TORI E LOKITA di Luc e Jean-Pierre DardenneUno degli aggettivi che ho sentito e letto spesso a proposito di Tori e Lokita è “solito”, nelle sue varie declinazioni: i soliti Dardenne, il solito film dei Dardenne, le solite storie, il solito stile. A Cannes c’è perfino chi lo ha fischiato, forse pensando che il solito parlare degli ultimi, dei senza difese, degli invisibili, sia motivo di scherno e di sprezzante dileggio. Io non la penso così, e anzi penso che Tori e Lokita sia un film bello e importante, più bello delle ultime prove dei fratelli, La ragazza senza nome e Le jeune Ahmed, quelli sì un po’ in difetto di ispirazione. Certo, il cinema dei Dardenne non strappa “oh” di meraviglia, non stupisce con ardite trovate narrative né tanto meno con scene spettacolari o effetti speciali. Ma è un cinema che fa riflettere, che fa indignare, che fa commuovere; ma senza farci versare una lacrima, perché non ci sono nemmeno effetti speciali drammatici o patetici. E non è che fa pensare perché imbastisca chissà quali teoremi filosofici o enunci chissà quali verità. Fa pensare perché mostra la realtà, anche quella che abbiamo sotto gli occhi e non vogliamo vedere, anche le vergogne della nostra società che sappiamo ma che non vogliamo riconoscere. Sono due invisibili Tori e Lokita. Un bambino e un’adolescente dalla pelle scura, arrivati in Europa dall’Africa attraverso la porta della Sicilia, con un viaggio pericoloso e dispendioso ancora da pagare. Tori è piccolo e riceve protezione, Lokita no. Si fingono fratelli per cercare di far ottenere anche a lei il permesso di soggiorno, anche se non lo sono per davvero, non attraverso il sangue almeno; e invece forse lo sono per davvero, per l’affetto che li unisce, per un legame spontaneo che li stringe perché le avversità della vita si affrontano meglio in due, con una solidarietà profonda e spontanea dell’uno verso l’altra e viceversa. Per sopravvivere, per pagare i trafficanti d’uomini che reclamano il loro pagamento, per cercare di mandare qualche soldo alla madre rimasta in Benin con altri figli, Lokita insieme al piccolo Tori si presta a distribuire droga per conto di un cuoco che ogni tanto pretende dalla ragazza anche qualche triste bonus sessuale. Finché Lokita non verrà rinchiusa in una sorta di bunker, isolata dal resto del mondo, prigioniera e guardiana di una coltivazione di droga. Ma Tori saprà trovarla anche lì, per aiutarla e per farla sentire meno sola. E’ ancora una volta ammirevole come i Dardenne costruiscano una storia tutta fatta di gesti, di azioni, con i dialoghi che dicono l’indispensabile, senza nessun tipo di orpello o di abbellimento, senza musica extradiegetica a sottolineare azioni e sentimenti. Una canzone c’è e rimarrà indimenticabile per chi l’ha ascoltata guardando il film: la cantano Tori e Lokita, per intrattenere i clienti del ristorante in cambio di una piccola mancia o un pezzetto di pizza. E’ Alla fiera dell’est, proprio quella di Angelo Branduardi, cantata in italiano, che descrive una piramide di soprusi, un mondo dominato dalla violenza e dalla sopraffazione. Qualcuno, ancora, ha lamentato che Tori nella sbrigativa sequenza finale enunci, dopo un finale amaro che non aveva bisogno di commenti, la morale del film: e cioè che se a Lokita fossero stati concessi i documenti che avrebbero regolarizzato la sua situazione le cose avrebbero potuto andare diversamente. Ma non è una didascalia; è una constatazione che per l’appunto anche un bambino è in grado di fare, ma che una burocrazia e una società basate sull’esclusione non sono state capaci di realizzare. Io sono contento che esistano dei cineasti come i Dardenne, con la loro coerenza nel raccontare le “solite” storie che pochi altri raccontano, il loro rigore senza concessioni, il loro inscalfibile umanesimo, la loro poesia umile e concreta. E di film così – anche se fanno male, anzi proprio perché provocano un salutare dolore - ne vorrei ancora, e vorrei che tanta gente li vedesse. Senza sbadigliare, e senza fischiare.
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IL CORSETTO DELL'IMPERATRICE (Corsage) di Marie KreutzerArriva un po’ in ritardo, Il corsetto dell’imperatrice, rielaborazione di un segmento della vita di Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, o Elisabetta di Baviera, o semplicemente Sissi, nomignolo con cui è entrata nell’immaginario collettivo, imperatrice d’Austria in quanto consorte dell’imperatore Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria e re di Ungheria e Boemia.
Non tanto rispetto alle narrazioni che la riguardano più da vicino (dalla saga di Sissi incarnata da Romy Schnider a film come Ludwig o Mayerling), quanto rispetto a ritratti storici femminili revisionisti come quelli dedicati all’anti-imperatrice Miss Marx della Nicchiarelli, alla regina ribelle Marie Antoinette di Sofia Coppola, o alla principessa triste Spencer di Larrain. Nevrosi, canzoni moderne in colonna sonora, balli sfrenati e liberatori, anacronismi voluti e comportamenti disinvoltamente contemporanei, dissidio tra obblighi sociali e protocollari imposti dal ruolo e desiderio di libertà e di emancipazione, disturbi alimentari, culto della (propria) bellezza e timore e insofferenza per gli sguardi degli altri: tutti elementi presenti in Corsage e già presenti nei film citati sopra. Vero è che si tratta di una manciata di titoli nell’arco di un quindicennio, eppure l’impressione che mi ha suscitato il film (rafforzata dalla nuvola di narrazioni su re, principi e varia nobiltà come The Crown, Harry e Meghan, Dowtown Abbey e la miriade di prodotti audiovisivi dedicati alla storia di Lady Diana – e confesso qui di nominarli senza averli mai visti) è stata quella di una certa saturazione verso le storie di sovrane tristi e annoiate stufe di mangiare brioche perché non hanno il pane. Qui Marie Kreutzer, che scrive e dirige, con la complicità di un’interprete perfetta per il ruolo, una Vicky Krieps antipatica e febbrile come solo un’Isabelle Huppert giovane avrebbe saputo essere), ce la mette tutta per trascinare fuori il personaggio dai cliché dell’esuberante ed adorabile principessa schnideriana per renderla un personaggio complesso, nevrotico, roso dall’ansia di emancipazione sessuale, sociale ed intellettuale, ma soprattutto contemporaneo. Elisabetta di Baviera quindi, oltre a cavalcare, fare ginnastica, tirare di scherma, cercare amanti tra cugini e stallieri, alza il dito medio, tira fuori la lingua, fuma, si inietta eroina, viaggia su navi moderne, si fa immortalare dal cinema prima che il cinema esistesse, mentre in campagna incrocia trattori a motore e nei corridoi di palazzo fanno capolino moci di plastica. Nello stesso tempo, il personaggio è un concentrato di contraddizioni: vuole essere amata e considerata, ma si comporta come una tiranna spietata verso le sue assistenti; vuole essere bella e ammirata, ma detesta essere guardata e giudicata (soprattutto quando, superata la soglia dei 40 anni, gli sguardi potrebbero cominciare a diventare impietosi o compassionevoli per l’età che passa, il corpo che perde la sua proverbiale snellezza e la pelle il suo splendore); accoglie nuda il marito, ma poi si limita a masturbarlo senza farsi toccare; cerca avventure extraconiugali ma senza mai arrivare – a quanto ci viene mostrato – a passare dalla potenzialità all’atto. Come la Lady Diana di Spencer ingabbiata nelle fredde e rigide geometrie della monarchia inglese, anche Elisabetta sta stretta nella simbologia di continue costrizioni: è lei stessa a farsi stringere nel corsetto del titolo – sorta di cilicio che deve portarla alla bellezza della snellezza anziché alla santità -, ma poi si sente schiacciata da ambienti domestici troppo angusti e si identifica con la paziente dell’istituto psichiatrico da lei patrocinato, incatenata mani e piedi ad un letto chiuso dentro una gabbia di ferro. Ai protocolli e al suo ruolo puramente di rappresentanza, esiliata intellettualmente in un limbo ancillare, Elisabetta oppone una vasta gamma di tentativi di fuga: dalle cavalcate selvagge e perniciose (per sé e per i destrieri) ai finti svenimenti recitati con grazia; dalle sosia che manda fuori al suo posto, con il viso coperto dalla veletta, alle proteste alimentari; dalle relazioni pericolose con i maschi disponibili alla sua portata agli sgarbi sociali; dalla fuga dal ruolo materno, di figli che anche bambini si ritengono più maturi di lei, fino alla fuga definitiva dell’ultima sequenza. P.S.: Ma non finisce con un tuffo, liberatorio e annientatore insieme, ma comunque voluto e autodeterminato, la vita dell’imperatrice Elisabetta storica, che aveva scritto che avrebbe voluto morire “improvvisamente, rapidamente e se possibile all’estero”; anche se su una nave salì realmente, a Ginevra, nell’ultimo giorno della sua vita: ma già con una ferita mortale al petto inflitta con una lima da un anarchico italiano, Luigi Lucheni. Uno di quei fanciulli infelici “oppressi dall’Ordine stabilito”cui talvolta dedicava le sue pene, e che diceva di essere povero, di amare gli operai e di volere la morte dei ricchi, ma che si trovò ad uccidere una donna sola e disperata, probabilmente per vendicarsi a sua volta di quella vita matrigna di cui si lamentava, senza amore e senza felicità. NOIR IN FESTIVAL: UNA RASSEGNA CRITICA DELL'EDIZIONE 2022Il Noir in Festival è indubbiamente una manifestazione di egregia qualità, che mescola in modo intrigante cinema, letteratura e altri media. Vedendo la selezione del concorso cinematografico internazionale dell’edizione 2022, viene però spontaneo chiedersi quale orizzonte sia stato disegnato intorno al concetto di cinema noir, un genere che si è caratterizzato nel tempo (a partire dal suo periodo d’oro negli anni ‘40-50) con caratteristiche e specificità piuttosto precise. Ma partendo dalla visione degli otto film in concorso quest’anno sarebbe assai arduo ricavare una definizione o una delineazione del noir, sia pur aggiornato alla contemporaneità: si sono visti film horror, film sperimentali psicologico-metafisici, drammi bellici, film di spionaggio, film sul doppio, thriller complottistici e così via. Il noir diventa così, nella visione dei direttori artistici del festival, una definizione-contenitore dove stipare le paure e i malesseri contemporanei, legati all’identità, al controllo, alla solitudine, alle minacce incombenti di guerre e malattie, alla violenza su donne e bambini, e fino alla distruzione totale dell’umanità, un’ipotesi che non è più un divertissment da cinema e letteratura fanta-apocalittici ma sta diventando una sinistra plausibile prospettiva concreta, tra guerre, minacce nucleari, pandemie, sconvolgimenti climatici. E’ la prospettiva che si delinea nel film (fuori concorso) messo malignamente in apertura dai curatori del festival, l’anglosassone SILENT NIGHT, diretto da Camille Griffin. Come nel Melancholia di Lars von Trier, quella che dovrebbe essere una felice riunione di famiglia (lì era un matrimonio, qui una festa natalizia; la padrona di casa è Keira Knightley), si trasforma nella seconda parte nell’angosciosa attesa di un evento catastrofico. Il cambiamento climatico, forse lo zampino dei russi, chissà: l'umanità sembra destinata ad essere spazzata via da un'ondata di morte. I personaggi, e il film, finché possono, sembrano prenderla con filosofia, tra bisticci tra bambini, pettegolezzi tra adulti, segreti che si svelano, rancori e desideri sopiti che vengono alla luce. C'è una pillola consigliata dal governo e dagli scienziati, pensata per andarsene con dignità risparmiandosi sofferenze atroci, ma non tutti sono disposti a prenderla; molti commentatori ne hanno approfittato per rispolverare in maniera problematica il dibattito vax/no vax, ma qui il caso è leggermente diverso; nel film la pillola serve a dare la morte, il vaccino anti-Covid serve ad evitarla. Non è escluso invece che il film faccia un riferimento ironico e polemico al “suicidio” britannico della Brexit: la pillola letale si chiama infatti, semplicemente, “Exit”. Le cose migliori del Festival si sono viste decisamente al di fuori del concorso; a chiudere i battenti è stato collocato un mito cinefilo come Park Chan-wook (l'autore di Mr. Vendetta, della relativa trilogia e di Old Boy), con un titolo tra l'altro perfettamente adeguato all'occasione come Decision to Leave. Park abbandona il manierismo di certi suoi ultimi film (penso il particolare a Mademoiselle), per girare un romantic mistery che mescola La donna che visse due volte e una versione dark di In the Mood for Love. Non tutto è perfetto (uno dei protagonisti scompare a metà film senza spiegazioni, il finale è un po' lungo e contiene uno dei metodi di suicidio più improbabili mai visti), ma si tratta di un film intrigante, divertente, ben recitato, ben diretto (a Cannes ha vinto il premio per la regia e ci sono delle scene riprese in soggettiva dall'interno di uno smartphone...). Stavolta non si può negare che siamo in pieno noir: c'è la femme fatale (per quanto meno sexy di quanto uno spettatore occidentale è tenuto ad aspettarsi), mariti morti ammazzati, detective irretiti nella tela della vedova nera. Park inspiegabilmente nega, ma c'è tanto dell'Hitchcock di Vertigo: musiche hermanniane, pedinamenti, paura dell'altezza, la storia che si ripete quando il dramma sembra ormai compiuto, la donna che ritorna, l'esito finale. Proprio ad Hitch è dedicato il documentario di Mark Cousins My Name Is Alfred Hitchchock. Il prolificissimo Cousins (tra i suoi temi niente di meno che la storia universale del cinema, Orson Welles, ma anche il fascismo in Italia) dopo qualche titubanza ha accettato di occuparsi del maestro del brivido, rivedendo in sequenza i suoi 52 lungometraggi e riordinando poi i materiali in un'antologia per temi (desiderio, tempo, altezza, ecc.), evitando scrupolosamente di cadere nei luoghi comuni e nel già detto: basti dire che il tema “altezza” è trattato senza quasi fare riferimento all'imprescindibile (fin dal titolo) Vertigo. L'interessantissimo viaggio di due ore nel cinema, nel pensiero e nella visione di Hitchcock è accompagnato nella versione originale dalla flemmatica voce... di Hitchcock. Impossibile ma affascinante; la voce in realtà è quella dell'attore Alistair McGowan. C'è noir nell'universo (del concorso nazionale)? Forse, qua e là. Magari ce n'era di più nella sezione dedicata alla letteratura, dove il prolifico ed eclettico Harlan Coben si è aggiudicato il Raymond Chandler Award e Fuoco di Enrico Pandiani il Premio Scerbanenco dedicato al noir nazionale. O nella bella locandina disegnata da Paolo Bacilieri che omaggia Le iene nel suo trentesimo compleanno. E probabilmente ce n'era di più nel concorso italiano, una specie di vero e proprio grand tour nell'Italia più nera, dalla Roma horror di PIOVE (che si aggiudica il Premio Caligari), alla Calabria 'ndranghetosa di UNA FEMMINA (appena un soffio sotto Piove nel gradimento dei giurati e vincitore della menzione speciale), alla Sardegna delle faide familiari nel maloreddu western IL MUTO DI GALLURA, alla Puglia malavitosa di TI MANGIO IL CUORE, alla Milano violenta degli anni di piombo di ERO IN GUERRA MA NON LO SAPEVO, per tornare nella capitale, tra pugilato e malavita, con GHIACCIO. Il concorso internazionale premia invece con il Black Panther il franco-belga BOWLING SATURNE di Patricia Mazuy. Frères ennemis, fratelli nemici, per dirla con il titolo di un film di qualche anno fa. Uno è un poliziotto (Arieh Worthalter), erede di un bowling di cui affida la gestione all'altro, il fratellastro (Achille Reggiani), negletto e frustrato, che si scopre serial killer. Le premesse ci sono, ma il film ristagna, vira a metà strada, sbanda senza imboccare le possibili piste che sembra tracciare, sfiora a volte il ridicolo involontario come nella scena in cui l'ambientalista, interesse sentimentale del poliziotto, si trova ad assistere ad occhi sbarrati a scene di caccia grossa insieme agli amici del padre di lui. Personalmente ho decisamente preferito l'italiano PROFETI, di Alessio Cremonini, già sceneggiatore di Private (di Saverio Costanzo), di cui rappresenta quasi una declinazione al femminile. Anche qui due individui su fronti opposti, sullo sfondo di un conflitto bellico. Lì si trattava di un militare israeliano che occupava la casa privata di un palestinese, qui di una giornalista italiana (Jasmine Trinca) catturata dai jidahisti del Califfato e e affidata in custodia alla moglie di un mujaheddin (Isabella Nefar). Nel chiuso della casa sperduta in zona di guerra in qualche remota regione dell'Iraq, ovviamente le due donne metteranno a confronto le relative visioni del mondo e intraprenderanno forse un lento processo di avvicinamento e di reciproca conoscenza. Finale amaro. Le argomentazioni dialettiche espresse nel film non brillano per originalità, ma la tensione psicologica tiene e ispira qualche motivo di riflessione. A mio parere il miglior film del concorso. Dal film bellico-psicologico ad una spy story in piena regola nel sudcoreano HUNT, opera prima dell'attore di Lee Jung-jae, universalmente noto come protagonista di Squid Game. Siamo nella Corea degli anni '80, quando si fronteggia la dittatura comunista del Nord e il regime antidemocratico e repressivo del Sud, sostenuto dagli Usa. Ci sono complotti per uccidere il presidente sudcoreano e rovesciare il governo, e i responsabili di due sezioni dei servizi segreti sono messi l'uno contro l'altro. Tutti sono implicati in qualche complotto, e si susseguono sparatorie furibonde, torture e colpi di scena a ripetizione. Interesse per lo sfondo storico, ineccepibile confezione professionale, ma il troppo stroppia e la mitica sparatoria per strada di Heat è presa come modello di minimo sindacale per ogni scena di azione. In concorso c'è anche un nome prestigioso come quello di Steven Soderbergh. Il regista americano è solito alternare grandi produzioni e progetti low budget. KIKI – QUALCUNO IN ASCOLTO è uno di questi, chiaramente condizionato dalla situazione pandemica per concezione, ambientazione e tematica. Il tema è interessante – la pervasività della tecnologia nel nostro privato e nella nostra intimità, qui rappresentato dall'assistente vocale Kiki. Prima parte, quasi tutta in un appartamento dove lavora l'agorafobica protagonista (Zoë Kravitz) - analista dei flussi vocali provenienti dai Kiki per correggerne i bug - spaventata dai pericoli del contagio ma anche reduce da una traumatica aggressione sessuale. La seconda parte si apre, ma per indirizzarsi verso un thriller piuttosto convenzionale dall'esito scontato. Diciamo che si tratta di un divertissement abbastanza gradevole. Ci si allontana ancora di più dal noir con ENYS MEN, un film psicologico quasi sperimentale addossato praticamente tutto sulle spalle di un'unica attrice che vive da sola su una remota isola della Cornovaglia tra ricordi e allucinazioni. Fotografia interessante, interesse generale o noir molto dubbio.
Dal cinema sperimentale si passa al genere più schietto con LA NINA DE LA COMUNION, un horror di banalissima amministrazione dove la presenza malefica è appunto quella di una bambina scomparsa durante la propria Comunione. Il modello esibito è quello dei film di fantasmi giapponesi, ma il film replica per tutta la durata, fino alla noia, le stesse situazioni orrorifiche e non trova una propria ragion d'essere nemmeno nell'immaginare una spiegazione originale degli eventi. Suscitavano curiosità gli altri due film del concorso, provenienti da Paesi – purtroppo – al centro dell'attenzione mondiale, come l'Iran e l'Ucraina. Dall'Iran, che – suo malgrado – ci ha regalato tanti capolavori negli anni passati, arriva un film, TAFRIGH, basato su un'idea balzana, quella di una donna che scopre l'esistenza di un sosia di suo marito, sposato a sua volta con una sosia di se stessa. Una trovata abbastanza indifendibile che non riesce a trovare una soddisfacente giustificazione metaforica o politica. Anche qui un pizzico di umorismo involontario, come quando il clone più buono per fare un favore alla moglie del clone più mascalzone si reca a chiedere scusa ad una famiglia offesa da quest'ultimo, senza sapere che questa ha deciso di riempirlo di legnate appena si fa vedere. Ripiombiamo di nuovo letteralmente nel noir con SASHENKA, ambientato nell'Ucraina sovietica degli anni '60. Fotografia in b/n, paesaggi (naturali e umani) raggelati, messa in scena e recitazione astratte. Un bambino è allevato come una bambina da una madre/matrigna crudele e folle e dal padre compiacente; la frustrazione lo porterà a ridursi all'invalidità, ma porterà poi ad esiti devastanti. Ci sono omicidi, indagini (si fa per dire), condannati, colpi di scena. Fin troppo, e se la prima parte è abbastanza lineare, benché divisa tra una linea narrativa presente e una in flashback, dal momento in cui le storie si riuniscono succede di tutto, tra travestitismo, necrofilia, amputazioni, parricidi, matricidi, infanticidi (riusciti o tentati), condanne alla pena capitale, malattie fisiche e mentali, amputazioni, ecc. Il tutto con quella che sembra la sindrome da cinema polacco dei cabarettisti di Zelig, dove in ogni scena si sente il vento fischiare o l'orologio ticchettare, e dove i personaggi rimangono impassibili sia che vengano condannati a morte benché innocenti sia che spacchino sulla testa dei figli pesantissimi vasi di cristallo. Siamo a metà strada tra Psyco e I pugni in tasca, peccato che il risultato sia un film pasticciato, eccessivo sotto le mentite spoglie della stilizzazione, e perfino disonesto nella messa in scena ai fini di ingannare lo spettatore. THE WOMAN KING (Usa) di Gina Prince_BythewoodIn un prolungamento dei psichedelici anni ‘70, Werner Herzog realizzò, ispirandosi a Il viceré di Ouidah di Chatwin, Cobra verde, un film folle e visionario su un avventuriero portoghese (Klaus Kinski, più survoltato che mai) implicato nella tratta di schiavi africani, che si pose alla testa di un esercito di amazzoni nere.
Ora, nel 2022 (sulla scia del successo del marveliano Wakanda Forever), The Woman King torna in quei luoghi (il regno del Dahomey, odierno Benin) e in quell’epoca (inizio ‘800) selvaggi per raccontare con tutt’altri toni ed intenti la storia dell’esercito amazzone delle Agojie, al servizio del regnante Ghezo e in guerra contro la popolazione degli Oyo (il cui esercito è invece dotato di cavalli e moschetti). Il racconto è totalmente aggiornato alla sensibilità e alle tematiche contemporanee in chiave politically correct. Lo schema è quello del romanzo di formazione, in cui la giovanissima Nawi, ribelle ad un matrimonio combinato con un uomo ricco e anziano, cui vogliono costringerla i genitori adottivi, viene arruolata nell'esercito delle Agojie. Qui crescerà in tutti i sensi, fisico, morale, politico, forgiata dal duro allenamento e dalla disciplina, adottata dalle guerriere più anziane in un rapporto in cui all'autorità si mescola un affetto sororale e materno. Anche perché, come in tutte le epopee che si rispettino, da Star Wars in poi (per non scomodare la tragedia greca o i classici), legami di sangue nascosti e segreti rendono più profondi e necessari i legami tra i personaggi. Il carattere ribelle, individualista ma anche solidale e responsabile fanno di Nawi un'eroina moderna (che non stonerebbe nella produzione contemporanea Disney), intorno alla quale le autrici dipingono un panorama ideologico fatto di elogio della sorellanza e della solidarietà femminile e di esaltazione del black power, dell'empowerment femminile, della contaminazione di genere (le donne/uomo) e di antischiavismo. A quanto ho capito nella realtà storica il regno del Dahomey nel sistema della tratta degli schiavi aveva un posto di primo piano e un atteggiamento molto attivo, se non entusiastico; mentre nel film il sovrano illuminato, grazie ai suoi illuminati consiglieri, progetta di passare dall'imprigionamento e alla vendita degli schiavi ai migliori offerenti europei alla più umanistica produzione dell'olio di palma. Il film è evidentemente pensato con finalità pedagogico-spettacolari per il pubblico cinematografico di oggi, gli adolescenti, cui offre modelli, soprattutto femminili, in cui identificarsi, schemi narrativi semplici - con le varie tappe di evoluzione del personaggio principale e l'alternarsi di momenti più intimi, di prove da superare e di combattimenti -, svolte melodrammatiche e l'allettamento ulteriore di un possibile risvolto romantico semi-interrazziale. La destinazione è evidente nelle scelte visive e di racconto: manca ad esempio completamente la rappresentazione della nudità (non si vede neppure un seno nudo; nell'Africa di inizio '800 le donne fanno perfino il bagno in piscina vestite di tutto punto – e se sono guerriere con un pugnale sott'acqua), e anche la quantità di sangue è limitata a dosi minimali, pur nella reiterata descrizione di combattimenti all'arma bianca potenzialmente cruentissimi. Non sono abbastanza documentato per verificare l'attendibilità storica della rappresentazione, anche se gli abiti indossati dalle Agojie sembrano più quelli eleganti delle hostess della business class di qualche compagnia aerea africana che di guerriere sanguinarie, e il villaggio e il palazzo reale assomigliano molto ad un moderno parco storico pulito e ordinato, dove ci si aspetta che da un momento all'altro sbuchi fuori un cartello esplicativo. Nel ruolo del titolo (ma è una donna re comunque soggetta al vero re, maschio e poligamo) di questo strano film bellico, belligerante e in fondo militarista, troviamo Viola Davis in un ruolo insolitamente macho, attorniata da un cast prevalentemente di origine africana. NOIR IN FESTIVAL - XXXII edizione |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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