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HOLLYBLOOG
cosa c'è in giro da vedere

a cura di Mauro Caron

I REGISTI NEI LABIRINTI

11/13/2019

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IL SIGNOR DIAVOLO di Pupi Avati e
​L'UOMO NEL LABIRINTO di Donato Carrisi

Nella prima parte della stagione cinematografica in corso sono usciti due film italiani, Il signor diavolo e L'uomo del labirinto, che possono iscriversi genericamente nella categoria dell'horror, e che presentano tra loro analogie e differenze.
Lo status degli autori è molto differente. Il regista del primo, Pupi Avati, ex-aspirante musicista, è autore di una vastissima filmografia, che comprende una quarantina di film per il cinema oltre a film e miniserie per la televisione. Il secondo è uno scrittore pluripremiato e di successo, che si cimenta per la seconda volta con la regia cinematografica. Un regista quindi con una vastissima esperienza, ed un altro con esperienza di narrazione ma ai primi passi nel racconto cinematografico.
Diverse sono poi le fonti d'ispirazione e, forse, le ambizioni delle due opere: locali (ma con possibili aspirazioni glocal) nel primo caso, internazionali e cosmopolite per il secondo. Pupi Avati colloca il suo film nel pieno della tradizione del gotico padano che lui stesso ha creato (l'opera fondatrice è La finestra delle case che ridono), giocando ancora una volta sull'effetto di straniamento che produce l'ambientazione di una storia truce nel contesto dall'immaginario tradizionalmente bonario e domestico della Bassa padana. Il signor diavolo è innestato in un contesto storico, politico, culturale e geografico preciso. Siamo nel 1952, in un'Italia dominato dalla Democrazia Cristiana, in un paese in prossimità del delta del Po, in un ambiente rurale.
L'uomo del labirinto, al contrario (ancora una volta, come nel film precedente, “tratto da un bestseller internazionale”, come recitano immodestamente i titoli di testa) è ambientato in un generico tempo presente, in un luogo imprecisato vagamente americaneggiante, dove i nomi dei personaggi (sembra di essere in un album di Diabolik) sono concepiti apposta per mantenere l'ambiguità sulla loro nazionalità. Passepartout per aprirsi ad un pubblico globale appare poi la partecipazione di una star planetaria come Dustin Hoffman, che ha creduto tanto nel progetto da esserne addirittura uno dei produttori esecutivi.
Se il film di Pupi Avati rimanda ad una tradizione strettamente d'autore (il film - sceneggiato e prodotto in famiglia dallo stesso Pupi insieme al fratello Antonio - ha qualche punto in comune con il romanzo Mal'aria di Eraldo Baldini, un esempio letterario di gotico padano), quello di Carrisi esibisce altre ascendenze figurative e narrative, che vanno da Seven al filone del torture porn, dai conigli di Lynch a quello di Donnie Darko (anche se Carrisi cita tra le sue fonti d'ispirazione il Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie).
Entrambi i film hanno forti motivi di interesse. Il signor diavolo dipinge la sua storia di possessione demoniaca su una suggestiva tela di fondo impastata di politica, religione, superstizione, ambientazione provinciale e rurale. Molto pregevole la ricerca paesistica e ambientale, su orizzonti piatti (antigotici, in effetti) ma inquietanti, dove il maligno si può nascondere in una porcilaia e una molla dell'orrore è un ragazzino che calpesta involontariamente un'ostia durante la comunione. Avati coinvolge inoltre la propria fida compagnia di giro, con Capolicchio, Gravina, Haber, ecc., alla quale affida una serie di maschere (spesso in abiti religiosi) molto efficaci. Paesaggi, ambienti e personaggi sono poi ripresi con la fotografia scabra e desaturata di Cesare Bastelli, altro collaboratore storico del regista, estremamente funzionale alla rappresentazione di un universo arcaico, pauperistico e dove il male permea - oltre ai casolari, alle chiese, agli ospedali - anche cieli, campagne, e acque stagnanti.
Anche L'uomo del labirinto presenta alcuni motivi di interesse, e segna a mio parere un passo avanti del Carrisi regista rispetto al precedente La ragazza nella nebbia. Motivi positivi da individuare nell'ambizione di una storia articolata e complessa, nell'atmosfera generale di malsana inquietudine ottenuta senza ricorrere al gore (nel film si contano solo un paio di delitti, compiuti sempre fuori scena), nell'utilizzo di elementi prelevati dal mondo delle fiabe, dove l'immagine più innocente può presentare un risvolto dark.
Eppure entrambi i film presentano anche aspetti che collocherei sotto l'insegna comune della goffaggine.
Avati la goffaggine l'ha da sempre inserita nella propria poetica, nel tentativo di conferire ai propri personaggi, anche a quelli più discutibili, un'aura di ingenuità e di purezza. Dopo 40 e passa film però la ricerca della naïveté si trasforma inevitabilmente in manierismo, e si rivela spesso in una recitazione sotto le righe ma a volte anche sotto le aspettative. I ruoli secondari paradossalmente funzionano meglio che quelli principali, e poco azzeccati mi sono sembrati anche tutti i giovanissimi interpreti.
Anche la scrittura e la regia a volte sembrano sbandare. Nel prologo l'episodio atroce che incardina la narrazione è introdotto in un ambiente in penombra, con un sinistro carillon che suona e la porta che inevitabilmente scricchiola: sembra che Avati più che a scioccarci con una scena di crudeltà improvvisa miri a introdurci negli stereotipi del film di genere. Non mancano sbavature nel racconto (la morte del padre del ragazzino è un episodio assurdo cui non si tenta nemmeno di fornire uno straccio di spiegazione) e trovate registiche cheap (qualche flashback di mero servizio, qualche ralenti inopportuno) e anche il finale arriva un po' bruscamente a troncare la narrazione, dopo un racconto piuttosto parattatico ed episodico (nonché diviso in due, con un primo tempo avvitato in un doppio flashback che si interrompe a metà del film) senza che sia stato costruito un adeguato crescendo della tensione.
Difetti analoghi si riscontrano ne L'uomo del labirinto. Il desiderio di stupire di Carrisi lo porta a costruire una doppia narrazione, che manca però di necessità. Senza voler raccontare troppo, diciamo che il legame tra le due storie si rivela alla fine quanto meno labile (e per vedere Hoffman e Servillo nella stessa sequenza dovrete aspettare veramente tanto). Se la vicenda della ragazza in ospedale interrogata dal profiler ha una sua doppia linearità (anche qui si alternano tempo presente e flashback della prigionia), piuttosto confuso appare il racconto dell'indagine di Genko, tra inspiegabilissime premonizioni oniriche e l'altrettanto inspiegabilissimo loro avverarsi (penso all'irruzione delle forze speciali con esplosioni e lanci di lacrimogeni in un innocuo bar di sfigati in mezzo ai boschi), o episodi eclatanti ma senza necessità narrativa (come l'omicidio di un'amica del protagonista, in una casa che non sarebbe dispiaciuta a Dario Argento). Va bene che siamo in un labirinto, ma alcuni vicoli ciechi potevano e dovevano essere evitati.
Se i contributi tecnici (fotografia, sonoro, montaggio) sono all'altezza delle ambizioni, note dolenti vengono dal reparto interpreti: Toni Servillo è sempre a rischio istrionismo, ma un poco più controllato rispetto all'interpretazione senza freni de La ragazza nella nebbia, e Hoffman si concede un'interpretazione sorniona e bonaria (in modo perfino sospetto) tutto sommato piuttosto monocorde. Assai peggio se ci si sposta al resto del reparto, con una serie di performance che vanno dal mediocre all'imbarazzante.
Grazie per averci provato, ma l'horror italiano ha bisogno di qualche altra rifinitura.
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LINEA NOIR

9/6/2019

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5 E' IL NUMERO PERFETTO di Igort (Igor Tuveri)

Igort ha fatto di tutto. E' fumettista, illustratore, designer, musicista, cantante, compositore, conduttore radiofonico, romanziere, sceneggiatore, fondatore di case editrici (Coconino Press) e di avanguardie artistiche (Valvoline), direttore di giornali (Linus); è uno che è di casa a Bologna come a Parigi o a Tokyo; è uno che ha collaborato con Sakamoto e con Murakami, con Corsicato e con Sampayo, che ha esposto alla Biennale di Venezia e disegnato per la Swatch; che ha raccontato il punk e Fats Waller, Warhol e la Politkovskaja, il Giappone o l'Ucraina.
Naturale quindi che quando Toni Servillo gli suggerì una trasposizione della sua graphic novel noir 5 è il numero perfetto (2002), alla fine l'onere e l'onore della regia del film che racconta la storia di Peppino Lo Cicero, sicario gregario della camorra che torna sulla ribalta criminale dopo che il suo figlio d'arte viene ucciso sul lavoro, li caricasse sulle sue possenti ed eclettiche spalle.
5 è dunque un film personale e d'autore in tutti i sensi, dal momento che Igort (il vero nome è Igor Tuveri) ha non solo scritto il testo da cui è tratto, ma ne aveva già immaginato e realizzato tutto l'originario impianto visivo. Non occorre qui tornare sulle analogie tra cinema e fumetto (la compresenza di immagini e parole, il linguaggio fatto di découpage, montaggio ritmato e articolato in sequenze, inquadrature, piani, ecc.). Tra tutti gli ormai innumerevoli casi di traduzioni dal fumetto al cinema, 5 vanta però un ascendente diretto, con numerose analogie: si tratta di Sin City, graphic novel (in più episodi) scritta e disegnata da Frank Miller, che poi ha co-sceneggiato e co-diretto (con Robert Rodriguez) i film che ne sono stati tratti. Non è solo il processo creativo e produttivo ad accomunare i film di Igort e di Miller: in entrambi i casi si tratta di noir metropolitani, la cui scintilla narrativa è fornita dalla volontà di vendetta del protagonista all'interno di contesti criminali, e in cui lo stile cinematografico si propone di riprodurre rigorosamente (sia pure in live action) le atmosfere e l'impianto grafico del fumetto. Sia l'uno che l'altro partono da una bicromia spigolosa e piatta, quasi priva di sfumature e di colore, con un'esasperazione della resa grafica della violenza.
In 5 (e l'impostazione è dichiarata nelle sequenze della titolazione dei capitoli, che rievocano anche le mitiche prime pagine dello Spirit di Eisner) le sparatorie sono stilizzate e coreografate come balletti in cui si alternano e si rispondono i gesti, i colpi tirati, i corpi che cadono, il sangue digitali che sprizza all'impatto dei proiettili; e dove il bagliore degli spari rivelano gli spazi oscuri o i vuoti delle architetture.
La stessa opera di stilizzazione Igort l'ha compiuta sia sul contesto che sui personaggi. Su Napoli – che ormai può considerarsi la capitale del noir italiano, tra Gomorra, i film dei Manetti Bros e quelli di animazione di Rak, Napoli velata, Perez, ecc. - viene fatta una doppia operazioni, da una parte di stereotipizzazione (i vicoli, i cortili monumentali, la caffettiera napoletana, l'insegna delle lacrime napulitane, ecc.), dall'altra di viraggio al negativo; la Napoli di Igort è una città piovosa, buia, fredda, spopolata: la stessa processione religiosa, altro emblema di napoletanità, si svolge di notte in strade deserte, ed è l'unica scena in cui compaiono personaggi non direttamente legati all'azione drammatica. Gli stessi personaggi sono stilizzati in maniera fumettistica: nasi deformi, orbi, gobbi, pettinature afro o rock (un Mister Ics che ricorda certi personaggi delle bande dessinée alla Lucien di Margerin) sono dei marchi che trasformano i personaggi in maschere (e che ricordano la fisiognomica teratologica del Dick Tracy di Gould).
Nello stesso tempo Igor non perde l'occasione per evocare – oltre al gusto grafico dell'epoca in cui si svolge il film, il 1972, con le copertine dei libri e i manifesti pubblcitari - un immaginario cinefumettistico che appartiene agli anni della sua infanzia e giovinezza (e che, casualmente o no, declina la violenza in diverse forme): dai nerissimi (narrativamente e graficamente) fumetti italiani degli anni '60 come il Kriminal di Magnus e Bunker, contrapposti agli eroi pop, colorati e buonisti dei comics americani), ai kung fu movies che furoreggiarono sugli schermi italiani negli anni '70 (il manifesto di Cinque dita di violenza mostra una mano che tiene in palmo due bulbi oculari strappati dalle orbite), allo spaghetti western alla Sergio Leone, iconograficamente mimato nei suoi stilemi nella sequenza dello scambio di prigionieri sul tetto.
Efficacemente servito da un terzetto di attori che, al pari degli altri interpreti, accettano di farsi maschere e silhouette (un Servillo nasuto tra crudeltà e sentimentalismo noir, un Buccirosso ormai a suo agio nell'ambiente camorristico dopo i film dei Manetti e una Golino sorprendente nelle scene di sparatoria) dalle musiche vintage di D-Ross e Startuffo, dalla fotografia desaturata di Nicolaj Bruel e dalle funzionali scenografie del veterano Nello Giorgetti, 5 purtroppo perde un po' di smalto in un finale tropicale color pastello alla maniera di Loustal, dove tenta di impostare un finale che dovrebbe ribaltare la nostra prospettiva su quanto abbiamo visto, ma che non ne ha sufficiente forza né credibilità.

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MALEDETTA CULTURA

9/3/2019

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MARTIN EDEN di Pietro Marcello

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Vedo che Martin Eden è stato accolto con favore alla proiezione in Sala Grande a Venezia.
Allora sono io che non l'ho capito, perché quasi nulla (e sono tentato di togliere il “quasi”) mi ha convinto nel film di Pietro Marcello. Forse non riesco ad entrare e farmi coinvolgere dal suo tipo di cinema, che viene invece considerato innovativo, personale e originale; la sua volontà di mescolare fiction e materiale d'archivio; verismo e apologo fiabesco; documentario e racconto. E non parlo tanto delle intenzioni, che possono avere una loro legittimità, quanto della loro realizzazione cinematografica.
Mi ha destato un enorme diffidenza l'accostamento in apertura del titolo Martin Eden (con il nome mantenuto nella sua origine anglosassone, mentre i nomi di tutti gli altri personaggi, tranne uno, sono stati italianizzati) la canzone napoletana di Piccerè. Tutto il film è infatti basato su un continuo spiazzamento spazio-temporale: siamo a Napoli (mai nominata ma riconoscibilissima) anziché nella California di Jack London, in un'epoca imprecisabile che attinge elementi da un secolo o più di storia italiana. Oltretutto alle scene di finzione, costantemente ambigue nella loro collocazione storica, si alternano spezzoni d'archivio, eterogenee riprese dal vero fatte chissà dove e chissà quando, in un'Italia comunque popolare, vitale ma povera. Una tecnica del pastiche che ha il suo correlativo nella colonna sonora che miscela con stridente spregiudicatezza Debussy a Teresa De Sio, le musiche originali alla canzone napoletana.
Ma il verismo delle immagini d'archivio (che a volte indulgono anche a facili metafore, come il grande veliero che affonda nel mare come il marinaio Martin Eden, diventato forse troppo grande e pesante per potersi tenere ancora a galla nel mare della vita) stride con l'impaccio delle scene di finzione, che rimangono “teatrali” malgrado le possibilità offerte dal linguaggio cinematografico con il montaggio e l'alternanza dei piani.
Trovo difficile raccapezzarmi e cogliere un messaggio storico o filosofico o morale (dovrebbe esserci, penso, viste le premesse). I pregiudizi, le illusioni e le convenzioni borghesi si scontrano con la visione lucida e disincantata del protagonista, proletario (marinaio) che mano a mano che accresce la sua cultura e la sua capacità di lettura del mondo sviluppa una posizione intellettuale da superuomo frustrato, che vede il vero volto della società e della storia ma non riesce ad imporla agli altri uomini, che si rifiutano di ascoltare le sue dissertazioni. Però non capisco bene cosa c'entrino, accomunati nella stessa sequenza e sulla stessa spiaggia, Martin Eden, un manipolo di fascisti in camicia nera e un gruppo di immigrati di colore che sembrano uscire dalle cronache di queste ore.
Ad un film che rinuncia a priori a qualsiasi pretesa di rigore e di coerenza, forse avrebbe giovato una costruzione narrativa meno ellittica, una costruzione dei personaggi meno approssimativa. Le caratterizzazioni di questi ultimi mi hanno invece sconfortato: c'è la biondina angelica di buona famiglia con il marcato accento francese (ma perché? tutti gli altri, suoi famigliari compresi, parlano in italiano o napoletano); c'è la cameriera bruna e sincera a fare da contrappunto; c'è il tisico cinico (Carlo Cecchi) che sputa sangue nel fazzoletto e tiene la pistola suicida nell'incavo della Bibbia; c'è il napoletano buzzurro mal rasato e in canottiera; c'è perfino l'irruzione di un editore che parla un milanese da cabaret d'altri tempi. Un macchiettismo di fondo cui rischia di sfuggire solo il personaggio di Maria, la popolana che aiuta Martin Eden nella sua disperata bohème, interpretata da Carmen Pommella.
E poi c'è Martin Eden, il Martin Eden dell'elogiatissimo Marinelli, che più diventa colto e ricco e più peggiora, anche fisicamente (l'appartamento dove si consuma è invece sfarzoso e pretenzioso), avvitandosi non trattenuto in una recitazione febbricitante, esasperata e sopra le righe, finendo per sembrare un cattivo da Jeeg Robot che abbia studiato alle scuole serali. L'artista maledetto ha capelli lunghi, non si capisce se ingrigiti o ossigenati, occhiaie profondissime, denti guasti, strabuzza gli occhi mentre si lancia in concioni filosofiche (nietzchiane-spenceriane-individualiste-nichiliste), o pubbliche provocazioni intellettuali; si offende per essere stato definito “socialista” da un giornalista (che piglia a botte per strada); finisce per disprezzare gli uomini, la società, la storia, la vita e se stesso.
Alla fine si fa una nuotata in campo lungo, in un mare che identifico anche in quello del mio sconcerto. Se qualcuno ha capito altro mi spieghi.

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LA STORIA SEMPLICE DEL BOSS DEI DUE MONDI

5/29/2019

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IL TRADITORE di Marco Bellocchio

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E' un film bello e interessante Il traditore, ma non facile da definire.
Il personaggio centrale d'altra parte, nella sua apparente monoliticità, è in realtà un personaggio poliforme: boss dei due mondi, mafioso e nemico della mafia, uomo d'onore e infame, dalle identità e dai nomi multipli e variabili, che modifica il suo stesso viso con la plastica facciale
E' un film-ritratto. Tommaso Buscetta è al centro di tutto lo sviluppo drammaturgico. Le sue testimonianze sono state il punto di svolta della lotta dello Stato contro la mafia. Il film, dopo il prologo siciliano e con qualche flashback inserito nella narrazione, ne segue le vicende dall'arresto in Brasile, dove viene interrogato e torturato, all'estradizione in Italia, dove conosce il giudice Falcone, con il quale istituisce un rapporto di fiducia (e reciprocamente strumentale: il giudice usa Buscetta per combattere la criminalità organizzata, il mafioso usa Falcone anche per vendicare i figli rapiti e uccisi dal clan dei corleonesi), lo segue durante il periodo della sua collaborazione con la giustizia, nei tribunali dei processi che lo vedono accusare prima una buona fetta della mafia siciliana, poi Andreotti e figure di vertice della DC, infine nella parte finale della sua avventura umana sino alla morte. Bellocchio evita di gettare ombre sul personaggio, gli toglie ambiguità, facendo ampio credito alla sua sincerità e perfino alla sua moralità di integerrimo “uomo d'onore”, disgustato dalla nuova mafia di Totò Riina e dal traffico della droga, cui don Masino si dichiara estraneo.
Ma è anche un film corale, che mette in scena un gran numero di personaggi, e che nelle scene di confronto tra Buscetta e Calò e tra Buscetta e Riina mette protagonista e deuteragonisti sul medesimo piano di dignità drammaturgica.
E' un film storico, che documenta una fase della storia italiana, mette in scena personaggi ed eventi reali, rifacendosi presumibilmente ai verbali processuali, e finanche una rappresentazione in semisoggettiva della strage di Capaci. Come in ogni film storico che si rispetti, le didascalie ci informano, appunto didascalicamente, su luoghi e epoche dei fatti narrati.
Ma è anche un film satirico. A proposito di didascalie, non può che definirsi ironico e quasi parodistico il conta-ammazzamenti che scorre vertiginosamente e vistosamente in sovrimpressione sullo schermo, mentre la guerra di mafia fa i suoi morti a tutto schermo.
E' un film realistico, per i motivi ovvi di cui si è detto, ma è anche un film che rifiuta la mimesi pedissequa (come mostra la clamorosa mancanza di somiglianza fisica dell'attore che interpreta Giulio Andreotti).
E' un film che sfiora il genere (il mafia-movie con molti dei suoi topos), ma nello stesso tempo è un film d'autore, segnato ad esempio dalle fughe oniriche tanto care al cinema di Bellocchio.
E' un film con scene d'azione e di violenza, ma è anche un film con un netto stampo teatrale, come nelle scene del tribunale, o come denuncia l'enfasi della colonna sonora (le musiche originali sono firmate da Nicola Piovani).
E' un film dallo sviluppo narrativo piuttosto lineare, ma che non rinuncia ai flashback, come quello che all'ultimo secondo rimette tardivamente in questione il giudizio morale sul personaggio, e che si conclude in calando con un anticlimax.
Non è un film citazionista, ma si apre con una sequenza di festa che sembra un incrocio tra Il Gattopardo e Il Padrino.
E' un film da mattatore (con un Favino che ha convinto praticamente tutti e che avrebbe potuto anche degnamente vincere la Palma d'oro a Cannes, strappatagli invece dal Banderas di Amor y gloria), ma offre ottime occasioni d'attore anche ad altri interpreti, come l'irresistibile Lo Cascio nei panni di Totuccio Contorno, o Ferracane in quelli di Pippo Calò.
E' in definitiva un film vitale, che scarta dalla prevedibilità di una vicenda comunque già nota, apparentemente semplice nella sua costruzione drammaturgica ma animato da continui piccoli scarti che spiazzano leggermente lo spettatore, conducendolo attraverso un racconto già storicizzato eppure sorprendendolo continuamente con lievi torsioni.

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JEEG ROBOT CONTRO L'UOMO DEL DESTINO

5/18/2019

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IL GRANDE SPIRITO di Sergio Rubini

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Confesso che ero un po' prevenuto. L'egotismo di Rubini sommato al fintotontismo di Papaleo in salsa apulo-lucana, con un Papaleo farsesco travestito da indiano metropolitano come in un carnevale molto molto fuori stagione non mi allettavano più di tanto.
E invece.
E invece Rubini regista mescola abilmente generi e stili, fondendo la commedia di caratteri, sottogenere strana coppia, con un thriller urbano con sfumature western (pafrasando una celebre regola letterario-cinematografica, se in un film viene mostrato un tomahawk, si può stare certi che quel tomahawk prima o poi verrà usato) e allusioni sociologiche.
E invece Rubini attore può tranquillamente dare sfogo al suo ego, vincendo facile (?) nel confronto con un minorato mentale; e Papaleo può tranquillamente fare il naïf, interpretando una persona con disturbi psichici che vive arroccato su un tetto credendosi un pellerossa accerchiato dai bianchi.
Il primo, Tonino, è un rapinatore di mezza tacca, che ha fregato i complici scappando con tutto il bottino; il secondo, Renato-Cervo Nero, un fuori di testa che vive in un abbaino in cima a un tetto, dove il malvivente trova rifugio.
Il film gioca abilmente su una dialettica tutta in verticale, su linee ascendenti e discendenti, tra la strada regno di Gomorra, percorsa dalle auto della polizia e dalle gang criminali in lotta tra loro, disposte ad uccidere e a morire per denaro, potere e controllo del territorio, e i tetti, una sorta di riserva indiana assediata dall'avidità e dalla violenza, sedicenti praterie celesti dove è il Grande Spirito e non la cupidigia a governare i destini degli uomini.
Ben scritto (con uno strafalcione iniziale che mal dispone: i cattivi non solo capiscono non si sa come che il fuggitivo si è rifugiato sui tetti, ma altrettanto non-si-sa-come individuano subito l'edificio giusto), anche per le cose che lascia fuori o ai margini (il rapporto col figlio che non si sblocca, la donna dei tetti che non interviene nel finale, la tematica dell'Ilva e dell'inquinamento ambientale e morale che avvelena Taranto che rimane relegata – benché sottolineata – sulla linea dell'orizzonte), recitato in buona parte in dialetto tarantino, ben interpretato, con apporti tecnici di prima qualità, dalla fotografia (Michele D'Attanasio ha già curato tra l'altro la fotografia spaghetti-noir di Jeeg Robot, le serie Gomorra e Rocco Schiavone) alla scenografia, al montaggio, alla musica di Ludovico Einaudi, ben diretto (anche nelle scene d'azione), a Il grande spirito si può però addebitare un peccato originale e non immediatamente evidente: la non originalità.
Il rapinatore che agli occhi di una persona minorata psichicamente assurge ad una statura mitica l'avevamo già visto in un altro film italiano recente: appunto il già citato Lo chiamavano Jeeg Robot: là era la ragazza appassionata di anime giapponesi, qui lo sciroccato appassionato alla mitologia dei nativi americani; là una Roma col Tevere inquinato, qui una Taranto accerchiata dalle ciminiere; là Jeeg Robot e qui l'Uomo del destino; là il romanesco, qui il tarantino; là lo Zingaro, il Biondo, Sperma, qui il Pescatore, lo Slavo, il Grossone. Si potrebbe continuare con la ricerca delle analogie, ma mi fermo qui. D'altra parte il film di Mainetti si chiudeva con l'immagine di Jeeg Robot appollaiato su un cornicione; adesso lo sappiamo: non stava scrutando l'orizzonte, stava aspettando Cervo Nero e l'Uomo del destino.

Se vuoi saperne di più, leggi la mia recensione sul numero di luglio di SegnoCinema (nelle librerie Feltrinelli e dello spettacolo).


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QUEL BRAVO RAGAZZO

4/28/2019

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LO SPIETATO di Renato De Maria

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De Maria aveva girato nel 2015 la docu-fiction Italian Gangsters, frutto di una ricerca bibliografica e iconografica sulla malavita “storica” italiana. Tornato alla fiction pura – ma ancora basata su fatti reali – rimette in scena un italian gangster che ripercorre diverse stagioni della storia recente italiana, dagli anni '60 dell'immigrazione e del boom economico al disordine degli anni '70 alla Milano da bere degli anni '80 sino al ripiegamento successivo. Santo Russo, calabrese immigrato dal nord con spirito d'intraprendenza, spregiudicatezza morale, capacità mimetiche-linguistiche (assimila il milanese e adotta modi di dire francesi), incarna lo spirito dei vari decenni, percorrendoli sul crinale dell'attività criminosa: immigrato e rapinatore nell'hinterland metropolitano dapprima, bandito anarchico poi (alleato ma non succube della criminalità organizzata), quindi arricchito arrampicatore sociale all'ombra della Madonnina, infine sopravvissuto all'ubriacatura grazie all'arte di arrangiarsi che premia sempre in un'Italia dove raramente ai malfattori viene seriamente presentato il conto da pagare.
De Maria, oltre a basarsi sul racconto dei fatti realmente accaduti narrati in Manager Calibro 9 da Pietro Colaprico e Luca Fazzo, tiene presente la tradizione tutta italiana dei poliziotteschi degli anni '70 (ma con una violenza più stilizzata), ma mirando visibilmente ad un modello più alto, cioè allo Scorsese di Goodfellas – Quei bravi ragazzi (e poi di Casino e The Wolf of Wall Street). La voce over in prima persona, il protagonista criminale ma accattivante, l'attenzione alla dimensione etnico-antropologica (qui il milieu dei calabresi immigrati al nord, malavitosi e non), la descrizione delle regole e dei retroscena dell'ambiente criminale (anche nei suoi aspetti più grotteschi, come nella scena del tester della qualità dell'eroina o in quella della rapina con il travestimento da carabinieri), l'uso delle canzoni d'epoca a scandire i passaggi cronologici degli eventi, il finale in contro-climax, sono tutti elementi che lo apparentano al film di riferimento.
Se da una parte la formula del crime-movie pop, vintage, scanzonato, sociologico, autoironico, in cui si mescolano imprese criminali e vita sentimentale, crime movie e comedy, violenza e ironia, gang mafiose e clan famigliari, omicidi e questioni di corna, turpiloquio gangsteristico e racconto letterario con preziosismi francesizzanti (ça va sans dire...) garantisce un risultato comunque accattivante e godibile, il modello prescelto si colloca ad un livello inarrivabile. Con tutto il buon cuore, De Maria non è Scorsese, ne Lo spietato non ci sono De Niro o Joe Pesci, e la produzione sembra a volte autolimitare le proprie ambizioni.
C'è da dire che l'interprete ideale del film non poteva essere che Scamarcio: avvenente quanto basta per attirarsi subito le simpatie degli spettatori (e delle spettatrici), ragazzone scanzonato quando pratica il crimine come fosse un gioco, dagli occhi di ghiaccio quando uccide senza pietà, sempliciotto in soggezione quando si trova a tavola con un'amante francese colta e intellettuale, bullo rancoroso quando si sente frustrato dall'ambiente artistoide e pseudo-chic delle istallazioni e delle performance concepite (tanto per restare tra i francesismi) per épater le bourgeois. Sbaglia semmai – clamorosamente - il titolo, che lo appiattisce in un'unica dimensione.


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MOMENTI DI INSOSTENIBILE LEGGEREZZA

4/6/2019

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MOMENTI DI TRASCURABILE FELICITA' di Daniele Luchetti

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Daniele Luchetti aspira evidentemente ad essere il poeta italiano delle piccole cose della vita. Il suo cinema tenta continuamente di sfrondare le retoriche, di riportare qualsiasi vicenda all'umanità di base, quella degli affetti, delle piccole felicità e delle piccole infelicità che ciascuno è portato e si può dire è costretto a vivere, dei sentimenti universali che sopravvivono in qualunque circostanza storica. Spesso i titoli stessi sono rivelatori della sua poetica (La nostra vita, Anni felici, lo stesso Momenti di trascurabile felicità) e la sua filmografia può essere letta come lo sviluppo di questa tematica lungo la storia italiana: scanzona l'Italia del 1848 tra Illuminismo e moti risorgimentali; smorza la retorica affrontando il racconto della Resistenza; riduce a una dimensione domestica, famigliare e affettiva le lacerazioni degli anni di piombo; attraversa a passo leggero le epoche del craxismo, di Tangentopoli, del post-berlusconismo.
A volte realizza film molto belli (quello che amo di più rimane Mio fratello è figlio unico); ma purtroppo, in questa operazione riduzionistica, gli accade talvolta (l'esempio più eclatante è forse I piccoli maestri) di buttare via il bambino della sostanza insieme all'acqua sporca della retorica.
L'incontro con il dittico letterario di Francesco Piccolo (Momenti di trascurabile felicità/infelicità) sembrava quindi inevitabile, e costituisce insieme l'esito in senso terminale della poetica luchettiana nel porre i suoi personaggi piccoloumani più che piccoloborghesi (non sia detto in senso negativo) a confronto non solo con la grandezza soverchiante della dimensione storica, ma con quella assoluta della metafisica.
In fase di sceneggiatura, Luchetti e Piccolo inquadrano infatti la vicenda del film in una cornice alla Il paradiso può attendere (tra le versioni più memorabili quelle di Lubitsch del '43 e quella di e con Warren Beatty del '78): il protagonista Paolo, interpretato da Pif, una volta morto e approdato ad un aldilà che assomiglia molto a un ufficio contabile all'italiana, burocratico e impreciso, scopre di avere diritto ancora ad un'ora e mezza circa di vita. Torna quindi nel mondo dei vivi, con l'opportunità di fare i conti con la propria vita, di tirare dei bilanci, di tentare di chiudere le questioni lasciate aperte, di dire addio alle persone che ama.
Ma nel mondo di Luchetti (e, bisogna ammetterlo, anche nel mondo reale), tutto questo è impossibile. Paolo perde il tempo strappato alla morte perdendo tempo, disperdendosi su questioni inutili, tentando di recuperare qualche ricordo dalle pieghe delle memoria, facendo ancora una volta – per l'ultima volta – i conti con la propria immaturità, sprecando le occasioni, quasi, alla fine, aspettando con impazienza la scadenza fatale che lo tragga dall'impaccio di un compito al di sopra delle sue possibilità, e forse non realmente desiderabile.
Il tema è dopotutto affascinante, ma il modo in cui Luchetti lo svolge non mi convince per nulla. Non mi convince ad esempio la mescolanza di grottesco e melanconico, con quell'aldilà farsesco e quel Carpinteri (burocratico angelo custode) macchiettistico, quasi a ribadire che la nostra vita non possa essere tragica neppure di fronte alla morte; non mi convince la scelta di un non-attore come Pif, di nuovo a rimarcare la dimensione di mediocrità e di inadeguatezza dei personaggi luchettiani; mi delude la rinuncia a sfruttare l'occasione del tempo reale, che avrebbe potuto fare coincidere naturalmente la durata del film con quella del tempo vitale concesso al protagonista; mi ha lasciato confuso e insoddisfatto l'alternanza di piani temporali diversi non sempre ben riconoscibili e non sempre significativa.
Momenti di trascurabile felicità, date le premesse, avrebbe potuto e forse dovuto essere un film struggente. Luchetti invece rifiuta di intristirsi troppo: un po' la butta sul ridere anche se da ridere c'è poco, un po' la tira via perché tanto è solo la fine del mondo (si confronti appunto, all'estremo opposto, con la furiosa concitazione e il profondo struggimento del film di Xavier Dolan), un po' sdrammatizza anche se in realtà non si tratta di dramma, ma di tragedia, qual è per ciascuno di noi la fine della propria vita. Tenta di fare poesia mostrando il lato prosaico della vita. Ma rischiando che la poesia si disperda nella banalità della prosa e non riemerga più; e di non raccontare altro, alla fine, che momenti di trascurabile cinema.

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I DUE RE E LA CITTA' CHE NON C'ERA (ANCORA)

2/15/2019

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IL PRIMO RE di Matteo Rovere

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Il primo re non è un film rivoluzionario (tra gli antecedenti si possono citare titoli come Vallhalla Rising di Nicolas Winding Refn - richiamato soprattutto nella prima parte - o Apocalypto di Mel Gibson) nella rappresentazione di uno stadio primitivo della civiltà umana, ma lo è sicuramente nel panorama del cinema italiano.
Lo è nel taglio dell'ambientazione temporale, raccontando la storia dell'antica Roma non, come è successo sempre in precedenza (sia nel cinema nazionale che in quello hollywoodiano), nel suo fulgore (dall'età cesarea in poi) o al limite nella fase della sua comunque opulenta decadenza, bensì nella fase prefondativa, embrionale, quando in un manipolo di uomini sporchi e cattivi si fa strada l'idea della fondazione di una città sulle sponde del Tevere.
Lo è di conseguenza nell'ambientazione fisica: il film si svolge ed è girato tutto in Lazio, in un panorama selvaggio ma piatto, occupato da foreste, pascoli e paludi, dove gli insediamenti umani sono semplici gruppi di capanne costruite con rami e le foreste sono popolate dalle fiere. Perfino l'ambiente totalmente naturale sembra sporco, invaso dalle nebbie, dalle particelle sospese nell'aria, dai detriti che coprono il sottobosco e che inquinano le acque del fiume e degli acquitrini.
Lo è nel taglio tematico, scegliendo di raccontare il mito fondativo legato alle figure di Romolo e Remo, da tutti conosciuto, ma inedito dal punto di vista della narrazione cinematografica, affrontandolo non con i toni della favolistica storica, ma con quelli di una corrusca tragedia dai toni cupi e violenti.
Lo è nelle scelte stilistiche e produttive: a cominciare dall'aspetto più eclatante, e cioè dai dialoghi parlati in un protolatino arcaico, tradotti nei sottotitoli; fino alla scelta dell'illuminazione naturale, sia diurna che notturna, con una fotografia problematica firmata da Daniele Ciprì o al montaggio espressionistico di Gianni Vezzosi che dà credibilità alle cruente scene di combattimento; e fino alla scelta di attori poco noti (ma efficaci nelle rispettive caratterizzazioni, a cominciare dalla sacerdotessa interpretata da Tania Garribba) con la notevole eccezione di Alessandro Borghi (che da fisicità e fuoco interiore a un uomo che scopre di potersi elevare al di sopra della propria condizione e di sfidare gli dei) e quelle parziali del meno noto Alessio Lapice o dell'italo-belga Fabrizio Rongione, già in alcuni film dei Dardenne.
Il film si svolge nell'arco di poche giornate e in un territorio piuttosto ristretto nelle vicinanze del fiume Tevere, una cui piena improvvisa coglie di sorpresa i pastori fratelli Romolo e Remo, salvati dalle acque ma presi prigionieri dai miliziani di Alba. Costretti a sfidarsi gli uni con gli altri, insieme ad altri prigionieri, in un'arena di fango, i due fratelli riescono a fuggire, portando con sé una sacerdotessa che custodisce il fuoco sacro. Dopo aver escogitato e guidato l'evasione distinguendosi nella lotta, essersi fatto carico (letteralmente) del fratello gravemente ferito in combattimento, aver sfidato e vinto gli oppositori, aver sfamato i propri compagni grazie all'uccisione di un cervo, Remo scopre all'improvviso di essere diventato un condottiero, un re, per quanto a capo di una banda di straccioni senza terra e senza casa. La presa di possesso di un villaggio locale e la scoperta che l'esercizio della paura è la chiave del potere sono però messe in crisi da una profezia della sacerdotessa, che prevede l'ascesa di un nuovo re e di un regno di potenza inaudita, ma a prezzo della morte di uno dei fratelli.
Rovere (che ha scritto soggetto e sceneggiatura insieme a Filippo Gravino e Francesca Manieri, già collaboratori per Veloce come il vento) ha l'intuizione geniale di fondare tutta la seconda parte del film su una contrapposizione (mai manichea) tra i due fratelli basata sul diverso rapporto con la divinità: proprio l'infausta profezia porta Remo a contrapporsi titanicamente agli dei e a disprezzare le credenze religiose, sulla base di una visione esistenzialistica e individualistica applicata alla conquista e all'esercizio del potere slegati dalla sottomissione alla divinità e alle sue leggi; sarà il debole Romolo invece, per salvare la vita al quale Remo si pone sul terreno (anche qui, letteralmente) del sacrilegio, a difendere l'istanza religiosa, come fondamento della comunità e quindi di una potenziale futura civiltà. Una civiltà che sorge comunque dal conflitto che permea tutte le relazioni umane: tra città o gruppi tribali, tra compagni di sventura, tra uomini e dei, finanche tra fratelli di sangue.
La lettura ideologica del film ha suscitato anche critiche e dibattito: alcuni - Furio Colombo tra gli altri - l'hanno visto come un'apologia reazionaria o addirittura protofascista.
Ma parlando di potere, doppi re, predestinazioni fatali, imperscrutabilità divina, superiorità di un disegno trascendente che cambia di significato alle azioni umane e che si manifesta attraverso l'ambiguità dei simboli (solo quando ormai è troppo tardi i protagonisti capiranno che la profezia poteva essere letta in doppio senso), il film sfiora addirittura dei temi cari alla letteratura borgesiana.
A imporsi con prepotenza è comunque l'aspetto audiovisivo del film, che costruisce (anche grazie a scenografia, costumi e trucco) un universo violento e primigenio molto lontano dall'immaginazione comune della storia o della protostoria patria, pieno di fango e di terra, dove gli animali vengono sbranati crudi e il futuro viene letto nelle viscere appena strappate, dove i ricordi e le visioni oniriche sono sempre impregnate di terrore e dove la fondazione di una città, l'organizzazione di una società e l'elaborazione di forme di civiltà sono solo il rozzo ma visionario sogno di menti primitive.


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QUANDO LA MOGLIE E' IN VACANZA

2/7/2019

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10 GIORNI SENZA MAMMA di Alessandro Genovesi

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Alessandro Genovesi di solito opera in questo modo: prende Fabio De Luigi, lo impegola in qualche guaio, in genere famigliare, e gli fa passare gli x giorni peggiori della sua vita.
In questo caso (ma anche per film precedenti l'ispirazione proveniva da opere straniere preesistenti) il cliché delle sue commedie di situazione si interseca con un prototipo argentino, il film Mamá se fue de viaje (2017), che si adatta perfettamente alla sua linea.
La mamma (Valentina Lodovini), che ha rinunciato a fare l'avvocato per dedicarsi alla famiglia e ai tre figli, arriva al punto di crisi della routine del menage famigliare e si prende un'improvvisa (fin troppo) vacanza di 10 giorni. Il papà (Fabio De Luigi), che lavora in un'azienda alimentare, dove il suo ruolo di responsabile delle risorse umane è insidiato dall'arrivo di un nuovo collega, più giovane, rampante e spietato, si trova improvvisamente a dover gestire i problemi lavorativi e conciliarli con la cura dei tre figli: una neoadolescente scontrosa e darkeggiante (Angelica Elli) che vede arrivare le prime mestruazioni e i primi problemi di cuore, un ragazzino impertinente e sornione (Matteo Castellucci) che non conosce ancora l'opportunità e la necessità dei limiti e una bimbetta che non è ancora in grado di comunicare le proprie esigenze. L'arrivo di una tata giovane, carina ed efficiente (Diana Del Bufalo) sembra provvidenziale, ma finirà per provocare nuovi imbarazzi.
Il film sfiora varie tematiche sensibili - i ruoli di genere e la distribuzione dei carichi famigliari, il rapporto con i figli e la reale conoscenza reciproca (in un'epoca in cui lavoro, impegni e relazioni social tolgono tempo e spazio ai rapporti famigliari), le logiche aziendali in epoca neocapitalista -, ma con la levità e l'inconsistenza di una commedia che ha lo scopo di far divertire molto più che di far pensare.
E in effetti l'obiettivo è abbastanza centrato, in gran parte grazie alla presenza di De Luigi, che alterna la comicità di carattere ad alcune gag di gusto slapstick. Il film rischia qualche sbandata soprattutto in qualche situazione spinta all'esagerazione (l'apocalisse della festa aziendale) o nella rappresentazione decisamente macchiettistica del rivale (Niccolò Senni), mentre sembra ogni tanto impostare qualche idea narrativa che viene poi abbandonata sul nascere (singolare è la mancanza di credibilità della vacanza cubana). Manca inoltre quella capacità, o forse volontà - che possiedono bene le commedie statunitensi -, di variare i toni dal comico al sentimentale, come poteva sembrare naturale in una situazione del genere.
Genovesi va sul sicuro riunendo un cast già in parte collaudato nei suoi film precedenti. De Luigi è a suo agio in un ruolo che gli è congeniale, che ha qualche eco sordiano nella mescolanza di furbetteria e desiderio un po' ipocrita di apparenza perbenista, e recita per un po' anche senza denti o con dei dentoni da coniglio che ne alterano la pronuncia. Rodato anche il ruolo di Catania, paternalistico ma cinico capitano d'azienda, mentre un po' sacrificata è la presenza della Lodovini, spedita in un limbo cubano per buona parte del film. Buona anche la scelta dei giovanissimi protagonisti, con una menzione speciale alla duenne Bianca Usai, che parte lallando e arriva alla fine alle prime paroline, intervenendo spesso a modo suo nelle scene, che rischia di rubare agli altri attori. E' nata una stellina?


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MATER SBADIGLIORUM

12/22/2018

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SUSPIRIA di Luca Guadagnino

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Sì, lo so. Ho esagerato col titolo, a volte ci si fa prendere la mano del gusto della battuta.
Ma prima di tutto, ovviamente, davanti al nuovo Suspiria, viene da chiedersi: perché?
Per rifare un classico, ci vuole un'idea forte. E il Suspiria di Dario Argento, classe 1977, un classico lo è. Di un cinema sadico, se vogliamo anche trash, ma un episodio estremo e memorabile di cinema fantastico e visionario.
Guadagnino quest'idea forte ce l'aveva?
Dobbiamo per caso andarla a cercare nella sceneggiatura scritta da David Kajganich (che già ci aveva provato riscrivendo L'invasione degli ultracorpi di Don Siegel), che ricolloca la vicenda in un periodo storico-politico molto marcato, ambientandola  nell'epoca in cui l'originale fu girato, in una Berlino divisa, straziata dalla lotta armata della Raf e dal terrorismo internazionale legato alla questione palestinese, scioccata dalla violenza forse di Stato della vicenda Baader Meinhof? In una Germania in cui non si sono affatto spenti gli echi della tragedia del nazismo e dell'Olocausto? Forse, anche se il tutto sembra piuttosto facile e gratuito, come non riescono a trovare una forte ragione poetica e drammaturgica i riferimenti all'infanzia della protagonista in una comunità rurale dell'Ohio, segnata da una religiosità morbosa e da un fortissimo senso del peccato.
Cosa c'entra tutto questo con la pacifica congrega di streghe un po' represse un po' isteriche e litigiose che gestisce la scuola di danza di Berlino? Né il contesto storico-politico né gli elementi biografici della protagonista sembrano agganciarsi alla storia al centro del film, in cui il fuori (in un film avarissimo di esterni) e il dentro della scuola e dei suoi recessi rimangono bene separati e distinti, così come il passato di Susie rimane piuttosto ininfluente nel caratterizzare un personaggio poco delineato e motivato. Non c'è profondità, né eco, né necessità, e l'ambientazione rimane un fattore esteriore e in fondo gratuito.
In effetti non ricordo bene (l'ho visto qualche giorno fa) come faccia il film a occupare le due ore e mezza della sua durata. Non è un effetto perversamente ipnotico, piuttosto la mancanza di interesse e il senso di sopore che un film di questo genere è l'ultima cosa che dovrebbe indurre nello spettatore. A meno che non si tratti di un film dell'orrore, ma di una metafora storica travestita da film dell'orrore. Ma, come dicevo, non ci sto.
Già il prologo con Patricia dallo psicoanalista (in una sequenza loffia piena di inquadrature di dettaglio che dà l'idea che il regista non sappia bene cosa inquadrare e perché) la dice lunga sulla mancanza di nerbo e di tensione che caratterizzerà purtroppo tutto il seguito. Susie ha degli incubi che ci vengono mostrati a flash, e che assomigliano di più a installazioni o fotografie di arte contemporanea piuttosto che a visioni sovrannaturali o dell'inconscio. La prima scena horror, l'unica veramente disturbante e quindi la più pubblicizzata, arriva a circa 40 minuti dall'inizio; la seconda dopo 80 minuti; la terza a 120, e a sua volta assomiglia assai più a un'esibizione di danza contemporanea coreografata così-così e banalmente illuminata da neon rossi piuttosto che a un sabba demoniaco. Qui compare una strega mostruosa nuda, obesa e dalle carni decomposte, che inforca sul naso un paio di occhiali da sole; avrebbe potuto essere forse un elemento disturbante e straniante, se le cose prima fossero andate in modo diverso: a questo punto, invece, sfiora solo il ridicolo involontario. Qui muoiono inoltre a uno a uno, tra fontane di sangue, un gran numero di personaggi, che non abbiamo mai imparato a riconoscere e di cui quindi non ci importa sostanzialmente nulla. Perché in queste due ore e mezza oltre a non aver costruito tensione e paura, Guadagnino non ha neppure costruito personaggi di qualche spessore o interesse. La protagonista (Dakota Johnson sembra fare una fatica più fisica che espressiva) è una figurina che balla e miss Blanc una zitella un po' stereotipata; in un mondo dove le figure maschili sono assenti (tranne un paio di poliziotti ridicoli e ridicolizzati), il prof. Klemperer è forse quello più propriamente argentiano (e non esattamente in senso positivo) per la goffaggine con cui è delineato (la Swinton, che ama l'androginia e il travestimento, si è presa entrambi i ruoli e anche un terzo; almeno lei forse si sarà divertita). Le altre - ballerine, streghe e insegnanti - sono solo comparse senza spessore e senza personalità.

Suspiria di Guadagnino
Suspiria di Argento
Suspiria di Dario Argento, oltre agli effetti speciali raccapriccianti messi in scena, era un tripudio di invenzioni scenografiche (Giuseppe Bassan), fotografiche (Luciano Tovoli), musicali (Goblin). Chi l'ha visto non può dimenticare il suo eccentrico palazzo degli orrori, i suoi colori saturi fino al delirio, l'incalzare angosciante della colonna sonora di Stivaletti. In Suspiria di Guadagnino gli ambienti si normalizzano in un edificio piuttosto anonimo fronteggiato da un muro; i colori si spengono e si raffreddano, con il rosso che si aggiunge solo progressivamente e tardivamente nel finale (dal sangue della suicida ai costumi delle ballerine sino a dilagare nella sequenza del sabba); le musiche (di Thom Yorke dei Radiohead – massimo rispetto) sono malinconiche e per nulla ansiogene, e il loro apporto, sia pur voluto in chiave di contrasto, risulta inefficace. Perfino il lettering dei titoli di testa e di coda, per quanto accattivanti possano apparire, hanno un giocoso gusto pop che poco ha a che fare con lo splatter gotico che avrebbe dovuto essere la fonte d'ispirazione.
Suspiria di Argento
The Neon Demon
 Il nuovo Suspiria ha inoltre il torto di arrivare dopo il Neon Demon di Winding Refn (e, parlando di Madri, sembra citare anche il recente pasticcio di Aronofsky), che già recentemente aveva reso un tacito ma dichiarato omaggio al capolavoro di Argento, proprio attraverso la fotografia, le scenografie, la messa in scena di un gineceo bello e perverso; ma adottando a sua volta l'approccio di un horror esangue e senza tensione, cerebrale e astratto nella concezione e formalista alla visione, privo di pathos e di tensione, di brividi e di strette allo stomaco.
Non saprei dire a chi può piacere Suspiria 2018: non credo a coloro che avevano adorato e acclamato il dramma sulla passione amorosa di Guadagnino, Chiamami con il tuo nome, che ora si troveranno strapazzati da intenzioni raccapriccianti; non credo neppure a chi (come me) ricorda ancora quanta paura gli avesse fatto l'horror di Argento e si ritroverà indifferente davanti alle lungaggini e ai balletti del nuovo film; e non credo neppure ai giovani che non hanno visto l'originale e che sono cresciuti con il new horror, che sbadiglieranno nei 40 minuti che separano un climax dall'altro.
Non è piaciuto a Dario Argento (per non parlare di Asia, che ha perso l'ennesima occasione di pensare prima di parlare): e lui è uno che di horror se ne intende.
Suspiria di Guadagnino
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    Mauro Caron

    Appassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione.

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