressista e in certo modo pedagogico per farsi tetra, scorata e un po' livorosa rappresentazione del presente. Nel passaggio generazionale succede che i vacanzieri di Un altro ferragosto, come i Comedians di Salvatores, sono grotteschi ma non fanno più ridere, non suscitano il sorriso, non inseguono speranze ma bensì destini di frustrazione. A passarsela meglio in fondo sono quelli che stanno “dall'altra parte”, che pensano che i confinati politici trascorressero il tempo tra happy hour e passeggiate a mare; quelli meglio organizzati, più determinati, più avidi, con meno scrupoli, con più sete di soldi e di vita. A Molino, invece, non resta più il tempo nemmeno per una prossima vacanza al mare. GLI OSCAR 2024Massì, è andata come doveva andare, con Oppenheimer che fa incetta di Oscar; Emma Stone giustamente riconosciuta come fuoriclasse al secondo dei suoi meritatissimi Oscar (a Margot Robbie, altrettanto brava e capace di mettersi in gioco, è stata inflitta l'ingiusta umiliazione della mancata candidatura); Povere creature! che si fa valere per il suo aspetto visivo immaginifico; la miglior sceneggiatura oculatamente assegnata a Anatomia di una caduta e il premio come miglior film internazionale a quello che era il miglior film internazionale, La zona d'interesse.
D'altra parte mi pare che la selezione dei film da Oscar quest'anno fosse particolarmente azzeccata. Nella decina nessuno demeritava veramente, anche se alcuni film spiccavano tra gli altri. Oppenheimer non mi ha fatto impazzire, tutt'altro; riconosco che però è un progetto d'autore e di ampio respiro. Tra gli altri film nominati i miei preferiti erano La zona d'interesse (che però aveva già la sua zona d'interesse in cui vincere, quella dei film internazionali) e Povere creature!. Entrambi oggetti d'autore alquanto bizzarri, ideali per i cinema d'essai ma stupefacenti (soprattutto il primo) in una selezione per l'Oscar. Una conferma della svolta autoriale degli Academy Award, sempre più lontani da blockbuster spettacolari o dai grandi filmoni per tutti e per tutta la famiglia. I film di Glazer e di Lanthimos contribuivano quindi decisamente a tenere alta l'asticella della qualità, insieme a film come Anatomia di una caduta (in cui ritroviamo Sandra Huller, in qualche modo una vincitrice morale, essendo protagonista anche de La zona d'interesse) o Killers of the Flower Moon, con l'ottuagenario Scorsese sempre in forma perfetta, con uno dei suoi grandi affreschi della storia americana come storia criminale (averlo escluso dai premi è terribile). Ma c'era anche Barbie, che è riuscita nell'impresa non facile di trasformare quella che poteva essere una bieca operazione di marketing in un eccentrico pamphlet femminista ribaltando gli stereotipi di partenza. E c'era Maestro, con Bradley Cooper che ha tentato attraverso la figura di Bernstein di fare il film della propria vita, con l'aspirazione di ritrarre una personalità bigger than life. E c'era American Fiction, che ha portato agli Oscar la questione afroamericana ribaltandone i luoghi comuni e intercettando temi di grandissima attualità come la cancel culture, l'ideologia woke, il blackwashing. Nella mia scala d'interesse gli ultimi posti sono occupati da The Holdovers e da Past Lives, che sono comunque dei film con una loro dignità e che hanno trovato un loro pubblico di estimatori. Apro qui una parentesi. A me sembrerebbe opportuno che anche gli Oscar, come i Golden Globe, anziché ammassare dieci titoli nella categoria principale del Miglior film, istituissero una sezione per i film drammatici e una specifica per le commedie o simili. E' vero che non sempre è facile attribuire con certezza un film ad una delle due sezioni (Povere creature!, ad esempio - con la sua natura mutante, poliforme e teromorfa - che cos'è?), ma l'esclusione (quasi) totale di Barbie dal palmares (perfino nei reparti artistici) la dice lunga. Far vincere un film su una bambolina contro film sui dilemmi morali del creatore della bomba atomica, o sulla mancanza di dilemmi morali del comandante di Auschwitz, o sugli scrupoli o mancanza di scrupoli degli sterminatori di nativi americani, appare davvero dura. E infatti. Politicamente corretto e sensibilità #MeToo non hanno condizionato più di tanto i risultati. Gli afroamericani sono accontentati con il premio ad American Fiction e quello a Da'vine Joy Randolph, ma la tentazione di premiare la prima attrice nativa americana candidata agli Oscar non è stata sufficiente a far superare la superlativa, strabordante Emma Stone alla pur brava Lily Gladstone di Killers of the Flower Moon (non molto protagonista però e impegnata in una gamma espressiva decisamente più limitata). Anche Celine Song, donna, coreana, autrice di un melodramma femminista, non è arrivata più in là della candidatura con Past Lives. Il kolossal femminile-femminista tutto rosa confetto, poi, si porta a casa per far compagnia alla bambolina una sola statuetta per la miglior canzone. Anche la cinquina dei film internazionali era di ottimo o buon livello. Magari in giro per il mondo c'erano altri titoli meritevoli, ma questi erano davvero buoni. Erano interessanti già per l'audacia del progetto produttivo La zona d'interesse, su un tema ostico e sgradevole, in cui un regista inglese si accampa ai piedi del muro di Auschwitz senza mai mettere piede all'interno, ricostruendo con rigore filologico ambiente e vicende e adottando uno stile di ripresa freddo e impersonale; o Io capitano (che NON è un film su Schettino e il disastro della Costa Concordia, come diceva Televideo nottetempo, e neppure sul capitano dei verdebruni), film italiano che non si svolge in Italia, dove non si parla italiano (ma prevalentemente wolof) e dove l'Italia non si vede mai; o ancora Perfect Days, con il regista tedesco che torna in Giappone per pedinare un pulitore di cessi. Non male anche La società della neve, girato in ambienti proibitivi, che adotta uno stile cronachistico piuttosto piatto ma suscita e lascia dentro un'angoscia notevole, e La sala professori, thriller scolastico con tema da dibattito (non solo tra insegnanti). A proposito di cinema internazionale, apro qui una seconda e ultima parentesi. Mi sembra assai significativo che i premi rappresentativi per antonomasia del cinema americano e della sua industria siano andati, tra gli altri, a registi inglesi, giapponesi e ucraini; ad attori irlandesi e afroamericani; a sceneggiatori afroamericani e francesi; a direttori della fotografia olandesi, a scenografi inglesi e ungheresi, a costumisti, truccatori e tecnici del suono britannici, a creatori di effetti speciali nipponici, a musicisti svedesi. Diciamo che almeno al cinema sembra che i confini siano diventati permeabili e che lo sciovinismo hollywoodiano sia decisamente e ampiamente in fase di superamento. MEMORY di Michel FrancoQualche anno fa avevo scritto un breve saggio (pubblicato sul n. 198 di SegnoCinema nel marzo 2016) dal titolo “La memoria, la storia, l’oblio, il cinema”, in cui prendevo in esame le figure dell’amnesia e dell’oblio nel cinema contemporaneo, deducendone che l’assenza di memoria è spesso l’artificio retorico e psicologico per rimuovere contenuti storici ed esistenziali traumatici che non hanno potuto giungere ad una compiuta elaborazione e quindi al loro superamento.
Memory, il nuovo film del regista di origine messicana Michel Franco, a cominciare dal titolo dichiarativo, si sarebbe ben inserito in quella trattazione. Il tema della memoria (e del suo contrario) appare subito centrale: il rapporto tra Sylvia e Saul si innesca da principio su un falso ricordo di lei, che lo accusa di aver avuto comportamenti sessuali inappropriati quando lei era appena una dodicenne. Entrambi provengono da famiglie borghesi benestanti, ma mentre Sylvia è un ex-alcolista che ha seguito un lungo periodo di riabilitazione e ora lavora come assistente in un centro diurno per disabili, Saul, benché cinquantenne, è affetto da demenza precoce e ha delle falle nella memoria a breve termine che lo rendono inaffidabile. Franco, dopo il sulfureo Nuevo orden (ma in mezzo c’è stato anche Sundown), passa da un cupo affresco contemporaneo del disordine, della diseguaglianza e dei rapporti di potere, inquadrato in una dimensione fortemente socio-politica, ad un racconto intimo, centrato sulla relazione che si crea sui due protagonisti, entrambi alla ricerca di un rapporto che lenisca le ferite che la vita ha inferto loro, ma che si allarga anche ai rispettivi contesti famigliari. Ed è proprio nella famiglia di Sylvia che si radicano segreti inconfessabili che sono anche alla base dei suoi traumi, e che tutti cercano o fingono di non ricordare. Al racconto cinematografico spetta quindi il compito, via via fino alla catarsi finale, di smascherare i falsi ricordi, di cercare di tamponare le amnesie, di superare le rimozioni ipocritamente consapevoli (come quelle della madre di Sylvia e forse anche del cognato) o quelle psicologiche di donne che hanno cercato di superare con la dimenticanza gli abusi vissuti da bambine (come la stessa Sylvia o la sorella minore Olivia, vittima in secondo grado). Franco imposta la narrazione su una sequenza enigmatica e inqueitante (il pedinamento notturno di Sylvia da parte di Saul) ma mantiene poi un tono della narrazione piuttosto freddo e distaccato, con sequenze prevalentemente statiche a camera fissa. Il nichilismo senza scampo di Nuevo orden tuttavia si stempera, o addirittura si capovolge, nella speranza della ricostruzione di relazioni umane che possano risorgere e rinsaldarsi anche scaturendo da presupposti drammatici e problematici. Merito anche di due interpreti credibili come la Chastain e Sarsgaard (premiato a Venezia con la Coppa Volpi); ma sorge il dubbio che il provocatore Franco stavolta sia stato fin troppo buono, mettendo in scena una demenza che in fin dei conti provoca qualche limitato problema (un paio di svenimenti, l’impossibilità a seguire un film in tv), ma che non inficia i rapporti tra Saul e i suoi familiari, né la possibilità di intraprendere positivamente un rapporto sentimentale con Sylvia. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|