CONFIDENZA di Daniele LuchettiLuchetti rincontra la letteratura di Domenico Starnone dopo il primo incontro che portò alla realizzazione de La scuola nel 1995 (da Ex-cattedra e Sottobanco) e alla successiva collaborazione per l'infelice I piccoli maestri (dal libro di Meneghello) tre anni dopo.
Ma è passato tanto tempo, quasi 30 anni, e i due si rincontrano su un terreno molto lontano da quello d'origine: se La scuola offriva un bozzettismo sociologico bonario e tutto sommato progressista, nel solco della commedia all'italiana, Confidenza, dominato da un senso costante di inquietudine e di disagio, si addentra nei meandri malsani della psiche umana e nei risvolti più oscuri del rapporto di coppia. Siamo più dalle parti del grottesco di Denti (portato sullo schermo da Salvatores); o del Polanski kafkiano de L'inquilino del terzo piano che da quelle de La Scuola: se il protagonista di Kafka si lasciava divorare dall'ossessione per immedesimarsi nell'inquilino suicida, qui Pietro Vella finisce per identificarsi gradualmente con la parte più oscura e sepolta di se stesso. Pietro è un'insegnante liceale di materie letterarie molto stimato e amato dai suoi studenti, che si ritrova ad elaborare con successo, più per vocazione spontanea che muovendo da principi teoretici, una “pedagogia dell'affetto” Ma una sua studentessa, Teresa Quadraro, scambia l'affetto che lui elargisce ai suoi allievi per un interesse particolare, e si illude che lui corrisponda l'attrazione che lei prova nei suoi confronti. Quando si rincontrano, dopo la maturità, il riluttante Pietro si lascia trascinare a ricambiare l'amore di Teresa. Ma il rapporto asimmetrico, dove Pietro tende senza successo a replicare anche nel rapporto amoroso il modello insegnante-allieva, si ribalta e deflagra quando Teresa, dopo una discussione, lo convince a rivelarle un proprio segreto, in modo da essere legati per sempre. Quello che lei sussurra nell'orecchio a lui (noi spettatori siamo tagliati fuori) è “una brutta cosa”, ma quello che lui sussurra a lei è evidentemente talmente sconvolgente da far sì che Teresa tronchi il rapporto e si allontani immediatamente da lui. Ma Pietro ormai ha dissepolto, con troppa disinvoltura, una parte di sé che doveva rimanere nascosta per sempre. Ora Teresa ha potere su di lui, e lui vive tutta la sua vita sotto la minaccia incombente di una rivelazione che potrebbe rovinarlo. Nulla serve a rassicurarlo, anzi, man mano che la sua vita ha successo – si sposa con una bella collega e ha una bambina, diventa famoso in ambito pedagogico grazie alle sue tesi, intraprende una prestigiosa collaborazione con il Ministero dell'Istruzione, per essere alla fine addirittura candidato ad un premio assegnato dal Presidente della Repubblica – più la sua paura ingigantisce a dismisura, avendo da perdere sempre di più. Ogni incontro fortuito o cercato, reale o immaginario con Teresa Quadraro (ora una celeberrima matematica del Mit di Boston) è una fonte di angoscia insopprimibile e crescente, fino a trascinarlo in una dimensione paranoide popolata di fantasia di rovina e di morte. Sembra quasi di sentire nel soggetto e nella sceneggiatura del film echi della letteratura di Ian McEwan, dalla componente ossessiva al senso di colpa (Espiazione, Lettera da Berlino), a elementi più precisi come la collaborazione del protagonista con il Ministero dell'Istruzione (Bambini nel tempo), al tema della persecuzione amorosa (L'amore fatale). Dalle impressioni che ho orecchiato uscendo dalla proiezione per la stampa, mi è sembrato di sentire pareri prevalentemente negativi. Eppure a mio parere bisogna riconoscere alla regia di Luchetti (la sceneggiatura è stata scritta a quattro mani con Francesco Piccolo, senza la collaborazione di Starnone) un progetto coerente, dotato di una sua necessità. Un elemento fondamentale nel film è l'attrazione per il vuoto. L'horror vacui è presente già con le plongée delle sequenze iniziali, che si concludono con la caduta di un corpo nel vuoto (analogamente, per strana assonanza, con quello che accade alla fine del prologo del contemporaneo Sei fratelli). E' un vuoto esistenziale che si rispecchia continuamente nel film, un abisso in cui si può cadere, ci si può buttare o ci si può essere spinti. E' il vuoto della coscienza (morale) e dell'inconscio che risucchia; ma anche della vita stessa, in cui si lancia senza protezioni e senza possibilità di tornare indietro, se non troppo tardi - sui titoli di coda addirittura -, in una fuga a ritroso che si richiude dentro una scatola di cartone, come dentro un utero protettivo o un luogo intrapsichico al riparo dal mondo esterno. Un secondo elemento fondamentale è dato dal fuori campo: e anche in questo caso Luchetti è attento, preciso, quasi ossessivo. I personaggi sono sempre attratti e distratti, inquietati e preoccupati, da qualcosa che accade al di là dello schermo. Possono essere rumori, o visioni fugaci, l'orecchio è sempre teso verso qualche rumore estraneo e sconosciuto, lo sguardo è sempre risucchiato a cercare qualcosa che forse non esiste. Fantasmi percettivi che hanno meno consistenza ma altrettanta forza disturbante delle fantasie oniriche - dove la morte, la disgrazia e la vergogna incombono come forze inarrestabili -, che nella mente di Pietro si mescolano con la realtà, ingannando e spiazzando continuamente lo spettatore oltre che il protagonista. Luchetti è così convinto del suo progetto (confermato anche dalla scelta di un musicista eccentrico, sperimentale e intellettuale come Thom Yorke, leader dei Radiohead, che fornisce al film una raffinata colonna sonora, insieme dissonante, inquietante e malinconica) da perdere talvolta l'equilibrio, appesantendo la narrazione con un simbolismo talmente accentuato da rischiare lo stucchevole (la sottolineatura sui limoni marciti e quelli che rotolano sulle scale durante la precipitosa fuga di Pietro; l'uccello nero che sembra osservare la famigliola dall'alto; la perdita di sangue dal naso durante il matrimonio). Elio Germano mette il suo naturalismo sopraffino alla prova di un progetto drammaturgico che lo trascina in una deriva verso la paranoia allucinatoria, in un percorso in fondo analogo a quello già sperimentato con i fratelli D'Innocenzo in America latina. Vittoria Puccini, nel ruolo di Nadia, la moglie di Pietro, espone la sua bellezza al rischio di un personaggio nevrotico, complessato, insoddisfatto. Più discutibile la scelta di Federica Rosellini per il ruolo cruciale di Teresa: Federica ha un viso strano, squadrato ma proteiforme quando passa dal sorriso alla durezza o viceversa, che ben esprime l'ambiguità del personaggio; ma c'è un problema anagrafico: se è relativamente facile truccare l'attrice 34enne e farla apparire invecchiata, molto più difficile è renderla credibile, nella prima parte, nei panni di una fanciulla in età da liceo...
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CHALLENGERS di Luca GuadagninoQuando la discussione trascende e i toni si riscaldano, Tashi chiede a Patrick se stanno ancora parlando di tennis e lui risponde che non fanno altro. E’ falso (tanto per dire, tra le foto promozionali ufficiali si fa fatica a trovarne una che abbia a che fare con il tennis, anche se il film arriva al momento perfetto, quando la sinnermania ha ridestato e portato al suo acme l'attenzione del pubblico italiano verso questo sport); o meglio, Guadagnino finge di parlare di tennis mentre parla di tutt’altro. Anche se il film iscrive tutto il suo arco narrativo, tramite continui flashback e flashforward, all’interno di un extended play tennistico, appare subito chiaro - da quando i giovanissimi tennisti Art e Patrick, amici e coetanei, guardano Tashi esibire la sua potenza sul campo di gioco - che si sta parlando d’altro, e cioè di desiderio; e si intuisce anche, cosa che verrà subito confermata, che il corpo di Tashi è solo il tramite su cui confluisce e rimbalza l’attrazione reciproca tra i due giovani maschi.
Di desiderio si parla, come in Io sono l’amore, A Bigger Splash, Chiamami col tuo nome o perfino in Bones and All: Guadagnino parla di tennis quasi come un giovane Almodovar (banane allusive e ventilati usi non ortodossi del manico della racchetta compresi) parlava di matador, dove la legge del desiderio conta altrettanto o più delle regole del gioco. Se ne ha la conferma quando ci si accorge che sequenze di sport, di dialogo o di intimità sono tutte ritmate dalle cadenze ossessive ed elettroniche delle musiche da rave party infinito di Trent Reznor e di Atticus Ross. I desideri si intrecciano con le frustrazioni: Patrick avrà Tashi ma dovrà rinunciarvi (ma non per sempre…); Art avrà Tashi ma dopo che sarà stata di Patrick; Tashi dovrà interrompere la sua carriera tennistica ma riverserà le sue ambizioni sul marito Art di cui diventerà allenatrice e manager; Tashi avrà Patrick e Art, ma senza trovare appagamento da nessuna delle due relazioni; l’attrazione tra Art e Patrick sembra non arrivare mai a compimento… E’ un losing game in cui nessuno sembra poter vincere, né sul lato sentimentale e dei rapporti di coppia (o di triangolo, al cui vertice è saldamente installata Tashi), né su quello sportivo e professionale, dove infortuni, incostanza, stanchezza sembrano precludere a tutti di coronare i propri sogni di gloria (e il film d’altra parte si svolge durante un challenge, cioè un torneo di qualificazione, e non durante il torneo maggiore, in questo caso l’U.S. Open). Challengers è il nome del torneo, ma il termine significa anche gli sfidanti, e viene da pensare anche ai duellanti di Ridley Scott (da Conrad) che si affrontano ripetutamente attraverso anni e vicissitudini. Guadagnino (con la complicità dello sceneggiatore Justin Kuritzkes) nasconde le sue carte narrative mescolando il mazzo delle scene in un continuo andirivieni nel tempo, con ellissi in avanti e indietro che possono durare ore o giorni o addirittura anni, costruendo a ritroso le motivazioni personali che stanno alla base delle passioni che rendono il match tra Art e Patrick la partita della vita; anche per Tashi, che assiste al gioco dalla tribuna, girando la testa da una parte e dall’altra, come tutti gli altri spettatori, o tenendola immobile fissando lo sguardo la da una parte sola, o abbassando lo sguardo a terra mentre la partita si fa rovente. Guadagnino concentra tutto il film su tre unici personaggi, elidendo tutti gli altri e tutto il resto; ma dà al film una miccia lunga e una combustione lenta (slow burn, per dirla all’inglese), iniziando dalla fine con una partita di tennis di cui non capiamo l’importanza e con un ralenti inessenziale e un po’ maldestro sulla schiena di Zendaya, per dare solennità ad una vicenda che non ne ha ancora alcuna. La tensione narrativa, dopo che il culmine erotico è già da tempo raggiunto e superato in una scena di bacio a tre da seduti, cresce lentamente, fino al racconto della sera precedente la partita fatidica, in cui il vento delle passioni (ancora una volta, molto almodovariano) spazza letteralmente e melodrammaticamente tutto e manda le intenzioni dei protagonisti a gambe all’aria. Sicché nella fase finale della partita succede di tutto, emotivamente, sportivamente e registicamente parlando, tra esacerbazioni ed escandescenze, richiami e penalizzazioni, gesti allusivi e sguardi d’odio (la partita diventa una specie una sorta di duello alla Sergio Leone in versione ipercinetica), bolidi tirati direttamente contro l’avversario o spedite volontariamente in rete, soggettive della pallina che vola a 200 chilometri all’ora e smash in cui è il giocatore stesso a volare dall’altra parte della rete, abbracci sconvenienti e sorrisi liberatori, ma anche un po’ enigmatici, alla Mona Lisa, in tribuna. Sembra di capire che Guadagnino si sia divertito, e parte del divertimento passa agli spettatori, anche se non tutto a mio parere funziona a dovere: come dicevo, la costruzione è lenta e il film ci mette un po’ a scaldarsi; nelle ellissi narrative si perde forse qualche passaggio importante (della relazione tra Patrick e Tashi ci viene detto ben poco, se non che finisce litigando sulle posizioni di potere nella coppia, che si definiranno invece molto più nettamente a favore di Tashi nel rapporto con Art; e ben poco viene detto anche sui motivi per cui Patrick finisce per essere emarginato - o per autoemarginarsi - dal mondo del tennis che conta e dalla vita, tanto da finire a dormire in auto perché non ha i soldi per pagarsi un albergo). Poi c’è Zendaya, che dovrebbe essere la donna di cui non è possibile non innamorarsi, ma che ai miei occhi (se mi è concesso dirlo) è troppo poco sexy, espressivamente imprigionata in un broncio un po’ infantile o in pose dure e volitive da manager in tailleur. Se amate le gambe di Zendaya, è il vostro film; ma le nudità totali e frontali sono riservate agli attori maschi. Mike Faist e Josh O’Connor, nei ruoli di Art e Patrick, rispettivamente “ghiaccio” e “fuoco” nel tennis e nella vita, finiscono per assomigliare forse più a Starky e Hutch in tenuta da tennis che a Borg e McEnroe, ma "servono" a dovere nel ruolo degli amici doppiamente rivali dal carattere opposto. Si approssima la 33a edizione del festival del cinema milanese che più amo, il FESCAAAL, ovvero il Festival del Cinema d'Africa, d'Asia e d'America latina. Una preziosa occasione di lanciare lo sguardo verso altri mondi, altre culture e verso altri modi di fare cinema; poiché anche nel mondo globalizzato (dove spesso i cineasti d'altrove si formano in Occidente e non ignorano certo i modelli occidentali), esistono senz'altro delle specificità di temi, di ambienti, di linguaggi e di paesaggi che rendono l'esperienza del Festival sempre molto interessante, sorprendente ed istruttiva, oltre che emozionante. Inutile dire poi del valore del confronto culturale, che anima il Festival fin dalla sua nascita, in un mondo che appare attraversato da catastrofiche divisioni e conflitti, ad un livello di tensione e di pericolosità difficilmente immaginabile solo qualche anno fa. Rispetto agli anni scorsi il Festival si sposta di qualche settimana ma rimane sempre nel periodo primaverile, con un'edizione caratterizzata dal numero 3: la 33a edizione inizia il 3 maggio, con 3 sezioni competitive (Finestre sul Mondo con lungometraggi dai 3 continenti, cortometraggi africani ed Extr'a, dedicata alle opere italiane sui temi dell'interculturalità e delle migrazioni), e con un logo dove la familiare zebra prismatica si fa in 3. Il Festival si ripresenta nella sua forma ibrida, in sala a Milano alla Cineteca Arlecchino, al Godard di Fondazione Prada e nella sede tradizionale dell'auditorium San Fedele; ma anche on line (sulla piattaforma MyMovies) per quelli che, dovunque vivano, non vogliono o non possono essere fisicamente in sala. Come sempre il programma prevede nell'arco di dieci giorni la proiezioni di lungometraggi (spesso in prima italiana, europea o mondiale, oltre a proiezioni di film fuori concorso già premiati o acclamati dalla critica), cortometraggi, documentari, ma anche un ricchissimo calendario di incontri con gli autori e di eventi collaterali. Costole del Festival sono anche lo spazio di riflessione Africa Talks, con un focus su arti visive e creatività in Africa, e il MiWY, un festival nel festival rivolto interamente alle scuole e dedicato alla conoscenza e all'approfondimento delle cinematografie e alle culture di Africa, Asia e America latina e all'educazione interculturale, con proiezioni a Milano, a Lecco e on line, sempre su MyMovies. La Giuria Internazionale sarà composta dal regista filippino Lav Diaz (Presidente), dall'iraniano Ali Asgari (co-regista di Kafka a Teheran), e dalla distributrice Anastasia Plazzotta, mentre la Giuria Premio della Critica, in collaborazione con Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, sarà presieduta da Nicola Falcinella. E' già stato reso noto il titolo che venerdì 3 maggio inaugurerà il Festival al Cinema Godard di Fondazione Prada: si tratta di Fremont, di Babak Jalali, la storia di una rifugiata afghana a Fremont, una cittadina californiana chiamata Little Kabul, in equilibrio tra passato e presente, tra sensi di colpa e ricerca dell'amore, tra il lavoro come scrittrice di bigliettini per i biscotti della fortuna, insonnia e psicoterapia.
Il film, scritto con Carolina Cavalli, ha avuto la sua prima mondiale al Sundance Film Festival 2023 e si è già aggiudicato numerosi premi, tra cui il Premio alla Miglior Regia al Karlovy Vary IFF e il John Cassavetes Award agli Independent Spirit Awards e sarà distribuito in Italia da Wanted Cinema. Il regista Babak Jalali sarà presente alla Cerimonia di apertura. Insomma, preparate le valigie. Si va a conoscere il mondo. CIVIL WAR di Alex GarlandSi inizia che la rivolta contro il Presidente autocratico degli Usa è già iniziata e la guerra contro le repubbliche secessioniste e le forze armate degli Stati occidentali è in pieno corso. A New York disordini nelle strade, incendi, coprifuoco, mezzi dell'esercito a pattugliare le strade; dovunque guerra, sparatorie, cecchini appostati, case incendiate o semidistrutte, automobili abbandonate lungo le strade, cadaveri.
Non poteva esserci uscita più tempestiva per Civil War, presentata in anteprima mondiale il 14 marzo, proprio mentre Trump - dopo aver tra l'altro definito “animali” i migranti - paventava “un bagno di sangue” ("bloodbath") in caso di sua mancata elezione il prossimo 6 novembre. Civil War questo “bagno di sangue” l'ha già messo in immagini, fino al suo esito finale e fatale, dentro l'ufficio presidenziale della Casa Bianca (malgrado tutto un lieto fine? ma l'immagine che accompagna i titoli di coda è una foto macabra che emerge lentamente da uno schermo bianco per sprofondare poi in uno schermo nero). Il film suona pertanto come un tempestivo, molto sinistro ma per niente inverosimile ammonimento preventivo a tutto il popolo americano, al quale dice: ecco cosa succederà se veramente vorrete eleggere Trump buttando alle ortiche i due secoli e mezzo di storia della più antica Costituzione del mondo ancora vigente. Poiché sarebbe chiaramente indiscreto inserire nel film dettagli politici più precisi e imbarazzanti (già così è presumibile che l'uscita del film negli Stati Uniti, prevista per il prossimo 12 aprile, susciterà non poche polemiche), le ragioni della guerra civile non sono spiegate da Garland (sceneggiatore oltre che regista; britannico per nascita e formazione), né vengono esplicitate le malefatte del Presidente; il giudizio più “politico” che viene espresso nel film è una battuta che ne assimila la personalità mediocre a quelle di Gheddafi, Mussolini e Ceasescu. L'aspetto politico, per quanto sia il più eclatante e suggerisca i maggiori motivi di curiosità, non è però quello preponderante. In realtà Civil War, cosa non nuova, accumula ed intreccia ambiziosamente diversi generi cinematografici piuttosto classici, in un impasto ad alto tasso di spettacolarità. C'è prima di tutto l'on the road, con la struttura nomade e la narrazione episodica, fatta di incontri e scontri, fermate e ripartenze, soste e spostamenti, mentre i viaggiatori approfondiscono la conoscenza reciproca e si delinea il gioco delle relazioni. Perché Civil War è anche il racconto di una sorta di famiglia putativa, anche se tra i quattro protagonisti nessuno ha rapporti di consanguineità con gli altri. Si trovano infatti a condividere un po' per caso lo stesso automezzo, che deve percorrere più di 800 miglia in zona di guerra, uno strano quartetto composto da una pseudo-coppia genitoriale, una pseudo-figlia ribelle e uno pseudo-nonno saggio: sono in realtà Lee Miller (omonima di Lee Miller Penrose, che fu, oltre che modella e fotografa di moda, una delle prime corrispondenti di guerra negli anni '40 e la prima a documentare per immagini gli orrori dei lager nazisti dopo la liberazione), fotografa di guerra impersonata da Kirsten Dunst; il suo socio giornalista Joel (Wagner Moura), che ostenta il necessario cinismo richiesto dal mestiere; Jessie (Cailee Spaney – la Priscilla del film della Coppola), giovane fotografa che vuole emulare la sua compagna di viaggio più anziana e navigata; e il saggio giornalista veterano Sammy (Stephen McKinley Henderson), anziano, corpulento e claudicante. I quattro rappresentano anche un paradigma dell'atteggiamento nei confronti della guerra e della propria professione: l'inesperta Jessie che deve ancora mettere la propria vocazione alla prova dei fatti e dell'orrore; il cinico e pragmatico Joel; la matura Lee, indurita dall'esperienza ma ormai provata dalla sommatoria degli orrori cui ha dovuto assistere; l'anziano Sammy che vede le cose dalla prospettiva disincantata ma anche ricca di buonsenso dovuta all'età avanzata. Nello stesso tempo, ancora, Civil War è, ovviamente, un film di avventure bellica, con imprevisti, pericoli, salvataggi, fughe, prese in prigionia da una parte; stormi di elicotteri rombanti, campi militari e battaglie con carri armati, mitragliatrici e mitragliatori, fucili di precisione, esplosioni e quant'altro, dall'altra parte. Ma c'è di più: Civil War è ambientato nel noto e tranquillizzante paesaggio americano, dalle vie di New York ai notissimi luoghi simbolo del potere politico di Washington, passando attraverso la campagna bucolica dove gli uccellini cinguettano e i placidi paesini della provincia, dove però ogni strada, ogni prato, ogni stazione di servizio ospita cadaveri, sangue e orrore; dagli edifici distrutti esce il fumo nero degli incendi, e i cieli sono solcati giorno e notte dai traccianti dei proiettili. Civil War assume quindi anche le caratteristiche di un film apocalittico e distopico, dove le situazioni più comuni – uscire per strada, fermarsi a fare rifornimento di carburante, andare in un parco-giochi - acquistano una tonalità sgradevole e perturbante. Infine, Civil War vuole anche essere, o così vuol far credere, un film sulla rappresentazione della guerra, e sullo strano mestiere e sull'etica peculiare che consiste nel fotografare la violenza e la morte, senza dovere né volere intervenire – né per combattere, né per salvare, né per soccorrere. Ma purtroppo, a mio parere, Civil War, dopo aver messo tutta questa carne al fuoco e aver mescolato questi diversi ingredienti narrativi, non eccelle nel portarne a cottura (per continuare con l'improprio paragone culinario) nessuno. L'idea forte di fondo, con un'America divisa e lacerata da una guerra intestina, con un Presidente che ha abusato dei propri poteri tanto da aver suscitato secessione e rivolta, non viene sviluppata più di tanto. Il film inizia già in media res, anzi in extrema res, visto che siamo già vicini all'epilogo drammatico, e poco o nulla ci viene detto su come e perché si sia giunti a questa situazione, né vengono approfondite le lacerazioni di una lotta fratricida che vede su fronti opposti americani contro americani, ora nemici ma presumibilmente avvinti da mille legami. L'on the road impone l'andamento episodico, dove ogni segmento è basato su un'idea che si vorrebbe forte e straniante, come ad esempio i torturatori alla stazione di servizio, il cecchino al parco di divertimento invernale, i soldati alla fosse comune. Quest'ultimo è effettivamente l'episodio più riuscito (per quanto risolto in maniera corriva), con la visione infernale dei cadaveri cosparsi di calce ammucchiati nella fossa comune nella quale cade la giovane fotografa, e soprattutto con la tensione creata l'interrogatorio del soldato dagli occhiali rossi, dove la vita e la morte (che tocca in modo ovvio ai personaggi più sacrificabili) dipendono dalla risposta che si dà alla domanda “da dove vieni?”. I personaggi tuttavia non progrediscono più di tanto passando da una situazione all'altra, in uno sviluppo che conferma quelli che già si intuivano i caratteri di partenza: l'anziano grasso e zoppicante ma saggio e disposto all'eroismo; la ragazzina ambiziosa messa alla prova dalla realtà della guerra; il cinico non immune al dolore per la perdita di un amico; la burbera dalla dura corazza ma affaticata e protettiva verso quella che vede una versione giovanile di se stessa. Anche le scene di combattimento, per quanto girate con professionalità da Garland (regista che ha dato già prova di un talento visionario nei suoi film precedenti), non sono particolarmente innovative o emozionanti e sono spezzate dalla interpolazione degli “scatti” degli ardimentosi war reporter; e se i protagonisti sono spesso a pochi centimetri di distanza dai combattenti, sempre esposti al fuoco incrociato e indiscriminato e alle pallottole vaganti, tanto già sappiamo che i proiettili li colpiranno mai. La maggiore novità (relativa) è forse il fatto di essere ambientate in luoghi che negli americani, come già si diceva, devono per forza indurre una sensazione di straniamento e di perturbamento, come il Lincoln Memorial o la Casa Bianca (in un epilogo con tanto di ralenti colpevolmente scontato). Come il tema politico, anche quello etico imperniato sui reporter di guerra appare poco o nulla approfondito. Ancora una volta, rispetto a opere come Urla dal silenzio, Salvador o Un anno vissuto pericolosamente, la maggiore novità consiste nell'ambientazione, non nei cortili d'America, ma direttamente in casa sua, fin dentro la Casa americana per eccellenza, quella Bianca. Nel trattare il tema delicato dei confini dell'etica giornalistica e del diritto alla rappresentazione della guerra, dell'orrore e della violenza, però, non si va oltre l'alternanza tra i sentimenti adrenalici dei protagonisti: eccitazione vs terrore, fascinazione vs repulsione, attrazione morbosa vs insensibilità. I nostri eroi si catapultano in mezzo alle azioni di guerra o sopra mucchi di cadaveri: in genere senza paura, nemmeno per se stessi, ma anche senza pietà e senza ritegno per le vittime. ZAMORA di Neri MarcorèQuando il proprietario dell'azienda in cui lavora come ragioniere decide di chiudere per riposarsi, Walter viene raccomandato per un'altra azienda di Milano. Questo (siamo negli anni '60; nel 61 usciva Il posto di Ermanno Olmi, nel 62 il romanzo di Mastronardi Il maestro di Vigevano e nel 63 il film che ne trasse Petri) significa spostarsi dalla soporifera provincia vigevanese alla metropoli. Walter Vismara è un bel ragazzo, bravo, coscienzioso, serio, lavoratore, un po' impacciato. Sa tutte le risposte dei quiz di Mike Bongiorno, ma nulla di calcio, e purtroppo per lui il suo nuovo principale è invece un fanatico del pallone (anzi, del folber, per dirla alla Gianni Brera), che obbliga tutti i dipendenti a partecipare agli allenamenti e all'annuale torneo aziendale scapoli-ammogliati. Colto alla sprovvista, Walter si spaccia imprudentemente per portiere, ma praticamente non ha mai toccato una palla in vita sua, e a causa della sua imbranataggine calcistica e del suo carattere riservato e compito diventa presto il bersaglio del ganassa aziendale, cui deve il soprannome “Zamora” (mitico portiere spagnolo), che dà ingannevolmente il titolo al film. Quando una bella collega si dimostra decisamente interessata a lui, Walter si ritiene miracolato da un'imprevista fortuna, ma un equivoco rimette tutto in gioco. Letteralmente, perché la rivalsa di Walter passa proprio dalla porta di un campo di calcio, dove, con l'aiuto prezzolato di un ex-portiere in disgrazia a causa di scandali e vita sregolata, cercherà di riguadagnare approvazione e rispetto. Anche se il dolce del lieto fine riserva un'inaspettata punta decisamente amara.
Non è forse un film importante, Zamora, esordio alla regia di Neri Marcoré, ma è un film delizioso e di garbato ma efficace umorismo - che forse ho amato particolarmente per alcune mie affinità con il carattere del protagonista, di cui il film fornisce un'analisi psicologica piuttosto sottile. Come viene sottolineato più volte nel film, siamo negli anni '60 (precisamente nel 1965, anno di uscita di Giulietta degli spiriti, che i protagonisti vanno a vedere al Cinema Manzoni – anche se i milanesi noteranno qualche riferimento anacronistico), e i tempi stanno cambiando, relegando in secondo piano i valori e le virtù che appartengono per natura all'impettito Walter, a favore di un maggior dinamismo e maggior aggressività, tanto in ambito individuale, che professionale e sociale. Più che l'attrazione dimostratagli dalla bella Ada, sarà proprio il rapporto con il portiere in disgrazia Cavazzoni (e con la sorella Elvira, che nasconde un segreto ai famigliari) a farlo crescere, ad incrinare la sua corazza caratteriale, portandolo ad acquisire maggiore sicurezza in se stesso. Il beneficio d'altra parte sarà reciproco, e anche il portiere trarrà qualche insegnamento dalla frequentazione con Walter. Più che il messaggio sulla conquista della fiducia in se stesso o sul valore della famiglia (anche quando riserva delle sorprese inaspettate), o lo spaccato sociale d'epoca e d'ambiente abbozzato dal film, l'opera prima di Neri Marcoré trova in particolare il suo stato di grazia nell'equilibrio che riesce a trovare tra personaggi in fondo macchiettistici e umoristici e la loro umanità. Sono molti i personaggi del film a riservare delle sorprese o a rivelare delle debolezze o delle risorse impreviste, acquistando una loro credibilità psicologica che li sbalza dal semplice bozzettismo. A venare il film di umorismo e a conferirgli attendibilità contribuisce un cast composto da attori comici di estrazione prevalentemente milanese, a volte con ruoli di rilievo (Walter Leonardi, Giovanni Storti, Antonio Catania, Pia Engleberth, con Giovanni Esposito nel ruolo dell'infiltrato finto milanese), a volte presenti in cameo (Giacomo Poretti, Ale e Franz). Alberto Paradossi ha la sua prima occasione da protagonista (era stato il figlio di Craxi in Hammamet), mentre Neri Marcoré riserva per sé la parte del malinconico portiere, con una recitazione tutta virtuosisticamente in sottotono. Decisamente apprezzabile poi è la prova delle due protagoniste femminili: Marta Gastini (che avevo già apprezzato recentemente a teatro ne Il figlio di Zeller diretto da Maccarinelli), nel ruolo di Ada, e Anna Ferraioli Ravel (che si è già fatta notare nel cast corale di Un altro ferragosto di Virzì), in quello della sorella Elvira. Curiosamente, una storia milanese (tratta dal primo romanzo di Roberto Perrone, scomparso l'anno scorso), con tanti attori milanesi (ma non il quartetto dei protagonisti), ambientata tra Vigevano e Milano, insaporita dal dialetto e dalla cadenza milanese, malgrado gli scorci meneghini riconoscibili (il Duomo, l'Arena, il Manzoni) è stato girata in gran parte a Torino con il supporto della Piemonte Film Commission. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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