LA TENEREZZA di Gianni AmelioLeggo autorevoli recensioni positive e rimango perplesso. A volte il diavolo si nasconde nei dettagli, e qualcosa mi suona stonato fin nei primi minuti di visione del film. Elena, interprete del tribunale, che accusa di mendacio l’imputato che sta traducendo, inopportunamente e senza portare motivazioni; poco dopo, in ospedale, il suo monologo al capezzale del padre infartuato, con il sottofondo sonoro della cronaca di una partita di calcio che il vicino di letto sta guardando al computer. Ma il vicino indossa le cuffiette. Perché allora quel sonoro invadente? O perché quelle cuffiette? Ovvero, perché quell’incoerenza tra ciò che si vede e ciò che si vede? Dettagli stonati, incongruenti: perdonabili, certo, non fosse che diventano però la cifra dell’intero film. Il soggetto è firmato da Lorenzo Marone, ed è tratto dal suo libro “La tentazione di essere felici” (che non ho letto, ma rispetto al quale il trattamento cinematografico mi sembra si sia preso diverse libertà). Gianni Amelio deve avervi trovato diversi motivi d’interesse: dal rapporto padre/figli (che è un tema ricorrente nella sua filmografia più riuscita e toccante, da Colpire al cuore a Lamerica a Le chiavi di casa, e profondamente radicato nella sua dolorosa biografia infantile) alla consonanza anagrafica con il protagonista del film. Ma nella stesura della sceneggiatura, ad opera dello stesso Amelio e di Alberto Taraglio (già suo collaboratore per I ragazzi di via Panisperna e Così ridevano), qualcosa non ha funzionato. Il film innesta una serie di conflitti: del misantropo protagonista (Renato Carpentieri, ingiustamente arretrato però nei credit e la cui immagine senile è addirittura cancellata nelle comunicazioni pubblicitarie a favore dei più giovani colleghi) con i figli, ma anche con la moglie (deceduta anni prima per il dolore del tradimento) e con l’amante; tra fratelli; tra bambini e adulti; tra il vicino di casa Fabio e il resto del mondo; e così via fino ai personaggi di contorno. Dopodiché inizia un doloroso percorso che, attraverso il confronto e la resa dei conti con il passato, possa redimere un presente deludente o addirittura straziante, fino a cercare la possibilità, tardiva ma ancora possibile, di una residua tenerezza futura. Se all’inizio Lorenzo nel suo letto d’ospedale finge di non sentire il monologo che la figlia Elena gli rivolge cercando di ristabilire un legame spezzato, gli ultimi fotogrammi, dopo l’attraversamento dell’odissea tragica della giovane vicina Michela, nei confronti della quale l’anziano Lorenzo aveva sentito rinascere affetti paterni, ci lasciano l’immagine della mano del padre e della figlia che si cercano e, silenziosamente, si ritrovano. E’ la stessa Elena, traduttrice ed interprete, a dire nel film che le parole sole non bastano, e che bisognerebbe interpretare anche il tono della voce, le espressioni, i silenzi. Ma le parole dei personaggi del film, purtroppo, sembrano essere tutte sbagliate. Che siano apodittici giudizi sul rapporto padre/figli sparate a caso da Michela bevendo un bicchiere di rosso, o le citazioni di poeti arabi pronunciate incongruamente da Elena che pensa ai fatti propri parlando al microfono del tribunale, alle frasi fasulle messe in bocca ai bambini acidi del film, ai racconti della madre che abbraccia il figlio quando questi le racconta di aver spinto un compagno in un burrone, ma lo schiaffeggia quando anni dopo ritratta, non c’è parola o reazione dei personaggi che suoni naturale o coerente. L’esemplificazione sarebbe lunga, oziosa e pedissequa (se mi scrivete posso mandarvi una lista), ma le stonature risuonano in ogni dialogo, in ogni sequenza, in ogni movimento di sceneggiatura, a tutti i livelli, dal dettaglio più trascurabile agli snodi che investono direttamente le motivazioni fondamentali e i comportamenti dei personaggi principali. Forse il tentativo era quello di evitare l’ovvio, il facile naturalismo, il convenzionale. Ma l’esito non attinge a profondità o a una coraggiosa radicalità o a un sincero scavo nei sentimenti. Non a mio parere almeno. Bensì alla costruzione di un mondo fasullo, in cui momento per momento si rinuncia a cedere a un’identificazione con i personaggi e a una reale partecipazione emotiva alla vicenda, puntualmente scoraggiati dall’intima inverosimiglianza di dialoghi e comportamenti. Spiace, oltre che per noi che siamo andati a vedere il film e per Amelio, autore verso il quale nutro grande stima, per lo straordinario parco di attori coinvolto, dallo stesso Carpinteri, ad alcuni dei più bei nomi del cinema italiano, come la Mezzogiorno, la Ramazzotti, Germano, che talvolta danno l’impressione (sull’imprinting della scena iniziale all’ospedale tra Elena e Lorenzo) di recitare in autonomia le nevrosi dei rispettivi personaggi, stentando ad entrare in una reale interazione con gli altri. A tutti loro l’onore delle armi, così come alla fotografia dell’immarcescibile Luca Bigazzi, e all’ambientazione in una Napoli che tenderebbe a diventare un’altra coprotagonista del film, ma in cui si muovono protagonisti almeno per tre quarti non partenopei.
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OLTRE LE NUVOLE - IL LUOGO PROMESSOCI di Makoto ShinkaiMakoto Shinkai è considerato l’erede di Miyazaki nel mondo dell’anime giapponese. Il suo primo lungometraggio, Oltre le nuvole – Il luogo promessoci, datato 2004, approda sui nostri schermi solo dopo il successo ottenuto dal suo Your name, entrambi distribuiti da Nexodigital. Raccontare la trama di Oltre le nuvole è molto difficile, e io non ho capito tutto. C’è l’amicizia di tre ragazzi, un Giappone diviso in due dopo la guerra, una torre enigmatica oltre confine che raggiunge il cielo, sogni, mondi che sognano altri mondi, ragazze in coma che sognano a loro volta universi paralleli, intrighi internazionali, segnali di guerra, strane fabbriche, esperimenti scientifici, e poi bombe, aerei. Ma tutto parte, e in fondo tutto torna, a una di quelle estati incantate che si vivono solo quando si è giovani, quando si stringono amicizie e nascono amori che dureranno per sempre, quando si fanno promesse per il futuro che, mantenute o no, non si dimenticheranno più. E’ una narrazione che mescola fantascienza distopica e lirismo, avvenimenti oscuri e sentimenti, dimensione onirica e proiezioni parascientifiche. Io, dopo qualche sforzo iniziale, ho fatto così: a un certo punto ho rinunciato a seguire la storia, piena di ellissi brusche e disomogenee, ho cercato di scollegare le orecchie dalla colonna musicale invadente e spesso molesta, e mi sono goduto la visione del film. Perché visivamente Oltre le nuvole è un grande film. Ovvero, il disegno e l’animazione dei personaggi umani è quella tipica dei manga, semplice e stereotipata, ma la descrizione visiva e cromatica dei paesaggi e dei contesti, di carattere invece pittorico, è di grande suggestione. La trattazione della luce è stata una dei punti di innovazione dell’animazione giapponese, a cominciare dalle serie robotiche degli anni ’70. Ma qui la luce diventa una magnifica ossessione, l’oggetto di una ricerca costante, maniacale, che porta a esplorarla in tutte le sue declinazioni. La luce atmosferica, nelle diverse ore del giorno e nelle diverse condizioni metereologiche, l’illuminazione artificiale, e poi tutto quello che riuscite a immaginarvi: il gioco delle luci e delle ombre, le vibrazioni della luce nel movimento, i riflessi, i barbagli, gli scintillii, i bagliori, i luccicori, gli scoppi, i lampi che animano il ventre delle nuvole o ne stagliano i bordi, il sole che tramonta, il cielo che emana luce di pioggia o di neve, l’acqua, il metallo, gli schermi dei computer, e tutto quanto non so elencare a parole. E’ una festa per gli occhi, da gustare anche se, come me, decidete di scollegare cervello e orecchie. La regia di Shinkai gioca poi anche con i tagli delle inquadrature, molto “cinematografici” e non necessariamente asserviti alla lettura delle immagini e degli eventi; il ritmo visivo è sincopato e diseguale, con un montaggio serrato che gioca a volte sull’intravedere più che sul vedere, alternato a sequenze apparentemente più statiche ma sempre percorse da una tensione continua, con l’inquadratura che slitta spesso di lato, in modo il più delle volte quasi impercettibile. Alla fine, nel volo intorno alla torre, il gioco si fa astratto, con l’alternarsi delle superfici Il titolo contiene già un riferimento al cielo e a un altrove utopico. Oltre le nuvole ci regala in effetti alcuni tra i più bei cieli visti al cinema, con inquadrature basse che esaltano la vastità della volta celeste, dove il sole e le nuvole, le ombre e le luci, le scie che lo solcano nella sua altezza o l’esile profilo della torre che sfugge alla gravità terrena dipingono immagini grandiose che si imprimono nei nostri occhi e in qualche modo nella nostra anima. Se c’è un luogo promesso in cui Shinkai riesce a trasportarci, è il mondo della luce. LIBERE, DISOBBEDIENTI, INNAMORATE di Maysaloun HamoudCerto, in un film così conta di più il messaggio politico che quello strettamente cinematografico. Il tema si impone da sé: protagoniste sono tre donne palestinesi in Israele, soggette quindi a una doppia discriminazione, sessuale e etnica (benché quest’aspetto sia decisamente secondario, relegato alle poche battute sull’improbabilità di una relazione mista o nel rimbrotto del capo che non vuole che i lavoranti in cucina parlino tra loro in arabo perché questo potrebbe infastidire i clienti). Leila e Salma dividono un appartamento a Tel Aviv e vivono una vita libera e disinibita, tra look audaci o alternativi, discoteche, alcol, droghe e amori occasionali. Noor è una ragazza mussulmana velata che arriva dalla provincia e sarà loro ospite per un po’ di tempo. Sono tre giovani donne di livello sociale e culturale non basso (Leila è un avvocato, Salma è un inserviente nei ristoranti ma lavora anche come disc jockey, Noor è una studentessa di informatica), che vivono con fastidio o con disagio le costrizioni della condizione femminile in un contesto di tradizioni sociali e familiari sentite come arcaiche: Leila vorrebbe trovare un uomo che la accetti così com’è e non la costringa a cambiare il suo stile di vita per renderla “presentabile” alla propria famiglia; Salma vorrebbe vivere liberamente la propria omosessualità e Noor si accorge che il suo promesso sposo è un bigotto ipocrita autoritario e violento. Si tratta di rivendicazioni forti, di questioni che nemmeno in Occidente sono così pacificamente acquisite, e vissute con qualche contraddizioni dalle stesse protagoniste (Leila pretende di tenere una condotta alternativa ma aspira anche all’accettazione, Salma va a flirtare con la sua nuova conquista sotto il naso dei familiari – di religione cristiana – con le prevedibili conseguenze). Le tre donne (qualcuno ha compilato un’ardita equazione Tel Aviv : Libere = New York : Sex and the City) sono in between, nel mezzo, come recita il titolo internazionale, o Bar Bahar, tra terra e mare, come recita il titolo originale: sospese tra modernità e tradizione, tra libertà e convenzioni, tra l’aspirazione a compiere le proprie scelte e il pericolo di subire imposizioni e divieti. Nell’emblematica inquadratura finale le vediamo sedute fianco a fianco, diverse l’una dall’altra eppure avvicinate da un sentire comune, sedute sul bordo di una terrazza sul tetto, i piedi ciondoloni, con in mano i loro drink e sul viso espressioni perplesse. Il futuro è incerto, la strada da compiere è ancora lunga; ma loro ormai si sono già incamminate. Maysaloun Hamoud è schierata senza remore dalla parte della modernità e di uno stile di vita e di pensiero occidentale (la stessa timida e inibita Noor alla fine, velo sempre in testa, è sedotta dalla musica e dalla danza di un party promiscuo), anche qualora non dovessero dare – almeno per il momento - la felicità; in patria ha anche affrontato le critiche di chi le ha rinfacciato di raccontare storie di palestinesi utilizzando finanziamenti israeliani. Dicevamo del risultato cinematografico, anche se qui sembra davvero contare relativamente. Il film ha infatti ottenuto un consenso intercontinentale, con premi vinti a Haifa, a San Sebastian, a Toronto, e sicuramente viene percepito diversamente dagli spettatori maschi (che trovano nel film omologhi maschili tutti negativi, tranne un padre comprensivo) e femmine (che trovano nel film personaggi con cui solidarizzare e simpatizzare). Ma la sceneggiatura avrebbe bisogno di una maggiore calibratura (a volte anche rispetto alle motivazioni delle scelte delle protagoniste), la regia (dell’opera prima della Hamoud) cerca la disinvoltura in scene di vita libera e selvaggia un po’ risapute e le interpreti diciamo che non sono delle campionesse di simpatia. Merita attenzione la colonna sonora, che porta alla ribalta una realtà musicale che – da incompetenti - non ci aspetteremmo, afflitti dagli stereotipi attraverso i quali guardiamo di solito al mondo arabo, che spazia dall’hip hop all’electro-folk, in cui sonorità, ritmi e strumentazioni contemporanei entrano in cortocircuito con matrici arabe della tradizione, con la presenza di artisti quali i Dam (palestinesi attivi in Israele), o Yasmine Hamdam, libanese, già presente nella colonna sonora di Solo gli amanti sopravvivono di Jarmusch e sposata con il regista palestinese Elia Suleiman. MAL DI PIETRE di Nicole GarciaIl prologo è intrigante: nella sequenza del viaggio in auto bastano le inquadrature di pochi dettagli per restituire immediatamente il sapore di un’epoca. Poco dopo, parte il racconto in flashback della storia di Gabrielle, alle prese con la prepotente scoperta del desiderio sessuale che sconvolge i suoi sensi e la sua mente: in una campagna estiva alla quale fa da costante sottofondo il frinire delle cicale e di cui sembra quasi di poter percepire i profumi si fa accarezzare intimamente dalle acque del fiume, si fa intravedere nuda alla finestra dai lavoranti della famiglia, nuda scrive febbrili lettere di passione erotica (in un connubio nudità-scrittura-passione che la assimila all’Antonia Pozzi del film di Cito Filomarino) ad un maestro di paese che non la desidera e la teme. Quando la famiglia giudicando sconvenienti i suoi comportamenti combina il matrimonio con un operaio catalano, la vita di Gabrielle si complica, e così quella del film. Lei si nega al nuovo marito; e quando finalmente gli si offre, ma in tenuta da bordello e chiedendogli il pagamento della prestazione, siamo subito sull’orlo del ridicolo involontario. L’impostazione impressionistica della prima parte prende poi una piega da melodramma amoroso da sanatorio quando Gabrielle, afflitta da calcoli renali e ricoverata in una clinica sulle Alpi svizzere, allaccia, dopo una prima resistenza da parte di lui, una bollente relazione con un bel tenebroso, tutta iscritta sotto le insegne di Eros e Thanatos. Se Gabrielle e Andrè (Sauvage!) si incontrano sul comune terreno della malattia, della sofferenza, sotto l’ala della morte incombente, in effetti Gabrielle sembra desiderare solo chi la rifiuta, e rifiutare chi la ama. Il rischio, per il film, è però quello di trasformare una possibile eroina protofemminista che rivendica il diritto al desiderio femminile, anche opponendosi violentemente contro le convenzioni socialmente accettate, a una molesta stalker insensibile e anaffettiva, cedevole alle lusinghe del fascino esotico del reduce dalla guerra indocinese, ma cieca all’amore concreto dell’esule della Guerra civile spagnola che, nonostante tutto, le sta accanto. Lo spettatore sopporta cercando di concentrarsi sul viso e sul corpo della Cotillard, che soli sembrano in grado di conferire un senso alla storia, prima di venire definitivamente stroncato dal finale del lungo flashback: in cui si scopre che abbiamo rivissuto la vicenda attraverso il filtro dell’immaginazione e della memoria di Gabrielle, e che le cose non stanno esattamente come sembravano; anzi, il colpo di scena melodrammatico è tale da cambiare retroattivamente addirittura lo stesso genere di appartenenza del film. Prima di arrivare a conclusione, necessita quindi sorbirsi un altro flashback esplicativo, più breve, che spieghi ai meno perspicaci come sono andate veramente le cose. A quanto ho capito (non avendo letto l’omonimo romanzo all’origine del film, firmato dalla scrittrice sarda Milena Agus), la Garcia si è presa parecchie libertà rispetto alla sua fonte, non solo spostando le coordinate geostoriche, ma alterando il meccanismo narrativo stesso del testo, trasformando quella che nel libro era un’invenzione letteraria, mediata da una prospettiva narratologica (che infatti necessitava di una voce narrante terza), in un’allucinazione alle soglie della patologia psichica. Su tutto il racconto e su tutti i paesaggi (dalla campagna provenzale al mare Mediterraneo alle montagne alpine) Garcia e il suo direttore della fotografia, Christophe Beaucarne, spandono una patina vintage, che desatura i colori in un impasto opaco ad evocare gli anni ’50 sessualmente repressi. Se Philippe Garrel nel suo personaggio romantico e malato risulta un po’ manierista, Alejandro Brendemühl riesce invece nell’impresa di dare dignità a un personaggio debole e dalla pazienza innaturale. Ma a dominare il film con un magnetismo irresistibile è Marion Cotillard, una delle attrici più duttili, eclettiche, generose e sensibili della sua generazione (capace di recitare senza gambe in Un sapore di ruggine e ossa come di sopportare la camera inflessibile dei Dardenne lungo Due giorni e una notte, di incarnare lo scricciolo Edith Piaf come la feroce dark lady sposa di Macbeth); per lei si guarda il film, benché, a ben guardare, sia già troppo in là con l’età per una parte che faceva pensare ad una ragazza adolescente o poco più (anche se la protagonista del libro ha superato la trentina...). L'ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA di Aki KaurismakiKaurismaki è sempre stato interessato e solidale con i diversi, fossero gli strani Leningrad Cowboys dai capelli e dalla scarpe a punta, o la piccola fiammiferaia da fiaba nordica, o il lunatico suicida indeciso che affitta un killer per farsi uccidere, o i ristoratori sfortunati di Nuvole in viaggio. Dal suo ultimo film, Miracolo a Le Havre, si sono aggiunti ai diversi più o meno autoctoni (già Vita da bohème raccontava ad esempio di immigrati di varia nazionalità) gli ultimi contemporanei, gli stranieri, i profughi, i clandestini, gli irregolari, o comunque li si voglia chiamare, in una declinazione terminologica che spesso acquista un’immediata sfumatura semantica e ideologica. A costoro appartiene Khaled, che all’inizio del film, in una delle sequenze a più alto tasso simbolico, erge la testa e poi emerge completamente da un mucchio di carbone, il corpo e il viso coperti da fuliggine nera. Arrivato casualmente in Finlandia su una nave-cargo, non si nasconde e decide di chiedere asilo. Nelle sequenze più politiche del film, solo il quasi impercettibile trasalimento delle sopracciglia dell’addetta all’intervista al profugo - che racconta della guerra, dei cadaveri dei propri cari estratti dalle macerie della propria casa (proprio come lui è “rinato” dal mucchio di carbone), del lungo viaggio pieno di dolore e di insidie da Aleppo a Helsinki, della sorella smarrita lungo il percorso, delle violenze e delle ingiustizie subite - tradisce una minima partecipazione emotiva alla sua vicenda umana. Il visto gli sarà negato, poiché la burocrazia finlandese ritiene che nella Siria martoriata la situazione non sia poi così e grave e pericolosa; salvo poi assistere nella sequenza immediatamente successiva all’accorato resoconto telegiornalistico dei lutti e delle distruzioni che affliggono il paese sconvolto da una sanguinosissima guerra civile. Ma simbologia e politica a parte, declinate tuttavia anch’esse nel laconico stile del regista, il resto è puro Kaurismaki, ossia poche parole, ambienti dimessi, facce antidivistiche (solo nel suo cinema potete trovare facce così, o magari in qualche vecchio polar francese), blues in versione baltico-scandinava, personaggi lunari, umorismo surreale e umanità. “Non ho ancora capito se devo ridere o se devo piangere” dice Khaled all’amico che gli consiglia, per farsi accettare, di non farsi vedere troppo depresso, in una scena ripresa anche nel trailer. Effettivamente gli spettatori sono indotti a fare tutte e due le cose, alla Kaurismaki, piangendo a ciglio asciutto e ridendo a denti stretti, assistendo alla storia di una sorta di adozione del profugo (Sherwan Haji, che è veramente un profugo siriano) da parte di Waldemar Wikstrom (Sakari Kuosmanen, attore già noto ai cultori del regista finlandese), un ex-rappresentante di camicie che dopo aver lasciato la moglie senza proferire parola e aver vinto a poker una somma importante si improvvisa gestore di un ristorante (ravintola, nell’ugro-finnica lingua del posto) a Helsinki, trascinandosi dietro tre improbabili lavoranti, che passano dal servire a clienti poco esigenti sardine in scatola a cimentarsi, con kimono e bandane, con una versione autoctona del sushi, sfortunatamente servito a un’intera comitiva di giapponesi autentici. Ma quello che interessa al regista (che ha vinto l’Orso d’argento a Berlino ma si aspettava l’Orso d’oro), è raccontare ancora una volta una storia di incontro umano malgrado le differenze di lingue e di culture; di solidarietà attiva e senza fronzoli. Sono sentimenti dichiaratamente inattuali, come il suo cinema girato ancora in pellicola, come i suoi ritmi desueti, come le ambientazioni, il decor e l’abbigliamento dei suoi personaggi, che fanno sembrare le sue storie che parlano dell’oggi situate in decenni passati. Un cinema orgoglioso di andare in direzione ostinata e contraria, in cui di Waldemar, come del pescatore di De André, si potrebbe dire che non si guardò neppure intorno, ma versò il vino e spezzò il pane per chi diceva “ho sete, ho fame”. IL VIAGGIO - THE JOURNEY di Nick HammIl viaggio racconta uno iato storico, una brevissima parentesi di tempo (la narrazione si avvicina al tempo reale) in cui è maturata una decisione di portata storica per due Paesi e per milioni di persone. Dopo anni di guerra civile nell’Irlanda del Nord, con vittime militari e civili (i morti si contano a migliaia, i feriti in decine di migliaia), sanguinosi attentati, imprigionamenti, scioperi della fame, Ian Paisley, fondatore della Libera chiesa Presbiteriana e del Partito Unionista, il Mister No che si era sempre opposto a qualsiasi trattativa con gli avversari e che aveva definito il papa cattolico “l’Anticristo”, e Martin McGuinness, uno dei comandanti militari in capo dell’Ira e poi rappresentante dello Sinn Féin, il braccio politico degli indipendentisti irlandesi, si ritrovano in Scozia, a St Andrews, nella primavera del 2006, sotto l’ala di Tony Blair, per discutere di un possibile accordo di pace. Le circostanze li porteranno a condividere la stessa automobile, che li deve portare da St Andrews all’aeroporto di Edimburgo, a qualche decina di miglia di distanza. Il film ipotizza che sia proprio durante questo breve tragitto che i due uomini, che non si sono mai scambiati una parola in 30 anni, maturino la propensione definitiva, particolarmente caldeggiata dall’irlandese, di arrivare a un accordo che ponga fine alla catena infinita di violenza sanguinosa. L’accordo si fece, Paisley divenne primo ministro, McGuinness il suo vice e tra i due nemici maturò addirittura una proverbiale amicizia durata fino alla morte. Anche se nel film tutto il viaggio è spiato e osservato a distanza da Blair, dai servizi segreti e dai rappresentanti delle due parti in causa, tutti diversamente e a vario titolo trepidanti e preoccupati per la sorte dell’incontro, nessuno sa veramente cosa si dissero i due in quelle poche ore; il regista Nick Hamm non ha avuto informazioni neppure da McGuinness, da lui incontrato personalmente, che è morto una dozzina di giorni fa, nel marzo di quest’anno. A parte l’interesse storico per la vicenda e la funzione didattica che ci rinfresca la memoria su una delle tragedie che ha interessato la vecchia Europa negli ultimi decenni - oggi non completamente risolta ma almeno resa incruenta - il film non si impegna in particolari sforzi cinematografici, limitandosi a mettere in scena un cinema di parola, che avrebbe potuto stare tutto in definitiva sopra un palcoscenico teatrale. Paisley è un fanatico religioso intransigente, colpevole di un’ostinata intolleranza; su McGuinness pesano i morti provocati dal terrorismo dell’Ira, nell’ambito di una guerra civile dove a morire erano spesso incolpevoli civili: i due per tutto l’arco del film si rinfacciano i rispettivi torti, finché la caparbia costanza di McGuinness riesce a far breccia nella corazza del nemico nell’ultimo scontro, che ha in palio non la morte ma la pace. In genere in questo tipo di film contano moltissimo gli attori: in questo caso chi ne esce meglio è l’irlandese Colm Meaney, misurato e convincente; Timothy Spall, forse anche a causa della sua fisionomia molto particolare, è a volte più caratterista che attore (non mi aveva fatto impazzire neppure nel celebrato Turner), e qui in certi momenti e espressioni, incongruamente, ricorda molto il nostro Teocoli; Toby Stephens è infine una presenza piuttosto incolore. Non brilla neppure la sceneggiatura, che pur nella linearità della narrazione, che si tenta appunto di variare senza molto successo con il controcanto dei “voyeur” che controllano il viaggio, allinea diverse incongruenze, dall’autista finto ingenuo, alla dinamica degli intoppi del viaggio, dalla deviazione che spedisce senza scorta i due pericolosi rivali ina foresta, all’incidente col solito cervo. Quando poi nel corso di questo viaggio così delicato e scabroso la benzina finisce e nessuno dei tre ha né una carta di credito né qualche spicciolo per fare rifornimento, viene proprio da pensare che beh, forse anche al film serviva un po’ di benzina in più. ELLE di Paul VerhoevenSolo Isabelle Huppert, forse, poteva incarnare (e sorpassata ormai la soglia dei 60 anni) un ruolo così scabroso, ambiguo, amorale come quello di Michèle, la protagonista di Elle, intorno alla quale, come il titolo esplicita e preannuncia, tutto ruota. Volitiva anche nell’autolesionismo (vedi un altro ruolo estremo come quello de La pianista per Haneke), la Michèle di Elle, al contrario di un’altra antieroina di Verhoeven, la Catherine di Basic Instinct, che è una manipolatrice attiva, è una manipolatrice passiva, al centro di una ragnatela concentrica di desideri. Tutti i personaggi maschili (per le donne il discorso sarebbe diverso; i loro percorsi desideranti sembrano più indipendenti e in parte divergenti) ruotano intorno a lei, magari seduti a uno stessa tavolata: il suo ex-marito, il suo amante, il suo vicino di casa corteggiato e corteggiatore, il suo figlio immaturo e dipendente, i suoi dipendenti che la amano e/o la odiano (anche contemporaneamente), e perfino il suo stupratore, che, si intuisce, deve essere ricercato tra costoro. Il discorso sul genere sessuale si mescola a quello sul genere cinematografico: Elle ha una maschera da thriller indossata con disinvoltura su un corpo da commedia borghese (con il corollario di separazioni, tradimenti, problemi e riti famigliari, dissidi suocera-nuora, ecc.). Quanto poco sia centrale il “giallo” incentrato sulla scoperta dello stupratore mascherato, che ancora prima che inizino a scorrere le immagini del film ha iniziato la sua aggressione contro Michèle, nella sua stessa casa violata, è dimostrato dall’uso che si fa delle armi: pur presenti in varietà (martelli, accette, spray al peperoncino, pistole, 357 magnum), o non vengono usate o vengono usate a sproposito. Tutte le regole del genere sono disattese: non c’è indagine, né personale né poliziesca; l’identità del colpevole non costituisce il colpo di scena finale e il suo movente rimane indefinito; i traumi del passato non spiegano in maniera causale i comportamenti del presente; né la vendetta né la giustizia costituiscono il fine dell’azione principale. Eppure c’è una logica: il giallo è per essenza un racconto morale, dove l’innocente deve essere salvato o protetto e il colpevole deve essere individuato e punito dall’uomo o dalla società. Ma Elle (tratto dal romanzo “Oh...” di Philippe Djian) non finge neppure di essere un racconto morale. La sua linea di discendenza è quella che dal cinema perverso, scopofilo e necrofilo di Hitchcock (tra musiche herrmanniane, cannocchiali puntati alla finestra sul cortile e scantinati psycotici le citazioni non mancano) arriva a quello di De Palma, per approdare con Verhoeven a questa normalizzazione da buona borghesia. La morale di Elle è quella dei videogiochi prodotti con largo successo da Michèle, dove mostri pilotati col joystick perforano con tentacoli fallici il cervello delle vittime o le possiedono sessualmente, dando iconicità a desideri inconfessabili: il sesso e la violenza sono l’oggetto del desiderio, esprimono fondamentali esigenze umane, orientano azioni e comportamenti di uomini e donne. Nessuno dei personaggi di Elle agisce per principi morali (nemmeno in presenza di ingombranti simboli religiosi, cari al regista olandese fin dai tempi de Il quarto uomo, già dominato dalla presenza di una vedova nera fatale e letale), ma spinti solo da accecanti desideri. Michèle, tra tutti, vaccinata dall’orrore vissuto in prima persona in gioventù, sembra quella che ha più possibilità di gestirli al meglio, di amministrarli dando tempo e spazio adeguati e in qualche modo controllabile a quello che per natura controllabile e disciplinabile non è. A dominare, è un rapporto in definitiva economico. A regolare tutto è l’economia della libido; nel mondo perverso polimorfo ma normalizzato di Elle c’è posto per tutti i desideri, anche i più turpi e inammissibili: l’unico problema, semmai, è di mettere d’accordo l’offerta con la domanda. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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