IL DIRITTO DI OPPORSI (Just Mercy) di Destin Daniel CrettonSiamo nell'Alabama, esattamente nei luoghi che ispirarono alla scrittrice Harper Lee Il buio oltre alla siepe, che divenne un film con la regia di Robert Mulligan. Stavolta ad assumere il ruolo dell'avvocato difensore dell'afroamericano ingiustamente accusato da un sistema giudiziario razzista, ipocrita e assassino, al posto del wasp Atticus Finch interpretato nel 1962 da Gregory Peck, c'è un giovane avvocato di colore, disposto a rinunciare alla carriera per impegnarsi nella difesa dei diritti civili dei condannati che non possono permettersi assistenza legale. Anzi, non solo dei diritti, ma della vita stessa, visto che la scelta cade sui detenuti nel braccio della morte in attesa di esecuzione: quasi tutti neri, molti condannati in base a giudizi sommari, con un'assistenza legale inadeguata. A Monroe, Alabama, ci sarà pure un museo dedicato alla storia di To Kill a Mockingbird, ma la mentalità retrograda, oppressiva e razzista non è certo stata sradicata. Il diritto di opporsi si ispira a una storia vera, quella dell'avvocato Bryan Stevenson, attivista dell'organizzazione Equal Justice, da lui stesso raccontata nel libro autobiografico del 2014 e nella sceneggiatura del film cofirmata insieme al regista. Data per scontata le buone intenzioni didascaliche del film, devo dire che la prima impressione non è stata positiva. Il cinema americano ci sta abituando ad un antirazzismo vintage (quando non d'antiquariato) un po' di comodo (un esempio su tutti: Green Book; BlakKklansman è un'altra cosa, mescolando al gusto seventy un furore che lo ricollega rabbiosamente alla contemporaneità), che usa il filtro del tempo per attenuare l'impatto sulla percezione dello spettatore contemporaneo. Il razzismo? Sì, una volta. Ai tempi de Il buio oltre alla siepe. Evidentemente ora, nell'America trumpiana, va tutto bene. E' vero che il passato di Just Mercy è vicino, pericolosamente vicino. Fine anni '80, inizio anni '90. Ma è pur sempre un trentennio fa, un terzo di secolo: le macchine che si vedono non sono quelle che circolano adesso, i vestiti neppure. La storia che Destin Daniel Cretton (di origini hawaiane) racconta, è a sua volta facile, manichea, completamente priva di sfumature. Il condannato a morte Walter McMillian è innocente (lo è anche il suo vicino di cella) in modo clamoroso, gli avvocati paladini dei diritti sono senza paura e senza la minima macchia, poliziotti e procuratori bianchi sono cattivi e senza redenzione. L'andamento narrativo, infine, appare lineare, piatto, didascalico, appunto, seguendo lo schema del classico courtroom drama, senza invenzioni e senza scossoni. La recitazione (Michael B. Jordan e Jamie Foxx sono i fin troppo affascinanti protagonisti, mentre il principale personaggio femminile è affidato a Brie Larson, abituale collaboratrice del regista e pluripremiata per la sua performance in Room, di Lenny Abrahamson) si adegua adottando dignitosi toni convenzionali. Eppure a lungo andare i difetti del film possono non dico tramutarsi in pregi, ma per lo meno riscattarsi almeno in parte. La facilità del caso diventa la cartina di tornasole che rivela un sistema talmente perverso da condannare e ricondannare un innocente perfino quando la sua incolpevolezza è provata e abbagliante, un po' come succede all'ebreo Dreyfus nel caso capostipite portato recentemente sullo schermo da Polanski ne L'ufficiale e la spia. A metà film inoltre il regista costringe lo spettatore ad accompagnare un dead man walking fin dentro la cabina della sedia elettrica, inducendo un profondo e reale senso di disagio di fronte alla morte somministrata ex lege con un sinistro rituale tanto burocratico quanto atroce; e la recitazione di Tim Blake Nelson (era il terzo galeotto evaso in Fratello, dove sei? dei Coen insieme a Clooney e Turturro) va oltre il manierismo dando al personaggio di Myers (il testimone contro McMillian, un disgraziato white trash costretto a mentire con le lusinghe e con le torture psicologiche), con i suoi tic e la sua timida e impacciata strafottenza, uno spessore umano non stereotipato. Inoltre il film non finisce dove ci si aspetterebbe, con la scontata concessione della revisione del processo di fronte a prove apparentemente inconfutabili, e si prende ulteriore tempo per mostrare la spaventosa accanita pervicacia di un sistema poliziesco e giudiziario, preposto istituzionalmente alla tutela delle persone, della legge, dell'ordine e della giustizia, in realtà profondamente malato e in malafede. Le prevedibili didascalie finali infine ci ricollegano ad un'attualità nella quale persone di bassa estrazione sociale, preferibilmente di colore, continuano ad essere condannate in processi approssimativi, senza la garanzia di un'adeguata difesa, e nella quale una condanna a morte su nove (!) nasconde errori giudiziari. Tra le didascalie, forse quella che mi ha colpito di più è quella che racconta la sorte dello sceriffo Tate (Michael Harding), l'artefice delle false prove costruite per incastrare McMillian, e dei maneggi per nascondere le prove a suo discarico. Dopo l'acclaramento dell'innocenza di McMillian, anche per il cedimento del procuratore Chapman (Rafe Spall), Tate continuò a fare lo sceriffo, eletto per altre sei volte dai suoi bravi concittadini, evidentemente ansiosi di sentirsi protetti dagli uomini neri e soddisfatti della sua volontà di mandare a morte un innocente pur di compiacerli. Just mercy, reclama il titolo originale del film, ma forse sarebbe sufficiente just a little bit of justice.
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1917 di Sam MendesDue soldati britannici riposano sdraiati sull'erba sotto un albero poi vengono avvertiti che sono chiamati a rapporto allora si alzano attraversano tutto il prato in mezzo ad altri soldati scendono nella trincea affollata la percorrono per un lungo tratto entrano nel quartier generale dove un alto ufficiale affida loro la missione di avvertire un battaglione che sta per cadere in una trappola tedesca allora escono percorrono le trincee affollate di soldati escono allo scoperto strisciano nel fango rimangono impigliati nel filo spinato se ne liberano avanzano nella terra di nessuno crivellata dai crateri delle bombe pieni di acqua fangosa costellata dai cadaveri dei soldati tra cui scorrazzano topi affamati... Già a questo punto verrebbe da dire fermi, facciamo una pausa, tiriamo un respiro. Perché 1917 è girato così, senza virgole, senza punti e senza punti e virgola: cioè in un apparente piano sequenza infinito, senza stacchi di montaggio. In una guerra di posizione come la Prima Guerra Mondiale, Sam Mendes fa un film di puro movimento, con i personaggi e la macchina da presa che non si fermano mai, l'una a seguire costantemente gli altri, nei labirinti delle trincee, negli angusti spazi chiusi, negli immensi spazi aperti e desolati – paradossalmente non meno claustrofobici di quelli chiusi – nella terra di nessuno crivellata dalle bombe, nei cunicoli abbandonati dai Tedeschi, nelle campagne, tra le rovine diroccate dei paesi, e così via. La mdp cammina, accelera e decelera, sorvola spazi acquitrinosi, sale e scende dai camion, in un tour de force virtuosistico e sbalorditivo. Il partito preso del metodo di ripresa ha significato tra l'altro niente luce artificiali (per ottenere la continuità e uniformità luministica la troupe girava solo nelle giornate di cielo coperto, utilizzando le altre per le prove), nessuna attrezzatura o postazione tecnica nelle vicinanze (spesso la macchina da presa si muove a 360°), con regista e direttore della fotografia (il grande Roger Deakins, 1 Oscar e altre 14 candidature) a gestire le riprese da postazioni remote e invisibili. Ovviamente non si tratta di un piano-sequenza unico e ininterrotto, anche perché la vicenda si svolge in un arco di tempo che comprende due frazioni di giornate e un'intera notte, ma il lavoro di ripresa e montaggio (quest'ultimo curato da Lee Smith, collaboratore abituale di Cristopher Nolan, che ha firmato tra l'altro anche l'altro grande war-movie degli ultimi anni, Dunkirk) è tale da tentare di offrire allo spettatore un'esperienza più immersiva possibile (come dicevo all'inizio, a volte si prova il bisogno di “tirare il fiato”). L'eccezionale performance tecnico-artistica non è completamente inedita; vanno citati tra i casi di scuola il pionieristico Hitchcock del 1948, Nodo alla gola, un giallo psicologico girato in un appartamento in un apparente unico piano-sequenza, e il mastodontico Arca russa di Sokurov, un ipnotico piano-sequenza girato nei labirintici e sterminati spazi dell'Ermitage con centinaia di attori e comparse. La novità ulteriore di 1917 è l'ambizione di applicare la formula ad un film di azione e movimento, girato per la gran parte all'aria aperta. Premi e candidature sono fioccati: 1917 e Sam Mendes si sono già assicurati il Golden Globe come miglior film e miglior regista, e sono in predicato le 10 candidature agli Oscar e le 9 ai britannici Bafta. In effetti 1917 vanta alcuni pregi, specificamente legati alla scelta della tecnica di ripresa, che si fa anche tecnica di racconto. La sua particolarità è il sapiente gioco dei pieni e dei vuoti, con parti con pochissimi personaggi in scena (spesso due o uno), in una sorta di kammerspiel ambientato in spazi sconfinati, e altre parti (in particolare l'inizio e ancor più la parte finale, in trincea) affollate e convulse. Così una notevole forza quasi onirica ha la sequenza in cui un remoto combattimento aereo, dove i contendenti sono puntini nel cielo, si trasforma senza (apparente) soluzione di continuità in un aereo che precipita in primo piano praticamente davanti ai piedi dei protagonisti. Un pregio è sicuramente inoltre il messaggio antibellico (che ne fa retoricamente consigliare la visione ai giovani), che si esprime soprattutto nella descrizione iconografica (le scene di combattimento e le uccisioni sono singolarmente poche, considerato il genere di appartenenza) della distruzione e della rovina portate dalla guerra, in paesaggi impressionanti, rasi al suolo e arsi dai combattimenti, pieni di crateri, rovine, cadaveri, carcasse di animali, alberi distrutti, città devastate. Ma i pregi hanno anche un loro risvolto meno positivo. In particolare, la scelta dell'unico punto di vista mobile, soprattutto nelle scene di combattimento, suscita un inevitabile (e fastidioso) effetto video-game (e tutto il film può assomigliare a un video-gioco in cui si passa da un livello all'altro, superando trappole e pericoli, da uno scenario ben caratterizzato ad un altro diversamente caratterizzato), mentre i (pochi) personaggi non riescono ad acquisire il necessario spessore. Ci si immerge nelle vicende narrate, ma è più difficile immedesimarsi in personaggi estremamente stilizzati (né contribuisce granché alla costruzione del personaggio l'incontro “umano” tra il milite inglese e una donna francese rifugiata tra le rovine). La visione della guerra è inoltre estremamente manichea, con i Tedeschi (quei pochi che si vedono sono ridotti peraltro a sagome in movimento) rappresentati tutti senza eccezioni come distruttori indiscriminati e senza pietà, assassini e infidi traditori, capaci di scagliarsi perfino contro chi sta cercando di salvare loro la vita, a costo di perderla, e i Britannici descritti invece come dei perfetti gentlemen (in qualche caso solo un po' testardi), altruisti e pieni di fair-play. Ci si può godere lo spettacolo(ne), restare in ansia per la sorte della missione salvifica (a proposito: in tempi di comunicazioni via radio e di aeromobili, era proprio necessario mandare due fantaccini ad attraversare l'inferno con l'improbabile obiettivo di raggiungere il battaglione isolato e attirato in trappola?), e perfino commuoversi per una virile stretta di mano o per una fotografia che evoca sentimenti e nostalgia; ma da premiare con l'Oscar, mi pare, ci sono film più meritevoli... HAMMAMET di Gianni AmelioHo una grande idiosincrasia verso i film biografici. Nel migliore dei casi, cioè quelli in cui pure ho una conoscenza generica del contesto, sono frustrato a priori dal non saperne abbastanza per poter giudicare la veridicità dei fatti e dei caratteri narrati. E poiché il diavolo sta nei dettagli, e probabilmente in dettagli che io non conosco, mi sembra difficile poter esprimere un giudizio sulle reali intenzioni del film, sul suo senso, e quindi in definitiva sulla sua riuscita. Non fa eccezione – anzi – l'Hammamet voluto da Gianni Amelio. Prima ancora della domanda sulla riuscita del film, la domanda fondamentale – che in un modo o nell'altro tutti si sono posti – è: perché fare un film di Craxi? Per darne quale rappresentazione? Per dare quale giudizio sul suo operato, sulla sua figura e sulla sua eredità politica? Emergono due scelte-chiave operate da Amelio. La prima è quella di concentrare il racconto – dopo un prologo di ampio respiro, con Craxi che all'apice della sua ascesa arringa il Congresso del Psi all'Ansaldo di Milano facendosi sovrastare da un enorme schermo prismatico che riproduce la sua immagine deificandola - sull'ultimo periodo della vita dell'uomo politico, quella corrispondente al periodo di Hammamet, una latitanza di fatto che alcuni hanno letto come un esilio volontario. Craxi è già caduto, ha subito due condanne definitive e ha diversi altri procedimenti penali in corso, è stato abbandonato dagli amici interessati, è malato, ed è ormai nell'immaginario comune la figura emblematica del politico ladro e corrotto. Al suo fianco rimangono la moglie, i due figli (la femmina più vicina, il maschio impegnato in Italia a cercare di salvare il salvabile della sua immagine e della sua eredità politica), l'amante che lo raggiunge in Tunisia, qualche ex-sodale che va a trovarlo nel suo esilio dorato sotto l'ala protettiva di Ben Alì (con tanto di sorveglianza armata da parte di militari dell'esercito tunisino). La seconda scelta narrativa è quella di rifuggire dal realismo documentaristico, per mantenere il racconto su un piano astratto (con personaggi di fantasia, altri ispirati a personaggi reali ma di cui non viene precisata l'identità, i figli con nomi cambiati, lo stesso nome di Craxi mai pronunciato, ecc.), che nel finale scivola progressivamente dapprima in un onirismo dichiarato, poi in in una chiusa addirittura romanzesca. Molti hanno letto il film come una riabilitazione della figura di Craxi. Sebbene non vengano celati alcuni suoi difetti (caratteriali prima e molto più che che politici) come l'arroganza, l'orgoglio eccessivo, l'incapacità di valutare dapprima i rischi, poi le conseguenze che la tempesta giudiziaria avrebbe scatenato contro di lui, e la strategia per affrontarla nel modo più conveniente, l'impressione scaturisce inevitabilmente dalla struttura stessa del film, che vede sempre presente nel suo baricentro la figura del leader politico in disgrazia. L'interpretazione dei fatti e il giudizio sulle vicende è così costantemente quella fornita dallo stesso Craxi, che non ha mai nel film un vero e proprio contraddittorio, bensì delle “spalle” (il figlio di un compagno di partito deceduto, la figlia, un avversario-non nemico di un altro partito, perfino il nipote bambino) che gli permettono di esprimere la propria versione e i propri sprezzanti giudizi. Cinematograficamente parlando, la centralità della figura di Craxi balza agli occhi anche attraverso la differenza di recitazione tra quella di Pierfrancesco Favino, che fornisce un'interpretazione magistrale, monumentale, mimetica senza essere gigionesca, e quella degli altri attori, più goffa e impacciata (fino a sembrare in qualche caso inadeguata), fatta eccezione per la partecipazione “alla pari” di Renato Carpentieri e per quella di Claudia Gerini, relegata ad un ruolo troppo breve per poter essere incisivo. Craxi, dunque, attraverso la propria autorappresentazione, ne esce come un nobile “leone in inverno”, la vittima di un complotto giudiziario-pidiessino-statunitense, il capro espiatorio di un sistema onnidiffuso in tutti i partiti (quello delle tangenti e dei finanziamenti illeciti), un esule perseguitato, un genio politico incompreso benché spregiudicato (con la s iniziale) che agiva per il bene del proprio partito e dell'Italia. L'assenza di contraddittorio politico ma anche drammaturgico pesa sul film (che anche per questo motivo ha un proprio equilibrio, ma finisce per essere piuttosto lento e noioso) come un macigno; né bastano a tal fine un gruppo di turisti che apostrofa Craxi in spiaggia; né tanto meno la rappresentazione di quello che era un sentire comune non solo nell'opinione pubblica ma anche in quella politica e intellettuale dell'epoca (e cioè la percezione del Psi craxiano come una centrale d'affari spesso illeciti), attraverso una caricaturale scena onirica, contrappasso iconico del prologo faraonico, dove il moribondo leader è al centro di uno sketch satirico a metà tra il Bagaglino, il cabaret espressionista e un'atmosfera felliniana. Ancora più posticcio appare il finale in clinica, morto il protagonista, con un primario craxiano, la consegna del testamento politico in videocassetta e una tardiva rivelazione romanzesca. Rimangono due possibili giustificazioni: che l'intento dell'autore fosse "solo" quello, meno legato alla cronaca e alla storia, di raccontare il declino e la solitudine di un potente. In fondo anche il film di Sorrentino su Berlusconi seguiva percorsi spesso e volentieri tangenziali e metaforici. Ma, in Italia per lo meno, non si può scindere vicende ancora così sentite e scottanti da un'interpretazione più puntualmente politica. E infatti né Hammamet né Loro sono film che possono dirsi riusciti. Oppure, rileggendo il film alla luce della filmografia dell'autore, che l'obiettivo fosse quello di rappresentare una nuova figura paterna, ossessione che attraversa tutto il cinema di Amelio. In questo caso bisognerebbe rileggere tutto da capo in questa chiave; con un Craxi Dio-padre, padre-della-patria, dux-padre-nobile della politica italiana, padre di figli inadeguati, padre putativi di figli sbandati, rimasti orfani e forse parricidi di padri eccessivamente deboli... Rimane da tornare sulla performance attoriale del protagonista: talmente incredibile da far sospettare che Craxi in realtà non sia morto e sia il reale protagonista del film, solo modificato un po' con il deaging digitale e in modo da dargli in qualche momento una vaga somiglianza con Pierfrancesco Favino, giusto per sviare i sospetti... RICHARD JEWELL di Clint EastwoodIl buono è il cavaliere senza paura (che sia senza macchia è tutto da vedere) che difende i deboli e salva gli innocenti. Il fondo è da sempre così nel cinema da autore di Eastwood. Ma qualcosa è cambiato nel tempo. I primi sono eroi eterodossi, cavalieri pallidi e dagli occhi di ghiaccio, che escono dall'inferno per portare l'inferno del mondo, dove far bruciare i cattivi. Poi ci stati gli eroi burberi ma paterni, ruvidi ma protettivi, misantropi e ripudiati dalle compagne, per i quali la famiglia significava qualche volta ricordo o desiderio, quasi sempre rimpianto. Poi si sono gli eroi che pagano un prezzo. Per gli altri Kowalski sacrifica la propria vita, Chris Kyle la propria sanità mentale; ma sono ancora loro stessi a decidere di farlo. Sully e Richard Jewell (gli unici personaggi eastwoodiani a venire chiamati col proprio nel titolo del film, almeno da una trentina d'anni a questa parte, a parte il J.Edgar che rappresenta il loro opposto negativo) appartengono ad un'altra categoria ancora. Sono eroi, sono uomini che hanno salvato delle vite umane, sono uomini che hanno fatto il loro dovere e il loro lavoro, come andrebbe fatto; ma devono pagarne il conto, e non a se stessi. Stavolta, in una visione politica sempre più pessimistica, a punirli per il proprio eroismo e altruismo sono la società e le istituzioni. Richard Jewell è un personaggio da commedia, e tale il film dedicatogli avrebbe potuto essere se i fatti storici cui è ispirato non avessero deciso diversamente. E' talmente poco credibile come eroe che i credit nei titoli di coda lo mettono all'ultimo posto tra il gruppetto dei protagonisti, sebbene il suo sia il personaggio assolutamente al centro della narrazione. E' grasso, col viso porcino, le guance paonazze, le gambe storte, vive ancora con la mamma, la donna della sua vita. L'opposto dei segaligni cavalieri pallidi, astuti, laconici e senza nome interpretati da Eastwood per Leone e poi per se stesso. Eppure ha il mito dell'ordine, della legge, della protezione. Aspira a lavorare nelle forze dell'ordine, nel settore della sicurezza, vorrebbe essere anche lui un eroe. E' un po' irritante, ma sostanzialmente buffo e (forse) innocuo. Poi la sua vita deflagra (insieme ad uno zaino-bomba nel Centennial Park di Atlanta, sede della centesima edizione dei giochi olimpici) e un eroe lo diventa davvero. Ma può un personaggio da commedia assumere la statura di un eroe tragico? La stampa che deve trovare uno scoop e l'Fbi che deve trovare un colpevole indagano, e l'eroe per un giorno si ritrova di colpo esposto ad un'impietosa gogna mediatico-giudiziaria. Il cinema individualista, antipolitico e sostanzialmente anarchico di Eastwood non ha dubbi (anche perché nel frattempo la storia ha fatto il suo corso e permette di guardare alla vicenda dall'alto di certezze acquisite) sulla parte da cui schierarsi. Si esce gratificati, soddisfatti, alleggeriti dalla visione del film: eppure con un vago senso di malessere. Perché il fanatico Richard Jewell, amante dell'ordine ma evasore fiscale, pacifico orsacchiotto ma con la casa imbottita di armi; servizievole e benintenzionato ma millantatore capace di fare il bullo quando indossa una divisa, non è forse il tipo di poliziotto con il quale ci piacerebbe avere a che fare, e il parteggiare incondizionato di Eastwood per questo personaggio fanatico, millantatore, capace effettivamente di far danni con le sue buone intenzioni, suona a ripensarci piuttosto sinistro. Nulla inoltre viene detto delle motivazioni del reale attentatore, un integralista cristiano che, in nome di una sedicente Christian Identity, odiava Imagine di John Lennon e le Olimpiadi, il socialismo, l'omosessualità e l'aborto. Eastwood è abilissimo nel farci prendere le parti di Jewell, nel seguirlo nella sua bontà sotto scacco, nelle sue buone intenzioni travisate nell'opposto, nel suo lento uscire dalla soggezione all'autorità per conquistare finalmente la propria dignità offesa. Non ha dubbi, naturalmente, la sua dolce mammina, ma neppure il suo avvocato – a sua volta in disgrazia per essersi inviso a un politico; non ha dubbi perché è sicuro che è innocente, ed è sicuro che è innocente perché gli ha chiesto se è stato lui e lui ha risposto di no. Eastwood dall'alto dei suoi novant'anni ha assunto ormai un atteggiamento ecumenico, assolutamente non manicheo, e in Richard Jewell tratta ogni suo personaggio, anche quelli che rivestono caratteri negativi, con una sorta di sguardo indulgente e affettuoso. Già in The Mule si faticava a trovare personaggi totalmente negativi: il corriere che trasporta montagne di droga sul suo pick up lo fa a fin di bene; il poliziotto che lo insegue diventa quasi un figlio putativo; le donne di famiglia che lo detestano hanno le loro buone ragioni; e perfino i trucidi narcos messicani armati fino ai denti finiscono per diventare quasi dei nuovi simpatici nipoti un po' originali. Così Richard Jewell ha un cuore d'oro, la sua mamma non ne parliamo, il suo avvocato è dotato di debolezze ma soprattutto di umanità e fiducia – e Eastwood si preoccupa addirittura anche di una sua sistemazione sentimentale prima della fine del film -, e perfino ai personaggi negativi è concesso l'alibi della buona fede o la possibilità del pentimento. A 90 anni e dopo una quarantina di film, Eastwood dirige uno dei suoi film più freschi e anche più schiettamente divertenti, ben diretto e con una squadra di attori utilizzata al meglio. Amo gli attori che sanno rendere bene la stupidità al cinema, e Paul Walter Hauser è sopraffino nel replicare replica l'interpretazione definitiva resa in Tonya e il suo pregevole cameo in BlakKklansman. Sam Rockwell, personaggio di sublime stupidità in Tre manifesti a Ebbing, Missouri, qui è invece nei panni più sobri benché stropicciati dell'avvocato Bryant; Kathy Bates è ormai una brava mamma dopo essere stata l'aguzzina di Misery non deve morire e l'assassina de L'ultima eclisse; Jon Hamm, l'impostore di Mad Men, è colui che si propone di scoprire l'impostura di Jewell, mentre Olivia Wilde, figlia e nipote di scrittori e giornalisti, si fa carico della malignità e del cinismo della stampa. Il film si prende i suoi tempi, espone ordinatamente i rapporti tra i personaggi e ne delinea i profili, duplica il concerto al parco giocando come un gatto con le aspettative dello spettatore-topo che si attende lo scoppio di un ordigno (ogni volta che individua dei personaggi nella folla si sente che ci sta dicendo: ecco, queste persone avrebbero potuto morire), e - come l'avvocato Bryant - conduce amabilmente per mano il suo eroe lungo un percorso di riabilitazione e di riconquista della fiducia in se stesso. Richard Jewell è insomma un bel film e un bel modo per festeggiare i 90 anni del regista; ma una volta uscito per strada non vorrei vedere comparire la sua divisa all'orizzonte. SORRY, WE MISSED YOU di Ken LoachMi spiace per Pinocchio e per Zalone l'Africano, mi spiace per Craxi e per Dreyfus, mi spiace per gli attori e gli stuntman di Hollywood e a malincuore mi spiace anche per i Joker tristi, ma quando vedo film così il mio cuore batte per Ken Loach e per i suoi antieroi del quotidiano. Pochissimi (ma a parte i Dardenne faccio fatica a farmi venire in mente altri autori così coerenti nel loro impegno sociale) sanno fare un cinema così necessario, dove il discorso etico e politico è così indissolubilmente intrecciato a quello cinematografico. Il mio cuore batte per i suoi disoccupati, i suoi ferrovieri, i suoi falegnami, i suoi autisti, le sue assistenti sociali, le insegnanti, le donne delle pulizie, le assistenti domiciliari; per i suoi personaggi tanto intimi, tanto famigliari da essere chiamati per nome fin dai titoli, Carla, Joe, Jimmy, Daniel Blake, Paul, Mick, e gli altri. Nell'assistere alle disavventure di Ricky, che cercando di migliorare le condizioni economiche della propria famiglia acquista facendo debiti un furgone e si mette alle dipendenze di un'impresa di spedizioni, mi tornavano alla mente le parole della canzone di Luigi Tenco “Vedrai vedrai”, dove il protagonista tenta di raccontare alla moglie i propri fallimenti, la propria frustrazione, la propria umiliazione, cercando di convincere lei e se stesso che le cose sarebbero cambiate. Forse non sarà domani, diceva, ma vedrai che cambierà. Nulla cambia invece nella visione politica, umanistica e sempre arrabbiata di Ken Loach e del suo sceneggiatore Paul Laverty (che da oltre 20 anni ha stretto un sodalizio con il regista); perché i suoi protagonisti sono intrappolati in un sistema economico neoliberista che non ci pensa neppure a correggere le proprie storture, né a cambiare il proprio obiettivo, che rimane sempre e comunque quello del massimo profitto, né a dare o restituire dignità e diritti ai lavoratori, ridotti sempre più a schiavi sfruttati, divisi, messi in competizione gli uni con gli altri in un atroce gioco al ribasso. Siamo di nuovo a Newcastle Upon Tyne, ai giorni nostri. Ricky è ufficialmente un lavoro autonomo, che si deve sobbarcare tutte le spese relative alla propria attività (per comprare il furgone Ricky vende l'auto di famiglia, che la moglie utilizzava per il proprio lavoro di assistente domiciliare, costringendola ad attraversare faticosamente la città con i mezzi pubblici), e tutti i relativi rischi; ma contemporaneamente deve sottostare ai compiti e ai tempi impostigli dall'azienda. Ne derivano giornate di 14 ore lavorative (durante le quali si saltano i pasti e si orina nelle bottigliette di plastica per non perdere tempo), multe per qualsiasi assenza o ritardo, penali sulle merci o gli strumenti smarriti, obbligo di trovare un sostituto per qualsiasi assenza per qualsiasi motivo. Non importa che Ricky sia un lavoratore volonteroso, serio, scrupoloso; o che sua moglie sia un'assistente sociale che cura anziani e disabili con amore e senso di responsabilità. Entrambi non sono che delle rotelle di un ingranaggio che non si cura di loro e che è pronto a sostituire e a buttare via le parti che dovessero cedere o perdere colpi. “Sorry, we missed you” è la formula che compare nelle notifiche di mancata consegna, e che si potrebbe tradurre più o meno come “Scusa, ti abbiamo mancato” (su uno di questi foglietti Ricky scrive un messaggio alla moglie uscendo di casa); ma si potrebbe tradurre anche come “Mi spiace, ci sei mancato”, che è quanto la sua famiglia potrebbe rimproverare a Ricky, talmente travolto dai ritmi forsennati del lavoro da non riuscire più a far fronte alle esigenze dei suoi famigliari (tanto che il furgone finisce per diventare un nemico di famiglia); o quello che i figli potrebbero rimproverare a Ricky ed Abbie, troppo assenti per due ragazzi che avrebbero bisogno di maggior cura e sicurezza; o quello che i genitori potrebbero dire ai figli, all'adolescente Seb, insofferente e problematico, spaventato di ripercorrere il destino del padre, o la piccola Liza Jane, che riprende a bagnare il letto per la percezione di una tensione domestica sempre più dirompente. Perché, ci dice Loach, è impossibile parlare politicamente di famiglia quando il sistema economico pone spietatamente e oggettivamente le condizioni per la sua precarizzazione e dissoluzione. Sorry, We Missed You, nel suo realismo cinematografico, richiama alla mente la saga dei Malavoglia, con il furgone bianco al posto della Provvidenza e la sequenza di rovesci che la famiglia si trova a subire. A 83 anni, Ken Loach è ancora l'alfiere e il convinto sostenitore di un cinema puro e duro, di un verismo senza troppe mediazioni linguistiche, con attori sconosciuti che sembrano presi direttamente dalla strada (ottimi il padre di un sanguigno e combattivo Kris Hitchen, il giovane figlio Seb interpretato da un sorprendente Rhys Stone, e anche la piccola Lisa Jane di Katie Proctor e il villain Maloney interpretato con odiosissima verosimiglianza da Ross Brewster). Senza artifici retorici o melodrammatici, senza fronzoli, senza abbellimenti narrativi o estetici, anche Sorry We Missed You, come precedenti film di Loach, mantiene per tutta la sua durata una tensione altissima, fino ad arrivare a scene di strazio quasi insopportabile. Mi era successo guardando I, Daniel Blake di trattenere a stento la commozione durante la scena alla banca del cibo, quando una ragazza madre apriva una scatola di fagioli e cominciava a divorarli compulsivamente prima di scoppiare in lacrime; mi è successo qui nella sequenza al pronto soccorso: Ricky è stato picchiato e derubato e si trova all'ospedale, pesto e sanguinante, ad attendere le ore necessarie per avere qualche tipo di assistenza. Maloney, il suo datore di lavoro, lo chiama al cellulare per chiedergli se si è procurato un sostituto per l'indomani e per fargli i conti dei danni che dovrà rifondere per le cose rubate o danneggiate e delle penali che dovrà pagare per le mancate consegne e le assenze. La moglie, che gli siede accanto, toglie il telefono di mano a Ricky e dice a Maloney quello che tutti in quel momento vorremmo dirgli, coprendolo d'insulti. La mite Abbey, che non dice mai una parolaccia, e che scoppia in un pianto a dirotto appena riattaccato. Mentre Ricky si alza per confortarla e riportarla a casa, la camera di Loach panoramica rapidamente intorno, a distanza, sui volti degli altri astanti nella sala d'attesa. Persone dimesse, malmesse, ferite, malate, che probabilmente intuiscono alla perfezione lo stato d'animo di Abbey. Un altro regista forse avrebbe fatto scattare un - più o meno timido - applauso, o per lo meno qualche cenno di approvazione. Un pollice alzato, un sorriso, un serrare di labbra. Loach no. I volti rimangono contriti, ma impassibili. Capiscono, forse; ma non fanno un gesto. Sorry, anche un segno di comprensione o di solidarietà, in questo mondo diviso, competitivo o semplicemente intimidito e rassegnato, sembra ormai un lusso che non ci si può più permettere. TOLO TOLO di Luca MediciDi Tolo Tolo si è parlato più come fenomeno mediatico e di marketing che dal punto di vista cinematografico. L'operazione di lancio per mezzo di un trailer rivelatosi poi ingannevole e beffardo - che ha contribuito, poco o tanto, a farne il maggior incasso delle feste, lanciandolo verso il traguardo di maggiore incasso italiano di tutti i tempi e mettendolo in qualche modo al centro del dibattito culturale-sociale-politico di fine e inizio d'anno – è da annoverare tra le più geniali operazioni di marketing degli utlimi tempi, un capolavoro quasi paragonabile al gesto situazionista di Banksy che nel presentare la propria nuova opera la fa contestualmente a pezzi con un distruggi-documenti. Era difficile credere che il “terrone” Luca Medici-Checco Zalone, che già aveva esplicitamente e impietosamente sbeffeggiato i leghisti in varie precedenti occasioni cinematografiche, si fosse improvvisamente convertito in chiave razzista e si mettesse a prendere per il culo gli immigrati; eppure in molti ci sono cascati e Salvini ha scherzosamente proposto Luca Medici (o Checco Zalone, chissà) al Parlamento al posto di qualche vecchio rudere. Ma, visto il film, non sono rimasti spiazzati (e irritati) solo gli illusi sovranisti rampanti, che pensavano di poter arruolare un nuovo formidabile testimonial nazionalpopolare, ma anche chi si aspettava un approccio più ortodosso al tema dell'emigrazione. O forse c'era da aspettarsi proprio un film così: dove Luca Medici, che diventa autore totale prendendo in mano anche le redini della regia, butta il suo personaggio dentro la tematica con la solita potenza deflagrante del politicamente scorretto. Sembra in fondo che a Checco Zalone, ma anche a Luca Medici, interessi poco di migranti e migrazioni, utilizzati come comparse e scenari delle disavventure - che dovrebbero essere comiche - del solito personaggio cafone, ignorante, egoista, stupido, insensibile e politicamente scorretto. Intorno a questo Candido alla rovescia, i personaggi di contorno non assumono spessore, nemmeno se ci sono di mezzo l'amore per una donna (occasione anzi per una canzone sulla “gnocca” africana) o per un bambino: anche in questo caso Checco sembra ricambiare l'affetto del bimbo più per naturale e incontenibile gigioneria che per un reale affetto. I problemi e i disastri dell'Africa - stragi, fame, corruzione, sfruttamento, sottosviluppo, necessità di lasciare la propria terra - diventano, ma quel che peggio rimangono, spunti per gag sul telefonino, il caricabatterie, gli improbabili sandwich africani, i prezzi di acquisto dei politici. Il geniale trailer, con la relativa attenzione mediatica e le polemiche seguitene, ha rischiato quindi di trasformarsi in un boomerang, amplificando le aspettative e le attese – forse indebite e sproporzionate - su quale posizione e con quale taglio Medici-Zalone avrebbero affrontato lo spinoso tema dell'immigrazione, uno dei nervi più scoperti dell'attuale dibattito pubblico nel nostro Paese. Tolo Tolo in realtà più che un film sull'Africa è un film su di noi, sull'italiano medio che pensa ai cosmetici all'acido ialuronico o ai vestiti griffati mentre il suo vicino soffre e muore; deformato dall'incomprensione, dall'indifferenza, dalla fissazione sul proprio interesse egoistico e particolare. In questo senso la satira ha dei momenti riusciti, con la rappresentazione degli italiani che si autorovinano le vacanze in Africa tormentandosi con problemi di fisco e burocrazia anche mentre sorseggiano qualche cocktail esotico in quella specie di enclave neocolonialiste che sono i villaggi turistici; come funziona la satira al narcisismo del giornalista umanitario, o la redistribuzione letteralmente “a peso” dei migranti. Ma il personaggio di Checco Zalone, malgrado ripercorra tutte le tappe dei migranti africani, vivendone le medesime esperienza sulla propria pelle, non evolve mai, inscalfibile a qualsiasi prova. Si ha a volte quasi l'impressione che il suo personaggio faccia da freno al film, che a causa della sua mancanza di sensibilità e di compressione porti la storia ad essere fraintesa, deviandola su binari morti o sbagliati. Viene quasi la voglia di chiedergli di farsi da parte, per poter seguire la “vera” storia che il suo ingombrante personaggio impalla per tutto il film. Le cose non vanno meglio dal punto di vista strutturale e narrativo. Luca Medici, evidentemente esaltato dalle condizioni produttive favorevoli (le riprese sono state effettuate in varie regioni italiane oltre che in Kenya, in Marocco e a Malta), e della sua libertà di sceneggiatore e regista (la mano di Paolo Virzì che ha cofirmato la sceneggiatura si avverte davvero poco in un film pienamente “zaloniano”), approfitta della sua libertà e forse ne abusa, accumulando un prologo privo di qualsiasi scopo, una voce narrante discontinua e inessenziale, citazioni da Salvate il soldato Ryan (ma perché?!), passaggi attraverso paesaggi digitali alla La La Land, cinema nel cinema, momenti onirici di musical, film di animazione. Troppo, per troppo poco. Tanti stili non risolvono né le goffaggini dello sviluppo narrativo, né producono cambiamenti significativi di tono, mantenendo il film dall'inizio alla fine nell'ambito di una farsa monotono dove qualche volta si ride e qualche volta no. Perché se si ridesse a crepapelle, tutto forse sarebbe perdonato. Ma se come dicevo qualche spunto satirico funziona, altri sono francamente imbarazzanti. Difficile ridere o sorridere dei migranti che rischiano di annegare - e sappiamo di quanti cadaveri sia disseminato il fondo del Mediterraneo - e si dispongono a formare una coreografia alla Esther Williams; risibili sono le sparate di Checco Zalone posseduto dal demone mussoliniano (certo, nell'italiano cova il germe – più o meno latente – del fascismo, ma c'è modo e modo per dirlo) e perfino la canzone di chiusura in stile disneyano, che dovrebbe spiegare la sorte che porta un bambino a nascere nell'opulenta Europa piuttosto che nell'Africa priva di prospettive, finisce per risultare stucchevole, con una cicogna strabica che dirotta sull'Africa per farsi sbattere da un cicogno nero, con la promessa di una vagonata di permessi di soggiorno (come se la soluzione per l'Africa fosse quella di spopolarla) e con la zaloniana ciliegina sulla torta, cioè una cagata in testa finale. Rimane l'ambizione, che ci si augura possa ulteriormente evolvere e spingere Luca Medici a studiarsi le sceneggiature della commedia italiana dei tempi d'oro e di quel cinema all'Alberto Sordi, di cui Medici aspira ad essere l'emulo (degradato) del nuovo secolo; rimane la possibilità di farsi due risate un po' a denti stretti e di fare qualche riflessione; rimane la boccata d'ossigeno – che ormai in pochi riescono a garantire - per il cinema italiano e per l'esercizio commerciale, per cominciare bene l'anno in questi anni difficili; linfa preziosa e vitale, fino al prossimo blockbuster. O al prossimo Checco Zalone. LA DEA FORTUNA di Ferzan OzpetekVedo che Ozpetek o lo si ama o lo si odia. Molti gli rimproverano di fare sempre lo stesso film, di trattare sempre gli stessi temi, di usare sempre gli stessi attori e le stesse situazioni: cose vere, in parte, anche per La dea fortuna. Altri apprezzano i suoi film, lasciandosi coinvolgere e commuovendosi alle sue storie. Credo che il punto sia esattamente questo: Ozpetek è un regista eminentemente sentimentale, che parla di sentimenti e che cerca di suscitare sentimenti nei suoi spettatori. A volte ci riesce meglio, a volte meno bene, scivolando un po' nella retorica, ma il discrimine per il gradimento degli spettatori è costituito dalla disponibilità ad accettare un cinema sentimentale, che forse non è più così di moda (il genere del melodramma si trova ormai quasi solo nei dizionari del cinema). Anche stavolta al centro della narrazione ci sono sentimenti puri: l'amore, la confidenza, la paura, il dolore, la perdita, oltre a tutto quel groviglio di affetti e disaffetti che lega padri e figli, madri e figlie. La dea fortuna si concentra sulla storia di una crisi di coppia, quella formata da Alessandro e Arturo, ormai matura e sperimentata ma insidiata dalla rispettive infedeltà, dal calo della passione, dal deterioramento della comunicazione all'interno della relazione. La dea fortuna - o forse solo Annamaria, amica di Alessandro, sfortunata ragazza-madre nonché baronessa in fuga da una famiglia ultraoppressiva - porterà loro un dono capace di risvegliare i loro sentimenti e di rinvigorire le loro affinità: si tratta dei due bambini di Annamaria, che lei affida alla coppia a causa di un ricovero ospedaliero per accertamenti che prenderà una piega sempre più preoccupante. Alessandro e Arturo si troveranno a confrontarsi con le personalità e i bisogni dei due bambini, a confrontarsi con un'imprevista condizione di paternità, a imparare che vivere e amare significa anche prendersi cura di altri oltre che di se stessi, e che i legami degli affetti sono molto più importanti di quelli del sangue. Ozpetek dispiega nel racconto tutta la sua consueta abilità registica (bella tra l'altro la sequenza introduttiva in mezzo ai tavoli della festa), alternando toni da commedia (non molti) a quelli drammatici e momenti corali (non molti) a quelli intimistici. Una delle sue abilità particolari è quella di usare la musica leggera in funzione emotiva e suggestiva: e anche stavolta la sequenza forse più bella del film è quella muta, all'alba, sul traghetto, con la canzone “Luna diamante” cantata da Mina che è più che un sottofondo o un commento, bensì un vero e proprio racconto parallelo per musica e parole, a dettare ed imporre una tonalità emotiva profonda alla sequenza. Mentre già a rischio di retorica è l'uso della canzone di Diodato sui titoli di coda, dopo la sequenza in cui i protagonisti si guardano e intensamente e poi chiudono gli occhi, per riporre l'immagine dell'altro in fondo al proprio cuore, che esplicita in termini un po' troppo espliciti la visione poetica di Ozpetek ("Ah che vita meravigliosa / questa vita dolorosa, seducente, miracolosa / vita che mi spingi in mezzo al mare / mi fai piangere e ballare come un pazzo insieme a te"...). Ozpetek non rinuncia d'altra parte ad altri suoi marchi di fabbrica: come la tematica omosessuale (ma un punto di forza del film è quello di raccontare la crisi tra Alessandro e Arturo come quella di una qualsiasi coppia eterosessuale) o la comunità solidale e un po' freak alla Le fate ignoranti che attornia i due protagonisti (al punto da parere quasi una concessione beffarda del regista nei confronti dei suoi detrattori). D'altra parte, all'interno di una narrazione molto lineare e consequenziale, in cui il regista sfiora registri e generi cinematografici diversi: come si diceva il (melo)dramma e la commedia primi tra tutti, ma anche l'horror, (in un prologo con figure grottesche, piccoli impiccati e implorazioni dietro una porta chiusa che sembrano arrivare da Napoli velata - come anche la propensione per la dimensione archeologica e sapienziale –, ma che non avrebbe sfigurato in un film di Dario Argento), la fiaba con tanto di strega cattiva padrona del castello, ma anche il cinema famigliare di Kore'eda (le quattro figure di spalle, sulla spiaggia di fronte al mare, sembrano ritagliate dalla locandina di Un affare di famiglia) e perfino il western (l'andatura dei due protagonisti maschili sullo sfondo di una Sicilia un po' messicana, la decisione di “inguaiarsi ancora di più” tornando a prendere con la forza i due fanciulli prigionieri mi hanno ricordato l'inizio della sequenza finale de – nientemeno che – Il mucchio selvaggio, quando Pike propone ai suoi uomini di tornare a liberare il compagno Angel prigioniero dei messicani, andando incontro ad una morte probabilissima, ricevendone in risposta un laconico “Why not?”). Chiaramente il progetto di Ozpetek si fonda sulla capacità degli attori protagonisti di reggerlo: a Leo viene richiesta la prova più difficile, con rischiose scene di pianto, mentre Accorsi ha uno stile sempre un po' vacuo, che però si adatta al carattere del personaggio. Sorprendentemente manca forse un po' di fluidità – e di cura – nella direzione e nel risalto dato ai due bambini coprotagonisti, che sembrano a volte più dei pretesti per provocare le reazioni della coppia che dei veri bambini in una situazione difficile. Il che contrasta un po' con la morale del film. LE DELUSIONI D'ANNATAAdesso vengono le note dolenti, perché sto per parlare maluccio di film che molti di voi amano, anche tanto.
Ok, partiamo: C'era una volta a Hollywood mi è sembrato un film vacuo, lunghissimo e gracilissimo dal punto di vista strutturale, e tutto sommato poco ispirato. Brad Pitt vince il premio mondiale per l'attore più figo e Margot Robbie quello per l'attrice più stupenda. Green Book fa dell'antirazzismo color pastello, vintage, facile (Spike Lee aveva spaccato poco prima con l'irriverente, arrabbiato BlakKklansman), basato sul solito meccanismo del contrasto tra caratteri opposti che poi imparano a conoscersi e rispettarsi. Copia originale o Black Panther non meritavano le candidature agli Oscar. Pinocchio è forse un film sentito dal suo autore, Matteo Garrone, ma che è difficile da sentire per lo spettatore, al quale produce in genere di un film senz'anima anche se di bella calligrafia. A proposito di bambini, Cafarnao è forte ma forse un po' troppo costruito e melodrammatico (ma la bimba è fantastica). Al secondo film, dopo Il figlio di Saul, il Sunset di Laszlo Nemes è già un film di maniera, oltre che confuso e oscuro. Lo storico Peterloo di Mike Leigh è interessante quanto noiosissimo. Non mi sono piaciuti i sudamericani Il segreto di una famiglia (di Pablo Trapero, un autore che seguo con interesse) e lo stimato La vita invisibile di Euridice Gusmao, due tentativi a mio parere non riusciti di aggiornare materiali da telenovela. Zemeckis con Benvenuti a Marwen continua a non azzeccare più un film, Ang Lee si dimentica di essere un autore e gioca con la cgi nel bruttissimo Gemini Man, e l'altrove interessante Audiard fa un passo falso con il western I fratelli Sisters (già il titolo non si prende sul serio). Non ho capito Tesnota, davvero. Non ho capito Martin Eden, che per me è un film sgangherato e brutto, con un Martinelli che – un po' per vocazione sua, un po' per colpa di Marcello – sbrocca e si mette a recitare come il cattivo di Jeeg Robot. Ho paura a dirlo, ma per me è uno dei film più brutti dell'anno. Il molto atteso (da me almeno) Mademoiselle di un altro grande coreano, Park Chan-wook, è finalmente arrivato sui nostri schermi, ma mi è sembrato un pasticcio manierista e di una morbosità un po' grottesca. La trasferta francese del nipponico Kore'eda (Le verità) non dice molto, malgrado la presenza di dive plurigenerazionali come la Deneuve e la Binoche), e a proposito di storie famigliari mi è sembrato sopravvalutato (e lungo) anche Marriage Story di Baumbach, anche se ammetto l'impegno molto Actors Studio della Johansson e di Driver e dei bravi non protagonisti come la Dern, Alda e Liotta. Loffio e dejavu il francese Il mistero di Henri Pick con il solito Luchini. Debole Atlantique, premiato a Cannes come gesto politico, un zombi-movie senegalese, e non mi ha entusiasmato Dov'è il mio corpo?, film di animazione francese anch'esso premiato a Cannes (Settimana della critica). Questi due film sono presenti su Netflix, alla quale va dato atto comunque di scelte produttive e distributive coraggiose e stuzzicanti. Interessanti ma per vari motivi non riusciti due horror italiani come Il signor diavolo di Avati e L'uomo del labirinto di Carrisi. Non parliamo del remake (o non remake) di Guadagnino che si ispira in qualche modo al Suspiria di Argento. Inutile nella rilettura, velleitario nelle sue pretese storiche e autoriali e inefficace come film di genere. Letto fin qui? Arrabbiati? Non siatelo. Ricordate una profonda verità, che di solito si suole esprimere con questa formulazione: i gusti sono gusti. Non accusatemi nemmeno di aver liquidato film importanti in poche parole: la maggior parte dei film citati sono recensiti con argomentazioni su questo sito. Trovate i link nella colonna qui a fianco, se non mi sono scordato di metterli. Salto tutto il resto, o perché non l'ho visto o perché l'ho visto e non mi ha detto molto. Ho seguito il Festival del Cinema d'Africa, d'Asia e d'America Latina di Milano, che mi pare che quest'anno avesse in concorso molti film interessanti, ma che sono rimasti inediti in Italia. Un altro inedito interessante è Bacurau, una sorta di ufo brasiliano premiato a Cannes e visto al Noir in Festival. Chissà se prima o poi atterrerà dalle nostre parti. Meno male che Tolo Tolo è uscito il 1° gennaio. Così ne parliamo più avanti. E, se hai letto fin qui, vuol dire che ti meriti di meglio: clicca qui per i film più belli o più interessanti del 2019 secondo Into the Wonderland. Il meglio dell'annataPerché adesso? Mah, forse perché non l'ho fatta prima. Forse perché non avevo tanta voglia di farla. Perché ne sono uscite tante di classifiche, e parecchie le ho lette, e gira e rigira i titoli che circolano stavolta sono un po' uguali per tutti. Che poi io di classifiche non ne faccio e mi rifiuto di dare i voti e di mettere qualcuno al primo posto, al secondo, al terzo e così via. Anche perché magari il giorno dopo cambierei idea. Se per voi va bene metto in fila solo un po' di mie riflessioni. Bisognerebbe anche dire prima di tutto quanti film si è visti, quali, e soprattutto quali non si è visti. Non lo fa nessuno; a me piacerebbe farlo ma mi astengo per motivi di tempo e – presumo – per mancanza di vostro interesse.
Farò quindi per iniziare un paio di titoli che mi sono sembrati passare un po' in sordina. Uno è Ancora un giorno, in cui il giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuściński, uno dei più grandi conoscitori dell'Africa, della sua storia e dei suoi eterni problemi, resuscita, anche se solo come personaggio animato, per raccontarci della guerra “civile” in Angola. Un film d'animazione (ma con interviste ai veri testimoni delle vicende narrate) che trasuda storia, politica, etica, umanità, visionarietà. Che è più di quanto ci si aspetti da un film “normale”, figurarsi da un film d'animazione. Quel tipo di film che farei vedere nelle scuole (di cinema, di cinema d'animazione, di giornalismo, di storia, di politica) e che magari ai rispettivi studenti potrebbe piacere. Coproduzione variegatamente europea, dirigono Raúl de la Fuente e Damian Nenow. Il cinema europeo come andrebbe fatto. Tutto francese invece La belle epoque, di Nicolas Bedos. Ci sono Auteil e la Ardant, e sarebbe già un motivo per vederlo, ma è anche romantico, disincantato, divertente, struggente. Ed è una delle più formidabili riflessioni metalinguistiche sul fare cinema e sull'esperienza spettatoriale. Mi aspettavo di vederlo citato in tutte le classifiche stilate da critici professionisti, invece no. Strano. Poi ovviamente due film sud-coreani, che sono un po' tanti a ben guardare. Personalmente sono un appassionato della nouvelle vague coreana dalla prima ora, mi vanto di aver scoperto Bong Joon-hoo vedendo in anteprima The Host, senza averlo mai sentito nominare prima, e conosco il cinema di Lee Chang-dong. Sono i registi rispettivamente di Parasite (che di The Host conserva la freschezza narrativa, la stupefacente commistione dei generi, il portato politico, l'umanità nel trattare i personaggi) e di Burning. Ovvero una corrosiva commedia nera metafora della società classista e un raffinato thriller dell'anima sospeso tra Antonioni, Hitchchock e Cortazar. Notevoli entrambi. Poi Joker. Se non avesse vinto il Leone d'Oro a Venezia probabilmente l'avrei snobbato, come faccio con tutti i cinecomics che il Dio del cinema manda in terra e sugli schermi. E invece. Invece l'inaffidabile Todd Phillips ha spiazzato un bel po', ha parlato dei nostri tempi rancorosi e virulenti e ha portato un sacco di spettatori giovani e ignari a vedere un film girato con gli stilemi del film d'autore, resuscitando i fantasmi scorsesiani di Taxi Driver e di Re per una notte. Poi c'è lo spettacolo di Joaquin Phoenix che ride, e lì veramente c'è poco da ridere. A proposito di Scorsese, The Irishman è un signor film, che chiude e suggella un percorso d'autore che attraverso Goodfellas e Casino ha attraversato un bel pezzo di storia del cinema e dell'America. Ho visto che tanti hanno duramente criticato e sbeffeggiato i ringiovanimenti posticci a base di cgi degli attori protagonisti, ma questo film NON si sarebbe potuto fare senza De Niro (e Pesci). Perciò così è. Roma è del 2018? Eh già, se no sarebbe stato uno dei migliori film del 2019. Cuaron è un grande regista, l'aveva dimostrato perfino con Gravity, anche se molti non se ne erano accorti. Mi è piaciuto anche La favorita di Lanthimos. Cinico e cattivo come si conviene all'autore, ma temperato dal brio quasi comico di Emma Stone. Restando dalle parti di Netflix a me è piaciuto anche il western funebre dei fratelli Coen, La ballata di Buster Scruggs. I due fratelli non allentano la presa di una concezione del cinema e della vita cinica, beffarda e fatalistica. Aggiungo un altro film che non si è filato nessuno: The Rider – Il sogno di un cow-boy. La regista si chiama Chloé Zhao ed è di origine cinese, ma parla dei nativi americani, in un cortocircuito di spaesamento. The Rider è un film dolente, amaro, che parla della necessità di saper rinunciare ai propri sogni (che è esattamente il contrario della filosofia spicciola dell'american dream), e lo fa rappresentando una comunità antropologica sconfitta che già di suo è residuale e vive la propria condizione come un destino ineludibile. Bello. C'è poi una fila di autori che non hanno fatto quest'anno passato il loro film migliore, ma hanno rilasciato delle opere importanti e belle: Woody Allen, che con Un giorno di pioggia a New York torna svagatamente a raccontarci, x anni dopo Manatthan, come sia difficile trovare un motivo per cui valga la pena vivere (comunque); Pedro Almodovar che nel suo dolente e mesto Dolor y gloria (il suo 8 ½) ci dice che per lui il motivo è il cinema; Clint Eastwood che in The Mule – Il corriere a dispetto dell'età rimette in gioco la sua faccia grinzosa, il suo fisico segaligno, il suo mito e la sua icona per fare i conti con i temi della famiglia e degli affetti; Roman Polanski che sembra parlare anche un po' di se stesso ma imponendosi una sobrietà un po' autopunitiva riesumando la vergogna fin de siecle (ma assai attuale: rileggendo il J'accuse di Zola balzano agli occhi le analogie con casi come quelli del G8 di Genova o di Cucchi, o i tristi tempi razzisti, rancorosi e antisemiti delle nostre cronache quotidiane) del caso Dreyfus ne L'ufficiale e la spia; i Dardenne alle prese con il mistero del fanatismo religioso con L'età giovane; un Salvatores leggero che con Tutto il mio folle amore torna a parlare di fughe e di paternità disfunzionali, che sono tutto sommato i temi che gli riescono meglio, con un cast amichevole che comprende Abatantuono, la Golino, Santamaria, oltre alla rivelazione Giulio Pranno. Il film italiano che mi ha forse più intrigato è Il traditore di Bellocchio, che sfugge ai cliché dei film di mafia e gira uno strano film, teatrale e beffardo. A proposito, il mio premio per miglior attore non protagonista a Lo Cascio. Quello per il protagonista inevitabilmente a Phoenix. Quello per il cast a Parasite. Quello per il cast femminile a La favorita. Quello per la miglior attrice forse a Julianne Moore, che prende il posto della cilena Paulina Garcia in Gloria Bell, autoremake hollywoodiano di Sebastian Lelio. Bei film politici il palestinese Sarah e Saleem, lo spagnolo Il regno o il biopic statunitense Vice; interessanti alcune incursioni del cinema italiano nel film di genere, come l'esperimento pre-peplum de Il primo re di Matteo Rovere, con un tosto Alessandro Borghi, o 5 è il numero perfetto, il graphic-noir di Igort che tenta un'operazione analoga a quella di Sin City di Frank Miller; buono anche lo spaccato sociale de La paranza dei bambini, non malaccio Il grande spirito con la coppia Rubini-Papaleo; molto poetico nel campo dell'animazione 5 cm al secondo del maestro nipponico Makoto Shinkai; carina l'idea di Yesterday dove il mondo ignora l'esistenza dei Beatles, godibili i film musicali su Elton John (Rocket Man), un po' più inventivo del del tutto prevedibile Bohemian Rhapsody. A proposito di biografie, non male anche quella su Laurel e Hardy, malinconica e rispettosa. Nella colonna qui a fianco, se proprio vi volete togliere lo sfizio, i link a tutte le recensioni, o quasi. E non tutto è andato così bene: clicca qui se vuoi leggere delle delusioni d'autore. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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