Del film che ha aperto il festival, I Am Not Your Negro, ho già parlato in questo stesso sito. Raoul Peck, regista di origine haitiane, che ha trascorso parte della sua vita in Congo, ha acquisito i diritti di un saggio incompiuto dello scrittore e saggista James Baldwin e lo ha affidato alla voce di Samuel L. Jackson, costruendo con le immagini, in gran parte di repertorio, un poderoso testo audiovisivo che costituisce il più importante contributo cinematografico al dibattito sulla questione afroamericana in una stagione pure affollata di titoli. Le immagini diventano parte integrante di una critica analitica (fondata anche sulll'autobiografia) non solo dell'ideologia ma anche di un immaginario intimamente compromesso con essa. I cortometraggi africani in concorso hanno offerto uno spaccato non solo di situazioni, tematiche (migrazioni, memorie e radici, metafore politiche, corruzione, condizione dell'infanzia, ecc.) e aree di produzione, ma anche di tecniche cinematografiche: fiction tradizionale ma anche cinema di animazione e found footage, per non dimenticare la sezione New Dimensions (fuori concorso) che ha proposto tre suggestivi esempi di film girati in realtà virtuale: grazie al visore e alle cuffie ci si ritrova immersi in un ambiente virtuale a 360°, di volta in volta in una sperimentazione videoartistica con danze e riprese subacquee (Nairobi Berries, Kenya), in una specie di videogioco in cui lo spettatore è la vittima sotto minaccia (Let This Be A Warning, Kenya) o in un festival d'arte all'aperto a Accra (Spirit Robot, Ghana). Ha vinto il concorso per i cortometraggi Un enfant perdu (di Abdou Khadir Ndiaye, Senegal), che segue l'odissea di un bambino di famiglia borghese che si perde all'uscita di scuola e scopre un mondo per lui sconosciuto. Tra i film che ho visto, sempre in tema di condizione dell'infanzia, ho trovato toccante (anche se forse tecnicamente è il più debole) Une place pour moi di Marie Clémentine Dusa bejambo (Ruanda), su una bambina che al suo ingresso nel mondo della scuola scopre la discriminazione superstiziosa cui ancora oggi sono sottoposte in certe parti dell'Africa le persone albine. Una discriminazione dolorosa cui reagirà mettendo per iscritto le sue semplici parole di bambina in una lettera, che la maestra fotocopierà e distribuirà ai genitori dei suoi compagni di classe. Passando al Concorso per lungometraggi “Finestre sul mondo”, mi è sfuggito purtroppo il film che si è aggiudicato il premio principale, House in the Fields (Marocco) di Tala Hadid, che racconta in forme semidocumentaristiche la vita e le tradizioni di una popolazione berbera dell'Atlante, concentrando la propria attenzione su due personaggi femminili. Perfettamente adeguato invece il premio del pubblico “Città di Milano”, andato a quello che secondo me è il film migliore del festival, El Amparo, una produzione venezuelana-colombiana, del giovane regista Rober Calzadilla. Negli anni '80 una battuta di pesca si trasforma (fuori schermo) in un massacro: verso il confine colombiano l'esercito venezuelano uccide 14 pescatori inermi scambiandoli per guerriglieri. Gli unici due sopravvissuti verranno imprigionati e sottoposti a enormi pressioni perché confessino di far parte della guerriglia, per evitare all'esercito e al governo venezuelano la vergogna di un errore letale. Film di dignità e di resistenza umana, stupendamente calato in una realtà locale ben caratterizzata, che dà risalto ai caratteri principali (la storia, vera, si era tradotta dapprima in un'opera teatrale) ma senza mai dimenticare la dimensione corale, collettiva, politica della vicenda. Una regia fluida, tesa, a suo agio tanto nell'uso della camera a mano nelle movimentate riprese in spazi aperti che negli spazi claustrofobici della prigione del paese, e un cast di attori perfetti. Se proprio gli si vuole trovare un difetto, il film procede in anticlimax, poiché le scene più drammatiche sono concentrate nella prima parte; ma in ogni caso è un grande film. In un'edizione del festival dove stranamente non si è parlato moltissimo, almeno in forma diretta, dei diritti delle donne, spicca A Day For Women (Yom Lel Setat), della regista egiziana Kamila Abu Zekri. In un quartiere popolare del Cairo apre una nuova piscina e, straordinariamente, la giornata della domenica viene riservata alle donne, altrimenti escluse dall'uso dell'impianto. La condizione collettiva, ludica, sensuale della piscina, che permette alle donne di stare insieme, un po' meno coperte del solito, a godere del sole, dell'acqua, della musica, della compagnia reciproca, avrà naturalmente un effetto benefico (salvo suscitare l'irritazione dei fondamentalisti, prontamente rintuzzati però dalla comunità), anche sulle tre protagoniste principali, una vedova inconsolabile che troverà una nuova ragione di vita, una modella per pittori che riuscirà a coronare un vecchio sogno d'amore e una ragazzina disinibita e considerata un po' pazza che a sua volta troverà qualcuno che la capisca e la apprezzi per quello che è. Un film non semplicisticamente propagandistico, ma capace di molte sfumature: la giovane regista si destreggia bene nel maneggiare diversi registri - il buffo, il patetico, il sentimentale, il drammatico – e chiude su una bella immagine subacquea di libertà. Un forte ritratto femminile viene delineato anche nel senegalese Félicité, di Alain Gomis, già vincitore dell'Orso d'argento alla Berlinale: una donna fiera e orgogliosa, ma anche arrogante e presuntuosa, che si guadagna da vivere cantando nei locali, ritrova la sua vita sconvolta da un grave incidente motociclistico in cui rimane coinvolto il figlio adolescente. Molta bella la prima parte, con una tesa linearità iterativa (alla Dardenne, o come certo cinema iraniano), finché Félicité fa di tutto per mettere insieme i soldi che servono all'operazione del figlio; poi il film si disperde e ristagna prima di arrivare a una conclusione. Non è facile in effetti trovare temi comuni tra i lungometraggi del concorso, se non genericamente l'emergere di storie individuali su contesti geopolitici, storici e socioeconomici sempre molto caratterizzati. Un altro dei film più direttamente impegnato in una polemica politica è Santa y Andrés, del cubano Carlos Lechuga. Nella Cuba anni '80 una commissaria del popolo, donna solitaria e segaligna, viene incaricata di sorvegliare Andrés, confinato in un isolamento rurale, scrittore omosessuale e accusato di idee dissidenti. Ovviamente l'incontro tra due solitudini e la conoscenza reciproca porteranno a un ben differente rapporto umano tra i due protagonisti, in una sorta di versione caraibica di Una giornata particolare. C'è il Bangladesh in preda a una crisi economica sociale invece sullo sfondo di Live from Dhaka di Abdullah Mohammad Saad. La situazione è bene impostata, la regia funziona e i due attori protagonisti, maschile e femminile, sono bravi; ma il film è afflitto da due problemi: una fotografia in un bianco e nero scialbo e poco contrastato (molte tra l'altro le scene notturne) e la sequela di sventure che colpisce il protagonista (è zoppo; sta perdendo tutti i suoi averi in speculazioni finanziarie; è perseguitato dai creditori; ha un fratello drogato – che gli ruba i soldi; che muore -; ha una fidanzata di cui è geloso – che rimane incinta; che ha bisogno di soldi per abortire; che non abortisce -; gli bruciano la macchina nei disordini; tenta di espatriare ma gli rubano i soldi, e via così, fino all'ultima sequenza e ben oltre) sono davvero troppe per un uomo solo. Va ancora peggio alla donna di una certa età protagonista di Burning Birds (Davena Vihagun, Sri Lanka) di Sanjeewa Pushpakumara: le milizie paramilitari anticomuniste le trucidano l'incolpevole marito; avendo otto figli da mantenere passa dal lavoro massacrante in una cava di pietre a uno rivoltante in un mattatoio; viene picchiata e stuprata a più riprese e da vari personaggi (tra i quali l'assassino del marito rincontrato casualmente); è costretta a darsi alla prostituzione; i figli vengono scacciati da scuola; viene arrestata e via così fino a un finale di sangue. Il regista cerca la bellezza nella sofferenza con riferimenti estetici alla pittura europea (lui fa i nomi di Caravaggio e di Rembrandt), ma il film è talvolta e nell'insieme piuttosto insostenibile. Molto funereo anche My Hindu Friend (Meu amigo hindu, evento speciale fuori concorso), girato da Hector Babenco (Il bacio della donna ragno, Giocando nei campi del Signore, Ironweed), già ammalato di cancro, che racconta se stesso facendosi impersonare da Willem Dafoe, che, prestigioso ospite d'onore alla proiezione, fa un'ottima figura, elegante, simpatico e cool. La prima metà si svolge prevalentemente in ospedale, in attesa e dopo un trapianto di midollo, ma tutto il film si rivela una cupa preparazione alla morte, anche quando sembra allontanarsene. Tra i molti film di registi che raccontano se stessi, i riferimenti più diretti sono all'All That Jazz di Bob Fosse, o a un altro film-testamento, il Radio America di Robert Altman, in cui la morte si aggirava tra le quinte in impermeabile. Personalmente non amo molto il registro del grottesco, e il film ne fa ampio uso, forse per esorcizzare i temi mortiferi, ma a mio parere con l'effetto di aggravare una situazione già difficilmente sostenibile. Un film decisamente poco riuscito, tra goffaggini di sceneggiatura e perfino di regia; la scena finale con la moglie (reale) di Babenco che balla nuda sotto la pioggia con l'accompagnamento (extradiegetico) di Dancing in the Rain mi ha imbarazzato. Più “leggero”, benché ambientato anche questo in una situazione di disagio sociale, El soñador del peruviano Adrian Saba, che più degli altri guarda a modelli occidentali – sia pure da cinema indipendente -, tra flashforward e sequenze oniriche, nel raccontare la storia di un ombroso adolescente, “fabbro” in una pandilla di scassinatori, che vedrà cambiare la sua vita dopo l'incontro con la sorella di uno dei complici, da lui ferito in uno scontro. E' un bizzarro oggetto cinematografico infine Honeygiver Among the Dogs (Munmo Tashi Khyidron), di Decher Roder. Tra le montagne boscose e nebbiose del Buthan e i suoi centri urbani si dipana un racconto che è di volta in volta road movie, commedia sentimentale, giallo (la trama si avvolge sul caso di una badessa scomparsa, forse assassinata, e sulle indagini di un giovane detective che si mette alle calcagna di un affascinante sospettata), il tutto spruzzato di misticismo buddista. Quindi paesaggi, schermaglie tra i due, femme fatale, visioni oniriche, indagini, colpo di scena, resa dei conti. Forse con un po' di stringatezza in più e nella mani di un regista più visionario avrebbe potuto diventare (a suo modo) un cult...
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Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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