CONFIDENZA di Daniele LuchettiLuchetti rincontra la letteratura di Domenico Starnone dopo il primo incontro che portò alla realizzazione de La scuola nel 1995 (da Ex-cattedra e Sottobanco) e alla successiva collaborazione per l'infelice I piccoli maestri (dal libro di Meneghello) tre anni dopo.
Ma è passato tanto tempo, quasi 30 anni, e i due si rincontrano su un terreno molto lontano da quello d'origine: se La scuola offriva un bozzettismo sociologico bonario e tutto sommato progressista, nel solco della commedia all'italiana, Confidenza, dominato da un senso costante di inquietudine e di disagio, si addentra nei meandri malsani della psiche umana e nei risvolti più oscuri del rapporto di coppia. Siamo più dalle parti del grottesco di Denti (portato sullo schermo da Salvatores); o del Polanski kafkiano de L'inquilino del terzo piano che da quelle de La Scuola: se il protagonista di Kafka si lasciava divorare dall'ossessione per immedesimarsi nell'inquilino suicida, qui Pietro Vella finisce per identificarsi gradualmente con la parte più oscura e sepolta di se stesso. Pietro è un'insegnante liceale di materie letterarie molto stimato e amato dai suoi studenti, che si ritrova ad elaborare con successo, più per vocazione spontanea che muovendo da principi teoretici, una “pedagogia dell'affetto” Ma una sua studentessa, Teresa Quadraro, scambia l'affetto che lui elargisce ai suoi allievi per un interesse particolare, e si illude che lui corrisponda l'attrazione che lei prova nei suoi confronti. Quando si rincontrano, dopo la maturità, il riluttante Pietro si lascia trascinare a ricambiare l'amore di Teresa. Ma il rapporto asimmetrico, dove Pietro tende senza successo a replicare anche nel rapporto amoroso il modello insegnante-allieva, si ribalta e deflagra quando Teresa, dopo una discussione, lo convince a rivelarle un proprio segreto, in modo da essere legati per sempre. Quello che lei sussurra nell'orecchio a lui (noi spettatori siamo tagliati fuori) è “una brutta cosa”, ma quello che lui sussurra a lei è evidentemente talmente sconvolgente da far sì che Teresa tronchi il rapporto e si allontani immediatamente da lui. Ma Pietro ormai ha dissepolto, con troppa disinvoltura, una parte di sé che doveva rimanere nascosta per sempre. Ora Teresa ha potere su di lui, e lui vive tutta la sua vita sotto la minaccia incombente di una rivelazione che potrebbe rovinarlo. Nulla serve a rassicurarlo, anzi, man mano che la sua vita ha successo – si sposa con una bella collega e ha una bambina, diventa famoso in ambito pedagogico grazie alle sue tesi, intraprende una prestigiosa collaborazione con il Ministero dell'Istruzione, per essere alla fine addirittura candidato ad un premio assegnato dal Presidente della Repubblica – più la sua paura ingigantisce a dismisura, avendo da perdere sempre di più. Ogni incontro fortuito o cercato, reale o immaginario con Teresa Quadraro (ora una celeberrima matematica del Mit di Boston) è una fonte di angoscia insopprimibile e crescente, fino a trascinarlo in una dimensione paranoide popolata di fantasia di rovina e di morte. Sembra quasi di sentire nel soggetto e nella sceneggiatura del film echi della letteratura di Ian McEwan, dalla componente ossessiva al senso di colpa (Espiazione, Lettera da Berlino), a elementi più precisi come la collaborazione del protagonista con il Ministero dell'Istruzione (Bambini nel tempo), al tema della persecuzione amorosa (L'amore fatale). Dalle impressioni che ho orecchiato uscendo dalla proiezione per la stampa, mi è sembrato di sentire pareri prevalentemente negativi. Eppure a mio parere bisogna riconoscere alla regia di Luchetti (la sceneggiatura è stata scritta a quattro mani con Francesco Piccolo, senza la collaborazione di Starnone) un progetto coerente, dotato di una sua necessità. Un elemento fondamentale nel film è l'attrazione per il vuoto. L'horror vacui è presente già con le plongée delle sequenze iniziali, che si concludono con la caduta di un corpo nel vuoto (analogamente, per strana assonanza, con quello che accade alla fine del prologo del contemporaneo Sei fratelli). E' un vuoto esistenziale che si rispecchia continuamente nel film, un abisso in cui si può cadere, ci si può buttare o ci si può essere spinti. E' il vuoto della coscienza (morale) e dell'inconscio che risucchia; ma anche della vita stessa, in cui si lancia senza protezioni e senza possibilità di tornare indietro, se non troppo tardi - sui titoli di coda addirittura -, in una fuga a ritroso che si richiude dentro una scatola di cartone, come dentro un utero protettivo o un luogo intrapsichico al riparo dal mondo esterno. Un secondo elemento fondamentale è dato dal fuori campo: e anche in questo caso Luchetti è attento, preciso, quasi ossessivo. I personaggi sono sempre attratti e distratti, inquietati e preoccupati, da qualcosa che accade al di là dello schermo. Possono essere rumori, o visioni fugaci, l'orecchio è sempre teso verso qualche rumore estraneo e sconosciuto, lo sguardo è sempre risucchiato a cercare qualcosa che forse non esiste. Fantasmi percettivi che hanno meno consistenza ma altrettanta forza disturbante delle fantasie oniriche - dove la morte, la disgrazia e la vergogna incombono come forze inarrestabili -, che nella mente di Pietro si mescolano con la realtà, ingannando e spiazzando continuamente lo spettatore oltre che il protagonista. Luchetti è così convinto del suo progetto (confermato anche dalla scelta di un musicista eccentrico, sperimentale e intellettuale come Thom Yorke, leader dei Radiohead, che fornisce al film una raffinata colonna sonora, insieme dissonante, inquietante e malinconica) da perdere talvolta l'equilibrio, appesantendo la narrazione con un simbolismo talmente accentuato da rischiare lo stucchevole (la sottolineatura sui limoni marciti e quelli che rotolano sulle scale durante la precipitosa fuga di Pietro; l'uccello nero che sembra osservare la famigliola dall'alto; la perdita di sangue dal naso durante il matrimonio). Elio Germano mette il suo naturalismo sopraffino alla prova di un progetto drammaturgico che lo trascina in una deriva verso la paranoia allucinatoria, in un percorso in fondo analogo a quello già sperimentato con i fratelli D'Innocenzo in America latina. Vittoria Puccini, nel ruolo di Nadia, la moglie di Pietro, espone la sua bellezza al rischio di un personaggio nevrotico, complessato, insoddisfatto. Più discutibile la scelta di Federica Rosellini per il ruolo cruciale di Teresa: Federica ha un viso strano, squadrato ma proteiforme quando passa dal sorriso alla durezza o viceversa, che ben esprime l'ambiguità del personaggio; ma c'è un problema anagrafico: se è relativamente facile truccare l'attrice 34enne e farla apparire invecchiata, molto più difficile è renderla credibile, nella prima parte, nei panni di una fanciulla in età da liceo...
0 Commenti
CHALLENGERS di Luca GuadagninoQuando la discussione trascende e i toni si riscaldano, Tashi chiede a Patrick se stanno ancora parlando di tennis e lui risponde che non fanno altro. E’ falso (tanto per dire, tra le foto promozionali ufficiali si fa fatica a trovarne una che abbia a che fare con il tennis, anche se il film arriva al momento perfetto, quando la sinnermania ha ridestato e portato al suo acme l'attenzione del pubblico italiano verso questo sport); o meglio, Guadagnino finge di parlare di tennis mentre parla di tutt’altro. Anche se il film iscrive tutto il suo arco narrativo, tramite continui flashback e flashforward, all’interno di un extended play tennistico, appare subito chiaro - da quando i giovanissimi tennisti Art e Patrick, amici e coetanei, guardano Tashi esibire la sua potenza sul campo di gioco - che si sta parlando d’altro, e cioè di desiderio; e si intuisce anche, cosa che verrà subito confermata, che il corpo di Tashi è solo il tramite su cui confluisce e rimbalza l’attrazione reciproca tra i due giovani maschi.
Di desiderio si parla, come in Io sono l’amore, A Bigger Splash, Chiamami col tuo nome o perfino in Bones and All: Guadagnino parla di tennis quasi come un giovane Almodovar (banane allusive e ventilati usi non ortodossi del manico della racchetta compresi) parlava di matador, dove la legge del desiderio conta altrettanto o più delle regole del gioco. Se ne ha la conferma quando ci si accorge che sequenze di sport, di dialogo o di intimità sono tutte ritmate dalle cadenze ossessive ed elettroniche delle musiche da rave party infinito di Trent Reznor e di Atticus Ross. I desideri si intrecciano con le frustrazioni: Patrick avrà Tashi ma dovrà rinunciarvi (ma non per sempre…); Art avrà Tashi ma dopo che sarà stata di Patrick; Tashi dovrà interrompere la sua carriera tennistica ma riverserà le sue ambizioni sul marito Art di cui diventerà allenatrice e manager; Tashi avrà Patrick e Art, ma senza trovare appagamento da nessuna delle due relazioni; l’attrazione tra Art e Patrick sembra non arrivare mai a compimento… E’ un losing game in cui nessuno sembra poter vincere, né sul lato sentimentale e dei rapporti di coppia (o di triangolo, al cui vertice è saldamente installata Tashi), né su quello sportivo e professionale, dove infortuni, incostanza, stanchezza sembrano precludere a tutti di coronare i propri sogni di gloria (e il film d’altra parte si svolge durante un challenge, cioè un torneo di qualificazione, e non durante il torneo maggiore, in questo caso l’U.S. Open). Challengers è il nome del torneo, ma il termine significa anche gli sfidanti, e viene da pensare anche ai duellanti di Ridley Scott (da Conrad) che si affrontano ripetutamente attraverso anni e vicissitudini. Guadagnino (con la complicità dello sceneggiatore Justin Kuritzkes) nasconde le sue carte narrative mescolando il mazzo delle scene in un continuo andirivieni nel tempo, con ellissi in avanti e indietro che possono durare ore o giorni o addirittura anni, costruendo a ritroso le motivazioni personali che stanno alla base delle passioni che rendono il match tra Art e Patrick la partita della vita; anche per Tashi, che assiste al gioco dalla tribuna, girando la testa da una parte e dall’altra, come tutti gli altri spettatori, o tenendola immobile fissando lo sguardo la da una parte sola, o abbassando lo sguardo a terra mentre la partita si fa rovente. Guadagnino concentra tutto il film su tre unici personaggi, elidendo tutti gli altri e tutto il resto; ma dà al film una miccia lunga e una combustione lenta (slow burn, per dirla all’inglese), iniziando dalla fine con una partita di tennis di cui non capiamo l’importanza e con un ralenti inessenziale e un po’ maldestro sulla schiena di Zendaya, per dare solennità ad una vicenda che non ne ha ancora alcuna. La tensione narrativa, dopo che il culmine erotico è già da tempo raggiunto e superato in una scena di bacio a tre da seduti, cresce lentamente, fino al racconto della sera precedente la partita fatidica, in cui il vento delle passioni (ancora una volta, molto almodovariano) spazza letteralmente e melodrammaticamente tutto e manda le intenzioni dei protagonisti a gambe all’aria. Sicché nella fase finale della partita succede di tutto, emotivamente, sportivamente e registicamente parlando, tra esacerbazioni ed escandescenze, richiami e penalizzazioni, gesti allusivi e sguardi d’odio (la partita diventa una specie una sorta di duello alla Sergio Leone in versione ipercinetica), bolidi tirati direttamente contro l’avversario o spedite volontariamente in rete, soggettive della pallina che vola a 200 chilometri all’ora e smash in cui è il giocatore stesso a volare dall’altra parte della rete, abbracci sconvenienti e sorrisi liberatori, ma anche un po’ enigmatici, alla Mona Lisa, in tribuna. Sembra di capire che Guadagnino si sia divertito, e parte del divertimento passa agli spettatori, anche se non tutto a mio parere funziona a dovere: come dicevo, la costruzione è lenta e il film ci mette un po’ a scaldarsi; nelle ellissi narrative si perde forse qualche passaggio importante (della relazione tra Patrick e Tashi ci viene detto ben poco, se non che finisce litigando sulle posizioni di potere nella coppia, che si definiranno invece molto più nettamente a favore di Tashi nel rapporto con Art; e ben poco viene detto anche sui motivi per cui Patrick finisce per essere emarginato - o per autoemarginarsi - dal mondo del tennis che conta e dalla vita, tanto da finire a dormire in auto perché non ha i soldi per pagarsi un albergo). Poi c’è Zendaya, che dovrebbe essere la donna di cui non è possibile non innamorarsi, ma che ai miei occhi (se mi è concesso dirlo) è troppo poco sexy, espressivamente imprigionata in un broncio un po’ infantile o in pose dure e volitive da manager in tailleur. Se amate le gambe di Zendaya, è il vostro film; ma le nudità totali e frontali sono riservate agli attori maschi. Mike Faist e Josh O’Connor, nei ruoli di Art e Patrick, rispettivamente “ghiaccio” e “fuoco” nel tennis e nella vita, finiscono per assomigliare forse più a Starky e Hutch in tenuta da tennis che a Borg e McEnroe, ma "servono" a dovere nel ruolo degli amici doppiamente rivali dal carattere opposto. ZAMORA di Neri MarcorèQuando il proprietario dell'azienda in cui lavora come ragioniere decide di chiudere per riposarsi, Walter viene raccomandato per un'altra azienda di Milano. Questo (siamo negli anni '60; nel 61 usciva Il posto di Ermanno Olmi, nel 62 il romanzo di Mastronardi Il maestro di Vigevano e nel 63 il film che ne trasse Petri) significa spostarsi dalla soporifera provincia vigevanese alla metropoli. Walter Vismara è un bel ragazzo, bravo, coscienzioso, serio, lavoratore, un po' impacciato. Sa tutte le risposte dei quiz di Mike Bongiorno, ma nulla di calcio, e purtroppo per lui il suo nuovo principale è invece un fanatico del pallone (anzi, del folber, per dirla alla Gianni Brera), che obbliga tutti i dipendenti a partecipare agli allenamenti e all'annuale torneo aziendale scapoli-ammogliati. Colto alla sprovvista, Walter si spaccia imprudentemente per portiere, ma praticamente non ha mai toccato una palla in vita sua, e a causa della sua imbranataggine calcistica e del suo carattere riservato e compito diventa presto il bersaglio del ganassa aziendale, cui deve il soprannome “Zamora” (mitico portiere spagnolo), che dà ingannevolmente il titolo al film. Quando una bella collega si dimostra decisamente interessata a lui, Walter si ritiene miracolato da un'imprevista fortuna, ma un equivoco rimette tutto in gioco. Letteralmente, perché la rivalsa di Walter passa proprio dalla porta di un campo di calcio, dove, con l'aiuto prezzolato di un ex-portiere in disgrazia a causa di scandali e vita sregolata, cercherà di riguadagnare approvazione e rispetto. Anche se il dolce del lieto fine riserva un'inaspettata punta decisamente amara.
Non è forse un film importante, Zamora, esordio alla regia di Neri Marcoré, ma è un film delizioso e di garbato ma efficace umorismo - che forse ho amato particolarmente per alcune mie affinità con il carattere del protagonista, di cui il film fornisce un'analisi psicologica piuttosto sottile. Come viene sottolineato più volte nel film, siamo negli anni '60 (precisamente nel 1965, anno di uscita di Giulietta degli spiriti, che i protagonisti vanno a vedere al Cinema Manzoni – anche se i milanesi noteranno qualche riferimento anacronistico), e i tempi stanno cambiando, relegando in secondo piano i valori e le virtù che appartengono per natura all'impettito Walter, a favore di un maggior dinamismo e maggior aggressività, tanto in ambito individuale, che professionale e sociale. Più che l'attrazione dimostratagli dalla bella Ada, sarà proprio il rapporto con il portiere in disgrazia Cavazzoni (e con la sorella Elvira, che nasconde un segreto ai famigliari) a farlo crescere, ad incrinare la sua corazza caratteriale, portandolo ad acquisire maggiore sicurezza in se stesso. Il beneficio d'altra parte sarà reciproco, e anche il portiere trarrà qualche insegnamento dalla frequentazione con Walter. Più che il messaggio sulla conquista della fiducia in se stesso o sul valore della famiglia (anche quando riserva delle sorprese inaspettate), o lo spaccato sociale d'epoca e d'ambiente abbozzato dal film, l'opera prima di Neri Marcoré trova in particolare il suo stato di grazia nell'equilibrio che riesce a trovare tra personaggi in fondo macchiettistici e umoristici e la loro umanità. Sono molti i personaggi del film a riservare delle sorprese o a rivelare delle debolezze o delle risorse impreviste, acquistando una loro credibilità psicologica che li sbalza dal semplice bozzettismo. A venare il film di umorismo e a conferirgli attendibilità contribuisce un cast composto da attori comici di estrazione prevalentemente milanese, a volte con ruoli di rilievo (Walter Leonardi, Giovanni Storti, Antonio Catania, Pia Engleberth, con Giovanni Esposito nel ruolo dell'infiltrato finto milanese), a volte presenti in cameo (Giacomo Poretti, Ale e Franz). Alberto Paradossi ha la sua prima occasione da protagonista (era stato il figlio di Craxi in Hammamet), mentre Neri Marcoré riserva per sé la parte del malinconico portiere, con una recitazione tutta virtuosisticamente in sottotono. Decisamente apprezzabile poi è la prova delle due protagoniste femminili: Marta Gastini (che avevo già apprezzato recentemente a teatro ne Il figlio di Zeller diretto da Maccarinelli), nel ruolo di Ada, e Anna Ferraioli Ravel (che si è già fatta notare nel cast corale di Un altro ferragosto di Virzì), in quello della sorella Elvira. Curiosamente, una storia milanese (tratta dal primo romanzo di Roberto Perrone, scomparso l'anno scorso), con tanti attori milanesi (ma non il quartetto dei protagonisti), ambientata tra Vigevano e Milano, insaporita dal dialetto e dalla cadenza milanese, malgrado gli scorci meneghini riconoscibili (il Duomo, l'Arena, il Manzoni) è stato girata in gran parte a Torino con il supporto della Piemonte Film Commission. Tempo più o meno presente, ambientazione in una città che potrebbe essere Londra (o i suoi sobborghi). Un uomo ancora giovane ha perso le persone più amate in un incidente automobilistico. Gli si offre però il modo di ricontrarli nella casa che un tempo avevano abitato insieme (in una dimensione fantasmatica ma realistica nella rappresentazione), per un periodo limitato di tempo: sarà l'(ultima) occasione per confrontarsi di nuovo con un lutto mai completamente elaborato e risolto, per congedarsi da loro, ma soprattutto per affrontare e cercare di sciogliere dei nodi esistenziali ed affettivi rimasti in sospeso dopo la prematura scomparsa. Nel frattempo il protagonista intraprende una nuova relazione sentimentale, che sembra indirizzare la sua vita verso un'evoluzione più positiva. Ma non tutto è come sembra, e l'esistenza reale di uno dei protagonisti (non dico di più per non rovinare quella che deve essere una sorpresa per lo spettatore) viene rimessa radicalmente in discussione. Nell'ultima immagine, gli amanti dormono abbracciati in un letto, in un'immagine malinconica ed enigmatica. Sembrerà impossibile, ma questa è la sinossi non di uno ma di due film, che per una straordinaria coincidenza escono sugli schermi cinematografici italiani a distanza di poche settimane l'uno dall'altro. A me è capitato di vederli a pochissimi giorni di distanza e mi hanno provocato un tale corto circuito mentale che devo davvero fare uno sforzo per distinguerli l'uno dall'altro. Sono rispettivamente Estranei (All of Us Strangers), del regista inglese Andrew Haig (Weekend, 45 anni, Charley Thompson), uscito il 29 febbraio, e Another End, dell'italiano Piero Messina (L'attesa), previsto in uscita il 21 marzo. Certo, le differenze, ovviamente, abbondano: in Estranei i famigliari defunti sono due, il padre e la madre (Jamie “Billy Elliot” Bell e Claire Foy), morti sulla strada quando Adam (Andrew Scott), oggi uno scrittore adulto che si confronta con la propria storia famigliare, aveva solo 12 anni. Adam si incontra con i loro fantasmi (“presenti” in modo realistico; ma con l'età che avevano quando sono mortie consapevoli di esserlo) nella casa dell'infanzia. Adam ha così modo di rivelare loro la propria omosessualità, che al momento della loro scomparsa era, in lui ragazzino, solo latente, e cerca disperatamente da loro comprensione, rispetto, accettazione. Il suo nuovo amante è quindi un uomo (Paul Mescal), l'estraneo del piano di sotto, bizzarramente l'unico coinquilino in un grande caseggiato nel sobborghi di Londra non ancora abitato. In Another End la persona cara scomparsa prematuramente è la moglie del protagonista Sal, che vive in una città non nominata, modernamente anonima, dove si parla inglese (anche se lui parla in spagnolo con la sorella: Garcia Bernal è di origine messicana, Berenice Bejo argentina). L'occasione per incontrare di nuovo la moglie morta è fornita a Sal dalla scienza, che è ora in grado di impiantare in ospiti volontari, per periodo limitati di tempo, la personalità e i ricordi appartenenti a cari defunti. L'operazione vanta un dubbio valore terapeutico: ovviamente Sal non riuscirà più a staccarsi dalla donna (c'è un punto in cui il film incrocia precisamente uno snodo de La donna che visse due volte), che è un po' la moglie (con la quale deve rielaborare il rimpianto di non avere avuto un figlio, a causa delle proprie paure), un po' una donna sconosciuta, che a sua volta ha avuto un lutto e ora deve faticosamente cercare una nuova ragione di vita. Non aggiungo di più sui rispettivi finali, che, pur non nelle rispettive differenze, adottano un analogo twist narrativo, con la rimessa in gioco dello statuto ontologico dei personaggi protagonisti, e si chiudono entrambi su un'immagine plastica praticamente sovrapponibile. Ho trovato assolutamente singolare comunque la consonanza dei due film nel trattare in modo immaginifico lo stesso pressoché identico tema, ovvero quello della possibilità di confrontarsi con i propri fantasmi affettivi e sentimentali, di dire finalmente le parole che non si sono mai dette, di risolvere questioni esistenziali che non si è saputo o potuto affrontare - anche perché è mancato drasticamente quel tempo che si credeva di avere a disposizione. Lo spunto da fantascienza o da ghost movie è solo un labile pretesto narrativo per mettere in gioco un teatro mentale dove si rappresenta la resa dei conti con se stessi e con i fantasmi della propria coscienza e della propria storia individuale e famigliare. Another End (decurtando il titolo si ottiene l'espressione “not here”, poiché si ha a che fare con persone che non sono più qui, cioè tra noi, ma anche “the end”, come esplicita il trailer del film) in ossequio alla sua natura pretestuosamente fantascientifica, si apre con un paio di sequenze ad effetto. In una Sal si reca dall'anziana vicina per aiutarla a riparare un guasto domestico. Mentre la signora offre un tè a Sal e chiacchiera abilmente, il marito dorme sul divano, con il giornale aperto sulle ginocchia. Poi arrivano degli inservienti che cominciano a trafficare intorno all'anziano. Non sono badanti o infermieri: lo impacchettano in un involucro e lo portano via, nell'indifferenza della moglie, come se fosse un cadavere. Nella sequenza successiva siamo in un hangar gigantesco, dove sono stesi moltissimi corpi, chiusi in involucri simili. Poi i presunti cadaveri si risvegliano, aprono dall'interno le cerniere dei rispettivi involucri, si alzano e si incamminano. Ma la parte preponderante di entrambi i film si svolge in realtà in ambienti domestici, sottolineando la dimensione intimistica ed emozionale della narrazione, con pochissime sequenze girate all'esterno (in un'ennesima consonanza o rima visivo-narrativa, in entrambi i film c'è un'importante sequenza girata in discoteca). L'ambiente urbano è sempre impersonale e anonimo: in Estranei Adam (il primo uomo, in attesa di un compagno tratto dalla propria costola) vive in un grande condominio disabitato, e Londra è solo un remoto skyline visto alla finestra; in Another End Sal vive ormai solo nel suo appartamento, in una città senza nome dall'aspetto moderno e scostante. Gli interni (la casa dei genitori di Adam, quella di Sal) hanno invece una dimensione un po' vecchia, vagamente claustrofobica, dove si ascoltano vecchi vinili o si guardano film dal divano del salotto. Anche l'ambientazione è costantemente crepuscolare: il mondo di Another End è grigio e piovoso, mentre dalla finestra di Adam si vede incombere sul lontano skyline della città un sole costantemente rosso, come in un eterno estenuante malato tramonto.
Perfino le personalità dei protagonisti maschili hanno delle consonanze: se Adam è un gay (o queer - nel film si discute della definizione più appropriata) dichiarato, e chiaramente la parte passiva e più femminile della coppia che si viene a formare con il vicino Harry, Sal sembra rappresentare il lato meno virile del triangolo (o quadrilatero) formato con la moglie Zoe (interpretata da Renate Reinsve, che supera vistosamente anche in statura fisica il “piccolo” Gael Garcia Bernal) e con la sorella Ebe (ed eventualmente con Ava, “ospite” della personalità di Zoe). Entrambi i film infine adottano un twist finale che dovrebbe sorprendere lo spettatore con una rivelazione a sorpresa. E' un ribaltamento esistenziale-ontologico di cui Philip Dick fu un precursore in letteratura e che ormai abbiamo già visto più volte sullo schermo in diverse declinazioni (da Il sesto senso a The Others a Sto pensando di finirla qui). Evidentemente sono due film che, per i temi toccati e per il tono della narrazione - in entrambi i casi calibrato sulle emozioni dei protagonisti, sui loro rimpianti e rimorsi, sui loro sensi di colpa e sul desiderio di poterli fugare con un confronto postumo con le persone più importanti della loro vita, sul loro amore e sul bisogno di riceverne - toccano o possono toccare profondamente la sensibilità di spettatori e spettatrici. Con qualche veniale difetto. Ad Estranei imputerei soprattutto il rischio di sfiorare in qualche occasione il ridicolo involontario (v. le scene in cui i protagonisti discutono disinvoltamente della propria morte o dei tempi moderni che ne sono seguiti; o, peggio, quella in cui Adam, adulto, veste un pigiamino da dodicenne e si mette a dormire tra i genitori nel letto matrimoniale); a Another End (che deve superare nella fase iniziale la difficoltà di rendere comprensibile la situazione evitando l'effetto “spiegone”) qualche goffaggine in certi aspetti della narrazione (le parti del laboratorio o del bordello), una certa durezza della Reinsve ed un finale un po' troppo affrettato, non si sa se più ambiguo o più confuso. Direi che vale comunque la pena di vederli. Seguirà dibattito: inevitabilmente, principalmente con se stessi. UN ALTRO FERRAGOSTO di Paolo VirzìSembra che non sia mai una buona idea dare un seguito a distanza di tempo a film che in qualche modo hanno segnato un'epoca. Nemmeno se sono gli stessi autori (e gli stessi attori, quando possibile) ad interpretarli. Non è difficile immaginarlo a priori, e la casistica ormai potrebbe dar luogo ad una legge enunciabile. Raccontare Vent'anni dopo potevano andare bene per Alexandre Dumas, che non doveva confrontarsi con la cruda e tangibile realtà dell'invecchiamento fisico dei personaggi – e che comunque pubblicò il romanzo poco dopo I tre moschettieri. Ma non ad esempio per i Blues Bothers (che tornarono 18 anni dopo senza Belushi); o per i trainspotter di Boyle (20 anni dopo); o per i blade runner, replicati negli anni in una serie di director's e final cut e poi riassemblati da Villeneuve (che se ne è nel frattempo pentito) 35 anni dopo gli originali; o per Un uomo una donna, tornati con una ventina d'anni in più per una ballata da vecchi amanti; o per Il regalo di Natale di Avati, con rivincita al tavolo da gioco 15 anni dopo; o per i Comedians di Salvatores, riesumati lugubremente – con tutti gli attori cambiati - da un celebre spettacolo da lui diretto al Teatro dell'Elfo addirittura 36 anni prima e già portato sullo schermo in forma apocrifa 33 anni fa.
Un altro ferragosto non sfugge alla legge. 30 anni fa, Ferie d'agosto aveva rappresentato icasticamente l'Italia nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, con la sinistra sempre perdente contro il predominio democristiano che si apprestava a perdere di nuovo – con onore? - di fronte alla marea montante del berlusconismo, del suo edonismo pacchiano, della sua volgarità intellettuale, della sua immoralità corrotta e corruttrice. Ora, per rappresentare l'evoluzione, o l'involuzione, della società italiana, Paolo Virzì, cosceneggiatore con il fratello Carlo e con Francesco Bruni, riconvoca di nuovo sulla piccola isola di Ventotene i rappresentanti delle famiglie Molino e Mazzalupi, i protagonisti di allora. O, per lo meno, i sopravvissuti, visto che alcuni degli interpreti sono scomparsi prematuramente, come Ennio Fantastichini o Piero Natoli. Chi non è morto – ovviamente - è invecchiato (anche se Sabrina Ferilli ha sempre un suo perché, malgrado i 30 anni di più); Silvio Orlando è impressionante per credibilità nel ruolo dell'anziano Sandro Molino, ex giornalista de l'Unità, che comincia a perdere forze, memoria e trebisonda: il combattivo intellettuale di sinistra si è trasformato in un vecchio che detta al giovanissimo nipote velleitarie lettere da mandare a Ursula von der Layden per la tutela della memoria storica di Ventotene, terra di confino per molti antifascisti durante il ventennio; che predica un'ormai smarrita “igiene delle parole” e che fa sogni in bianco e nero dove dialoga con Pertini e Spinelli mentre fischia il vento e dove viene accusato dalle donne partigiane, forse non a torto, di non saper amare, vivere e divertirsi. Invece di partire in barca imbracciando il mitra per andare a liberare l'Italia e costruirne una migliore, come nei suoi sogni, scomparirà in ambulanza inseguito dalla moglie e dai famigliari afflitti, come se fosse Roma città aperta. La moglie Cecilia (Laura Morante), che da sempre si sente trascurata dal marito, nel frattempo si è trastullata e angustiata nevroticamente con il sogno di nuove avventure erotico-sentimentali, e il figlio (la new entry Andrea Carpenzano) ha fatto soldi inimmaginabili con una app e ora si accompagna ad un fatuo amante ossigenato. Roberto (Gigio Alberti) continua a non avere né arte né parte, eterno playboy fricchettone sgualcito e squattrinato, mentre Mauro (Silvio Vannucci), aspirante attore, e ora imprenditore turistico a Ventotene, organizza squallidi festival di cinema alternativo (dove lui è protagonista) per quattro spettatori che non hanno di meglio di fare per passare la serata. Dall'altra parte della barricata la Sabri da bruttina complessata (Vanessa Marini nel primo film) è diventata una bruttina stagionata (Anna Ferraiol Ravel); è sempre ignorante, ma anche lei ha fatto talmente fortuna sul web, con dei tutorial di cosmesi con cui consola e fa sperare bruttine come lei, da essere sul punto di sposarsi (in diretta social, ovviamente) con un cinico e buzzurro cacciatore di dote (Vinicio Marchioni), e da essere corteggiata anche dagli emissari di un partito destrorso molto molto simile a Fratelli d'Italia, che, ingolositi dal numero esorbitante dei suoi follower, le offre una prestigiosa e inopportuna candidatura; la bella Marisa (Ferilli), rimasta vedova ma sempre frustrata da una vita che non la soddisfa, ha cercato un nuovo compagno in Pierluigi-Nardi-Masciulli (Christian De Sica), un maneggione inguaiato che i suoi stessi figli cercano di fare interdire. Ma insieme ai personaggi sono invecchiati anche Virzì e gli autori, e, malgrado la professionalità nella scrittura e nella regia e la lucidità della visione, qualcosa non funziona più come una volta, e l'ironia, l'umorismo, il gusto socioantropologico, la malinconia e la poesia di Ferie d'agosto non ritornano più allo stesso modo in questo Ferragosto. La rappresentazione dell'Italia (e del mondo) odierno sembra in certi momenti più enunciata che messa in scena, i vizi e i problemi contemporanei più elencati che incarnati, e le macchiette stentano (anche se la struttura corale lo rende difficile) a farsi personaggi di carne e sangue. C'è nel film una vena senile, catastrofista, per certi versi rassegnata, che sembra coerente con l'apocalisse già annunciata da Virzì nel precedente Siccità, che pure aveva dalla sua lo scarto fantastico. Qui invece è proprio un nuovo scarto che manca, si sente un po' il peso della ripetizione, e i personaggi girano intorno ai ricordi e ai rimpianti, tra qualche pudico e veloce flash delle passate Ferie d'agosto e i ritratti dei defunti incorniciati sul comò. Tra social e app, gender fluid e omofobia, tatuaggi e wedding planner, radical chic e influencer, inglesismi e neologismi, fascismo in doppiopetto e sinistrismo sterile e autocondannato alla sconfitta, discoteche anni '80 e stornellate di chitarra acustica, la varia umanità si muove sotto un cielo estivo reso plumbeo dall'aria dei tempi di cui si parla, tra guerre mondiali già iniziate e cataclismi climatici forse già inarrestabili. La commedia all'italiana (in una parabola non inedita) perde il suo afflato progressista e in certo modo pedagogico per farsi tetra, scorata e un po' livorosa rappresentazione del presente. Nel passaggio generazionale succede che i vacanzieri di Un altro ferragosto, come i Comedians di Salvatores, sono grotteschi ma non fanno più ridere, non suscitano il sorriso, non inseguono speranze ma bensì destini di frustrazione. A passarsela meglio in fondo sono quelli che stanno “dall'altra parte”, che pensano che i confinati politici trascorressero il tempo tra happy hour e passeggiate a mare; quelli meglio organizzati, più determinati, più avidi, con meno scrupoli, con più sete di soldi e di vita. A Molino, invece, non resta più il tempo nemmeno per una prossima vacanza al mare. PALAZZINA LAF di Michele RiondinoMichele Riondino figlio di un ex-lavoratore dell’Ilva, lascia Taranto a vent’anni per seguire la propria vocazione artistica e andare a frequentare l’Accademia d’arte drammatica, ma probabilmente anche per sfuggire ad un destino su cui grava l’ombra dell’acciaieria che opprime la città e condiziona il destino dei suoi abitanti.
Eppure i legami non sono certo recisi, anzi: l’attore e regista è impegnato nel Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti e, insieme a Roy Paci e al concittadino Diodato, è il direttore artistico del concerto del Primo maggio di Taranto. Ora anche con il suo primo film da regista cinematografico torna sul luogo dei delitti: la Palazzina Laf del titolo è infatti un edificio fatiscente all’interno dell’acciaieria, che fu utilizzato in passato per “esiliare” i lavoratori indesiderati. Quando la Riva prese il controllo dell’ex-Italsider, nella seconda metà degli anni ‘90, elaborò un piano di ristrutturazione che prevedeva la dismissione del personale in esubero e la quasi totale eliminazione del personale impiegatizio. La palazzina Laf arrivò ad ospitare un’ottantina di lavoratori, confinati in uno spazio concentrazionario sorvegliato da vigilantes, senza mansioni, costretti ad un’inazione alienante. La scelta che veniva loro data era di togliersi di mezzo lasciando l’azienda oppure riconvertirsi assumendo mansioni operaie, dequalificandosi ed andando a svolgere un lavoro per il quale non possedevano né capacità né competenze, e a volte neppure le condizioni fisiche sufficienti. Riondino si getta mani e piedi, già con piglio d'autore, in un’opera prima schiettamente, fortemente politica: prova ne è che l’Ilva ha cercato di impedire le riprese all’interno di quella che è la più grande acciaieria d’Europa (parte delle riprese sono state effettuate nella “sorella” piombinese); un altro paradosso se si considera che la vecchia Italsider, magnificata dalla penna di Carlo Emilio Gadda, si fece rappresentare da scultori come Calder, Moore, Pomodoro e commissionò opere cinematografiche tra gli altri a Rossellini (L’età del ferro) e ai fratelli Taviani. Il suo posizionamento è però, senza che questo sia un demerito, doppiamente rivolto al passato, sia dal punto di vista narrativo che da quello cinematografico. Sotto il primo aspetto, Riondino mette il filtro del tempo tra un'attualità che ancora oggi, mentre sto scrivendo questo articolo, è materia d'attualità per i notiziari, e una storia paradossale ormai lontana nel tempo; la vicenda della Palazzina Laf diventa un emblematico episodio germinale che rispecchia in forma embrionale la condizione di ricatto alla quale verranno sottoposti per decenni i lavoratori e gli abitanti di Taranto, costretti a scegliere tra il lavoro e la vita e la salute, tra uno stipendio che permetta di mantenere la famiglia e il rischio di morire negli incidenti sul lavoro o per effetto dei veleni cancerogeni prodotti dalle lavorazioni dell’acciaieria. Nello stesso tempo, il tono adottato dal film è quella della commedia sociale “nera” che ha caratterizzato parte della commedia all'italiana degli anni '70, da Scola a Monicelli, che non escludeva il ricorso al grottesco e al paradossale; qui in particolare il referente più diretto e naturale è ovviamente La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri (1971), cui Palazzina Laf rimanda sotto diversi aspetti: la rappresentazione della condizione operaia raccontata “dall'interno”, la polemica dei protagonisti contro l'azione (o l'inazione) dei sindacati, il protagonista “negativo” che si asserve volontariamente alla logica dei padroni, e perfino la femminilizzazione ironica del nome del protagonista, Lulù ne La classe operaia, Caterino nella Palazzina Laf, (in entrambi i casi invece si tratta di maschi eterosessuali, per quanto messi in difficoltà dallo stress lavorativo). Come il Lulù interpretato dall'istrionico Gian Maria Volontè era l'alfiere stakanovista del cottimo, funzionale al sistema produttivo intensivo e sfruttatore, Caterino, pur di entrare nel surreale paradiso del non-lavoro della palazzina Laf, si mette a disposizione del padrone per spiare i colleghi e prevenire ogni contestazione nei confronti della proprietà. Questo tradimento alla solidarietà di classe, in entrambi i casi, non è privo di conseguenze: Lulù vede la sua vita andare in rovina, il suo corpo andare letteralmente a pezzi e la classe operaia accedere ad un onirico paradiso invisibile in una nebbia fittissima; Caterino sogna di partecipare alla processione della Settimana santa di Taranto immortalato nella figura di Giuda traditore. Per entrambi l'orizzonte di fuga è quello della pazzia e dell'alienazione: Lulù le contempla in un compagno di lavoro ricoverato in manicomio; Caterino, prima di avviarsi ad un autodafé che non sembra generare alcuna catarsi, le vede quotidianamente all'interno della palazzina Laf, dove i lavoratori mobbizzati manifestano (in forma anche caricaturale) i segni della depressione o delle manie ossessive. Riondino si autoassegna con ironia lo sgradevole ruolo di Caterino, che tradisce la fiducia dei compagni e asseconda di buon grado le losche manovre padronali - senza nemmeno essere in grado di comprendere le possibili conseguenze delle proprie azioni -, che si fa internare per non lavorare, ma nello stesso tempo giustifica la proprietà che vuole liberarsi del personale in esubero e disprezza come scansafatiche i lavoratori che non si adattano ad assumere nuove e dequalificanti mansioni. Nel gioco di maschere negative, Riondino trova un complice ideale in Elio Germano, che a sua volta si rende perfettamente detestabile nel ruolo del funzionario Ilva con cui l'operaio contratta le proprie delazioni, un dirigente cinico negli obiettivi e viscido nei modi e nell'aspetto. A rimanere fuori scena paradossalmente, ma consapevolmente, è proprio la città di Taranto, relegata ad uno sfondo lontano. Della città si vedono solo delle fermate dell'autobus in periferia, di uno squallore surrealista; gli ambienti della fabbrica e della palazzina Laf; un balcone affacciato su una piazza dove i ragazzini giocano a pallone, ma sotto le silhouette delle ciminiere della fabbrica, che permette ai loro padri di portare a casa il pane ma nello stesso tempo dispensa malattie e tumori con suprema indifferenza e imparzialità. ADAGIO di Stefano SollimaAdagio si basa su due prese di posizioni radicali ed evidenti, che ne costituiscono i punti di forza e contemporaneamente potevano essere elementi di appesantimento (e fortunatamente non è così).
La prima è assumere come (anti)eroi del film i rappresentanti di una generazione di malavitosi arrivati all'ultima spiaggia della vita: segnati da un passato violento, dal carcere, malandati, soli o male accompagnati, abitanti in alloggi squallidi e fatiscenti, ciechi, dementi, malati. Animali invecchiati male, che sembrerebbero solo voler morire nelle loro tane senza che nessuno gli rompa più i coglioni. La seconda è che la città è vecchia, malata, fatiscente, sull'orlo di una catastrofe apparente. La Roma della Storia, quella dal fascino millenario, è assente dal film. Come i suoi personaggi, che forse in altri tempi hanno vissuto anni d'oro di vite belle, ricche e violente, ora anche la città è ripiegata sui suoi margini, sulle sue periferie piagate e ripiegate sui suoi edifici anonimi, che sembrano tenuti insieme dai viadotti delle tangenziali. I suoi orizzonti sono perennemente arrossati da un incendio che sembra inestinguibile, come rosi da un neroniano cupio dissolvi; la sua aria è percorsa da faville, i suoi cieli, percorsi dal rombo degli elicotteri come in un'Apocalypse Now borgatara, piovono cenere. E' in questa città che si dipana l'ultima avventura di tre ex-amici-nemici, che condividono un passato di crimini, di violenze e di colpe, anche reciproche. Un ragazzo quasi imberbe (il freschissimo esordiente Gianmarco Franchini) che si è fatto incastrare in un gioco pericoloso è il filo che torna a legarli uno all'altro (i tre coprotagonisti, Servillo, Mastandrea e Favino, nel film i tre insieme non si incontrano mai, se non in vecchie fotografie sbiadite), e tutti e quattro alla loro nemesi, il carabiniere corrotto (Giannini) che ha ordito la trama di un'operazione illegale sfuggitagli subito di mano. I tre vecchi vengono coinvolti in una storia che non li riguarda, ma che porta con sé di nuovo, come il rigurgito mortale di un passato mai completamente digerito, sofferenza, violenza, morte. L'Adagio che dà il titolo al film indica un tempo musicale lento o molto lento, largo e formale, apparentemente adatto all'età dei protagonisti (due di loro, per darsi un appuntamento segreto - per dire - scelgono la sala d'aspetto di un'Asl); ma Sollima, che si è costruito un solidissimo mestiere in Italia (Acab, Suburra) e all'estero (Soldado, Senza rimorso), al cinema e alla tv (Romanzo criminale, Gomorra, ZeroZeroZero) e si ormai accreditato come il più autorevole rappresentante del cinema di genere in Italia, costruisce in realtà un noir duro, teso, nichilista, con una colonna sonora che va dalla trap alle composizioni originali dei Subsonica, fino al Califano di Tutto il resto è noia, scelto per commentare musicalmente il trailer per il suo carattere nostalgico e insieme pervaso da un ruvido e romanesco tedio esistenziale. Se gli elementi più deboli del film si concentrano soprattutto nell'innesco narrativo (un'operazione di dossieraggio che non sembrerebbe meritare né tanta elaborazione e dispiego di mezzi né lo spargimento di sangue che ne consegue) e, ancora più stranamente, nel finale, con una sparatoria nell'affollatissima stazione Tiburtina, Sollima (con il cosceneggiatore Bises) ha però l'astuzia di aggiungere alla trama noir alcuni elementi metaforici forti, che attribuiscono al racconto un valore aggiunto. Oltre a quelli insiti nelle situazioni di partenza, già indicati all'inizio (la senescenza degli uomini e della città), si veda ad esempio l'insistenza evidente sulle chiavi e sulle serrature, che dovrebbero tenere bene serrate delle porte che in realtà non riescono in una sola occasione a tenere fuori il passato e la pervasività inarrestabile della violenza. Ma se non ci si può rifugiare in un luogo sicuro, nemmeno la fuga è possibile, e i tentativi di lasciare la metropoli infestata sono frustrati dallo scacco, in una città imprigionata dalla propria stessa (auto)distruzione. Sollima (grazie anche alle scenografie e alla fotografia affidate rispettivamente ai fidati Paki Meduri e Paolo Carnera) dirige l'elegia funebre del suo romanzo criminale con un gusto visivo ruvido e nello stesso tempo elegante e autorevole, conducendo i suoi derelitti personaggi verso un esito che è iscritto nella natura stessa del noir, e che è forse eccessivamente sottolineato negli epitaffi visivi che chiudono il film. In un mondo di uomini dove i personaggi femminili sono praticamente assenti o ininfluenti, un Mastandrea cieco, un Servillo tarlato da una demenza senile vera o simulata, un Favino senza capelli sfigurato dalla malattia, si divertono (nella cupezza generale) alle prese con ruoli all'americana, trasformistici e virtuosistici, umorosamente caratterizzati fin dai nomignoli (Paul Newman, Daytona, Il cammello). Giannini (affiancato da Francesco Di Leva) si fa efficacemente carico della darkness del suo "cattivo tenente", mentre Franchini porta una ventata di sventata incoscienza e di ingenuità in un mondo che ha visto tutte le sfumature del noir e tutte le brutture dell'esistenza. In definitiva, Adagio (insieme a L'ultima notte di Amore, con Favino protagonista affiancato dall'ottima Linda Caridi) è sicuramente uno dei migliori noir dell'anno, in grado di non sfigurare al confronto con i modelli francesi o d'oltreoceano. C'E' ANCORA DOMANI di Paola CortellesiC'è ancora domani, che già di per sé è un titolo consolatorio, ha messo d'accordo tutti, pubblico e critica, come raramente succede - soprattutto per un film italiano.
E si tratta di un film in bianco e nero, in dimessa veste neorealista, che tratta un tema pesante come la violenza domestica e di genere; non insomma - con rispetto parlando - di un film di Checco Zalone o di Aldo Giovanni e Giacomo, di quelli che mettono d'accordo tutti sul piano di una comicità schietta con una problematicità tematica quasi sempre ridotta ai minimi termini o trattata comunque attraverso toni comico-satirici. I pregi del film sono già stati messi ampiamente in rilievo: il riallacciarsi ad una delle più gloriose eredità del cinema italiano (il neorealismo appunto, che qui già si vena di commedia, per quanto nera); la capacità di raccontare un tema grave con leggerezza; le invenzioni linguistiche (la violenza girata come un musical); l'uso di canzoni contemporanee; la capacità di riallacciare una vicenda individuale ad un cambiamento epocale della storia e della società italiana, ecc. Ma le reazioni che ho letto, anche sui social, con la loro forte componente affettiva ed emozionale, mi fanno pensare che il film abbia suscitato qualcosa di più che l'apprezzamento per un bel film, e che abbia invece intercettato qualche bisogno più profondo del pubblico italiano. Da una parte c'è indubbiamente la personalità di Paola Cortellesi, che non è solo una show woman eccezionale, che è riuscita in tutti i campi in cui si è cimentata (comica, cantante, conduttrice, attrice televisiva, cinematografica e teatrale, sceneggiatrice, regista di videoclip, ecc.), ma che ben può rappresentare l'emblema della donna contemporanea realizzata: coraggiosa, capace, intelligente, emancipata, artefice del proprio meritato successo; e tutto questo dando di sé un'immagine sempre sorridente, positiva, ironica ed autoironica. Proprio questa sua autorevolezza le permette di mettere qui in gioco con altrettanta credibilità una componente più dolente e drammatica – con il viso stesso esibito nella sua nudità e spigolosità -, nel ruolo di una casalinga-lavoratrice-moglie-badante-madre di famiglia, vittima, in ogni e ciascuno di questi ruoli, di una sopraffazione di origine patriarcale. Ma forse c'è qualcosa di più, e ho pensato che uno delle cause “nascoste” più rilevanti nel determinare il successo film sia proprio quella che è in realtà più eclatante e sotto gli occhi tutti, ovverossia la sua esibita matrice neorealistica. C'è ancora domani è lontanissimo dal cinema del reale così come lo concepiamo oggi, e il suo punto di partenza è quindi un modello squisitamente cinematografico e dichiaratamente finzionale. Ma forse il pubblico, tra le mille e mille proposte che il cinema e la televisione gli offrono, a volte in modo frastornante, nel campo della fiction, proprio di questo aveva inconsciamente bisogno: di un film diverso perché simile a quello lontano nel tempo, apparentemente dimenticato ma radicato nell'inconscio collettivo e di ciascuno di noi (persino, forse, degli spettatori più giovani); di una proposta dall'apparente semplicità e freschezza proprio perché assimilata ad un cinema passato (ri)nascente e quasi primigenio. Un film che riparte quindi dalle origini della storia (perché tutto ciò che sta prima del neorealismo appare davvero come preistoria), da un paese e da un cinema che deve ricostruirsi dalle proprie macerie materiali e morali, e perfino estetiche: C'è ancora domani riparte dal bianco e nero e grigio in appartamenti seminterrati; dai cortili popolari dove si parla e si sparla e dove i bambini corrono e schiamazzano; dagli uomini in canottiera e dalle donne in parannanza; da un epoca in cui la Repubblica italiana neppure esisteva. Nella musica è successo con i Måneskin, che hanno resuscitato dal tempo dei vinili l'energia basica del rock, intercettando un bisogno evidentemente latente, una nostalgia collettiva – dopo tutte le declinazioni di pop, rap, trap, techno, latino, e chi più ne ha più ne metta - che magari nessuno ancora sapeva di provare. E come i Måneskin resuscitano il rock, ma con la malizia e il bagaglio tecnico e musicale di chi fa musica oggi, e non nel negli anni '70 del secolo scorso, così Cortellesi reinterpreta il neorealismo e il cinema degli anni '40-50, ma iniettandovi una sensibilità tematica - etica e sociale - contemporanea e con una consapevolezza linguistica aggiornata ai tempi. Così ad esempio usa il ralenti dove il neorealismo nemmeno se lo sarebbe immaginato; fa una lunga carrellata circolare intorno a Delia e Nino, per mostrare la loro infatuazione, come Fassbinder girava intorno alla coppia dei suoi protagonisti (il primo esempio che mi ricordi) con una steadycam a 720°; usa una canzonetta come commento ad una scena di brutale violenza, come hanno fatto Kubrick in Arancia meccanica, o più recentemente Bong Joon-Ho in Parasite o la Ducorneau in Titane; usa canzoni contemporanee in contesti anacronistici come ha fatto, ad esempio, la Niccharelli in Miss Marx. Non sto parlando di citazioni o omaggi, né tanto meno di copiature; sto solo dicendo che la Cortellesi usa (naturalmente) un linguaggio contemporaneo impiantandolo sul modello di un cinema d'altri tempi. Parte da una sensazione di semplicità, quasi di naïveté, per introdurre uno stile e dei temi che trascendono il prototipo per farsi cinema dei nostri tempi, capace di attrarre l'attenzione e il favore dello spettatore contemporaneo. Mi sorge il dubbio di stare dicendo delle banalità, ma credo che proprio qui risieda la radice del fascino che il film ha riscosso tra gli spettatori; nel twist tra una promessa di rassicurante semplicità e una sensazione di gratificante complessità. Un'operazione analoga, e qui azzardo sempre di più, a quella compiuta dalla Gerwig con Barbie: partire da un gioco infantile universalmente riconosciuto e riconoscibile, a suo modo tranquillizzante, per iniettarvi poi un pensiero femminista molto contemporaneo e attuale, tutt'altro che puerile; e, per fare invece un esempio negativo, è l'operazione che invece non è riuscita ai Manetti Bros con Diabolik: anche loro sono partiti da un'icona “semplice”, ma hanno commesso l'errore snob di mantenerne filologicamente intatta la semplicità ingenua e vintage, pensando bastasse a se stessa, senza apportare forti elementi nuovi drammaturgici o stilistici. Non nascondo che non tutto mi ha convinto in C'è ancora domani, a partire da un didascalismo insistito e da alcune soluzioni stilistiche e narrative (tra queste ultime, ho trovato davvero fuori luogo quella relativa al nero della Military Police e all'attentato al bar dei futuri suoceri); ma onore a Paola Cortellesi per il risultato conseguito. Perché sembra facile ma non lo è; onore quindi al carattere che ha costruito (una Delia che sarebbe probabilmente piaciuto ad Anna Magnani); alla rappresentazione di un'Italia che rinasce ma che – tra delatori e borsaneristi – si porta non pochi pesi sulla coscienza; all'intuizione di un finale emozionante dove il riscatto da una sopraffazione individuale patita passa per un atto di libertà e di partecipazione collettiva, come le storiche elezioni del 2 giugno 1946; per avere avuto l'illuminazione di una sequenza finale che materializza visivamente l'inno resistenziale e resilienziale di Daniele Silvestri, che canta: E senza scudi per proteggermi né armi per difendermi Né caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi Con solo questa lingua in bocca E se mi tagli pure questa Io non mi fermo, scusa Canto pure a bocca chiusa ____________________________________________________________________________________________ ...ma al maligno Oruam Norac è rimasto qualche dubbio: leggi qui le sue riflessioni su Face/Off LUBO di Giorgio DirittiNell’incipit del film una compagnia di artisti da strada si esibisce nella piazza di una cittadina svizzera nel Cantone dei Grigioni, in un giorno del 1939. C’è un orso che balla, ma poi si accascia al suolo; ma non è un vero orso: il suo ventre si apre e ne scaturisce una zingara che suona un’armonica; ma non è una vera zingara: il suo volto è quello di un maschio baffuto. La scena sembra prefigurare il destino dell’uomo, Lubo, costretto prima a vestire una divisa militare invece dei suoi pittoreschi vestiti, poi a nascondersi sotto altri abiti e altre identità, fingendo e dissimulando per buona parte della sua vita. Siamo infatti alla vigilia della Guerra mondiale, e la Svizzera arruola forzosamente il nomade Lubo (appartenente all’etnia degli Jenitsch), per sorvegliare i confini nel timore di un’aggressione tedesca. Ma mentre Lubo è lontano dalla famiglia, entra in azione anche il piano del governo svizzero per aiutare i bambini di strada, un progetto pseudo-umanitario che si propone di sanare la piaga del nomadismo: ovvero, il governo si appropria dei bambini senza genitori o che vivono in situazioni disagiate e li ricovera in istituti, dove in teoria dovrebbero essere istruiti e integrati nella società, mentre in realtà vengono avviati all’adozione da parte di famiglie di svizzeri senza figli, o di contadini che hanno bisogno di braccia in più per i lavori pesanti. Da un giorno all’altro, Lubo, che sta prestando il suo servizio in mezzo alle montagne nevose, si trova privato di tutta la sua famiglia: i suoi tre bambini vengono sequestrati dal governo, sua moglie (incinta) muore in una colluttazione con i gendarmi che le stanno portando via i figli, e il resto dei parenti fugge cercando rifugio in Francia. Lubo continuerà testardamente per anni a cercare di rintracciare i propri figli, scomparsi e dispersi; ma, da vittima ferita profondamente nei propri affetti più cari, si renderà ben presto colpevole di atti nefasti, per i quali non sembra provare alcun rimorso ma che determineranno il suo destino. Divenuto improvvisamente e fortunosamente molto ricco, Lubo dapprima profonderà energie e ricchezze per ritrovare i suoi bambini; poi proverà a ricrearsi una propria famiglia assumendosene il carico, ma i suoi sforzi sono puntualmente destinati allo scacco. La storia di Lubo è destinata a ripetersi, stavolta a causa del suo peccato originale, e tutto quello che ha perso lo perderà di nuovo. Il film da un lato mette in luce un episodio reale e poco noto degli anni della Guerra, in cui, proprio mentre la Germania trascina l’Europa nell'abisso del proprio demenziale incubo razzista, anche la civile e ordinata Svizzera intraprende una sua operazione eugenetica di pulizia etnica e di deportazione ai danni delle minoranze e dell’infanzia; ma dall'altro sceglie come protagonista un “eroe” ben poco edificante, un uomo che si macchia a sua volta di un omicidio efferato ai danni di un innocente (tra l’altro ebreo) e della sottrazione di beni e identità altrui. Diritti espande in un film di quasi tre ore lo spunto narrativo contenuto nelle poco più di cento pagine de Il seminatore di Mario Cavatore, tralasciando tra l’altro le conseguenze e gli strascichi tragici della vicenda principale - narrati nel romanzo ma omessi nel libro - e mettendo in ombra un aspetto della vendetta messa in atto da Lubo e preannunciato dal titolo stesso dell’opera letteraria. Nel libro, infatti, Lubo intraprende una metodica opera di seduzione di donne svizzere, al preciso scopo di ingravidarle e perpetuare in questo modo quella “razza” bastarda che il buon governo svizzero tentava di eliminare. Nel film questo aspetto è molto più sfumato, e le operazioni di seduzione da lui messe in atto verso tre donne appaiono piuttosto dettate dal desiderio (la moglie di un funzionario di banca), dall’utilitarismo (una signora dell’alta borghesia introdotta nelle associazioni “caritatevoli” che potrebbe aiutarlo nella ricerca dei bambini scomparsi) o dell’affetto sincero (una cameriera d’albergo italiana già mamma). Il tema della vendetta si potrebbe forse individuare solo nel secondo caso, dove l’oggetto della seduzione si è appena espressa contro il razzismo nei riguardi degli ebrei – tra i quali vanta degli amici perbene – salvo concludere invece con candide dichiarazioni a favore della sterilizzazione degli zingari, per il bene della società e dell’umanità. Riportato al suo nocciolo essenziale, il Lubo di Diritti è la storia di un personaggio due volte vittima della Storia e della propria storia, che emerge dalla devastazione di una perdita solo per andare ad incontrarne una nuova; un personaggio contraddittorio che reagisce alla sua condizione di vittima incolpevole solo per farsi carnefice a sua volta e scontare alla fine un duro prezzo per i propri crimini. Il protagonista trova una convincente ma non scontata incarnazione nella presenza ambigua di Franz Rogowski (attore tedesco che nel Freaks Out di Mainetti stava dall'altra parte della barricata, in divisa nazista), uno “zingaro bianco” con baffetti e pronuncia blesa, spregiudicato e determinato fino all’ossessione ma sensibilissimo agli affetti famigliari. Il film si inserisce con coerenza nella filmografia di Diritti, per ambientazione fisica e storica. Il trattamento della materia narrativa, come si diceva, si dilunga in una durata importante, procedendo a passo lento e soffermandosi sulla cura di dettagli e su aspetti della storia forse non essenziali. Volti, caratteri, paesaggi e ambientazioni funzionano benissimo nel delineare luoghi ed epoche, ma considerata anche la lunghezza del film, si poteva forse lavorare maggiormente sulla fluidità e la credibilità di alcuni passaggi drammaturgici decisivi. Rimane comunque l'inusuale coraggio di Diritti di raccontare una colpa storica poco conosciuta, mettendo al centro dell'attenzione una vittima a sua volta colpevole. IO CAPITANO di Matteo GarroneQuando ho visto per la prima volta il trailer di Io capitano mi sono chiesto come ci fosse arrivato Matteo Garrone in Africa (un progetto di delocalizzazione così radicale da parte di una autore europeo, un'immersione così profonda nella realtà di un altro continente, con una storia africana, attori e musiche africani, senza la presenza di un solo bianco sullo schermo, lo ritrovo a mia memoria in anni recenti solo nel Twist a Bamako del marsigliese Guediguian), e come si conciliasse una rappresentazione all'apparenza neorealista di una storia di migrazione con un percorso autoriale approdato alla figuratività barocca e favolistica di Pinocchio e de Il racconto dei racconti.
Mi sono così rinfrescato la memoria sulla filmografia di Garrone, e ne ho ricavato l'impressione che la costante del suo cinema (se ce n'è una, in un percorso che è comunque quello di un autore dotato di indubbia e fortissima personalità) è forse rintracciabile proprio nel suo rapporto con le diverse strategie di approccio al reale (ho scoperto di averne già scritto nel breve saggio Il falegname, l'alchimista e l'imbalsamatore, sul n. 222 di SegnoCinema del marzo 2020). Il cinema di Garrone può così trascorrere dal (neo)realismo quasi documentaristico al minimalismo sociologico e cronachistico delle prime opere; dall'iperrealismo noir de L'imbalsamatore e di Dogman al realismo grottesco e stilizzato di Gomorra e di Reality (ecco un titolo che è una dichiarazione di intenti e nello stesso tempo un tentativo di depistaggio); dai capricci barocchi e visionari dei film favolistici al realismo magico di Io capitano. In una sorta di sintesi si potrebbe dire che nell'ultimo film si incontrino gli estremi della sua carriera, dalle storie di ordinaria immigrazione di Terra di mezzo o Ospiti al racconto avventuroso e picaresco di Pinocchio, di cui Io capitano conserva del resto anche la strutturazione paratattica degli episodi. Come Marco e Ciro di Gomorra che aspirano il Paese dei Bengodi del benessere camorristico, come i discoli Pinocchio e Lucignolo che cercano il piacere eterno della Città dei Balocchi, così gli aspiranti musicisti senegalesi Seydou e Mossa sognano la fama e il successo che potrà essere tributato loro solo nella Terra promessa dell'Europa. Suggestioni mitiche a parte (si è molto speso il termine “odissea” per trovare un progenitore nobilitante del viaggio dei due ragazzi attraverso l'Africa – Appunti per un'Odissea africana si potrebbe quasi titolare, parafrasando forse non gratuitamente Pasolini), la potenza di Io capitano è però per una volta, fatto piuttosto inedito nel cinema di Garrone, nel nudo racconto dei fatti e nel messaggio umanistico e politico, che l'autore, in quest'epoca così terribilmente difficile, ha voluto addirittura epitomizzare nel titolo stesso del film. Gli stessi momenti onirici-poetici, che tanto posto hanno preso nella percezione degli spettatori e dei commentatori, sono solo due in tutti il film, e in entrambi casi rappresentano icasticamente il senso di colpa del protagonista e la forza del suo desiderio di ricucire una realtà che si va lacerando ogni giorno che passa, ad ogni passo del suo viaggio reale pieno di orrore e di terrore. In entrambi i casi si tratta di un ritorno (ci si riallaccia allora al tema dell'odissea omerica, che non è un viaggio verso l'altrove, come quello di Deydou e Mossa, bensì di un lunghissimo ritorno a casa): Seydou torna sui propri passi per redimere dalla morte una donna abbandonata nel deserto e farla volare nel cielo; Seydou torna in volo nel cielo fino a casa, per salutare la madre che ha deluso e ingannato. Ma l'intento di Garrone era quello di mostrarci, al di là delle fughe risarcitorie del sogno, la realtà “vera” della migrazione, così come raccontata da tanti testimoni, capovolgendo il punto di vista dal quale siamo solito guardarla come spettatori e abitanti dell'Occidente opulento e geloso. Non vedremo lo sbarco, ma una partenza ed un viaggio; non vedremo l'accoglienza e il respingimento, ma l'anelito e la spinta verso una meta agognata (non per sfuggire alla povertà o alla guerra, come si è spesso sottolineato, ma per l'aspirazione ingenua ma legittima ad una vita migliore); non il percorso di integrazione o di ripulsa, ma un viaggio doloroso dove (come nel romanzo di Collodi) la trasgressione al destino radicato nella propria terra comporta il rischio di perdersi e di venire derubati, di venire rapiti e torturati, di rischiare la morte, nel ventre di balena di un carcere della mafia libica o mangiati dai pesci sul fondo del Mediterraneo. Se io stesso fatico a liberare il film di Garrone dai suoi riferimenti mitico-favolistici, che peraltro non si sovrappongono mai (a parte le due sequenze citate) al registro eminentemente realistico della rappresentazione, occorre fare un passo a vanti e seguire Seydou nella sua presa di coscienza, nel suo percorso di maturazione, di crescita, di emancipazione. Seydou, che assume incoscientemente, per necessità e disperazione, la guida di un barcone pieno di profughi che deve affrontare la traversata del mare sconosciuto tra la Libia e l'Italia, al suo arrivo non sarà più il ragazzo ingenuo e sognatore che era all'inizio. E non sarà nemmeno un burattino di legno che si trasforma in un bambino obbediente e giudizioso. Perché Seydou non ha obbedito, ma ha preso il timone nelle sue mani; si è fatto (letteralmente) carico dei suoi simili; ha combattuto per salvare le loro vite; non ha permesso che nessuno morisse sulla sua barca (anzi, qualcuno vi ha visto la luce). In spregio agli europei chiusi nei loro egoismi e ai nostri connazionali che li vorrebbero morti o lontani dai loro occhi e del loro cuore, di fronte all'indifferenza di un elicottero rumorosamente e minacciosamente immobile sopra la sua testa, Seydou ha imparato o forse ha serbato una lezione incommensurabile che rivendica a gola spiegata: che nessuno si salva da solo e che l'impresa più grande che un uomo possa compiere è pensare agli altri e battersi per loro. Dopo i premi assegnati a Garrone e al protagonista Seydou Sarr alla Mostra del Cinema di Venezia (dove è stato premiato anche The Green Border di Agnieszka Holland, sul "confine verde" tra Bielorussia e Polona) , senza neppure ripassare la lista degli altri candidati, sono contento di vederlo rappresentare il nostro Paese (in un'epoca in cui i Fratelli sono solo d'Italia) agli Oscar 2024. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
|