IL MUTO DI GALLURA di Matteo FresiIl muto di Gallura può essere considerato come uno dei tentativi di rifondazione all'italiana dei generi. Ambientazione in paesaggi naturali, all'aria aperta; cavalli, fucili, pistole, vendette, agguati, sparatorie, falò, banditi, soldati dell'esercito: insomma, Il muto di Gallura appartiene decisamente al genere western, non più spaghetti ma semmai maloreddus western, ambientato infatti in Sardegna e parlato in sardo (con sottotitoli in italiano). Ma non siamo più negli anni 60 di Sergio Leone e come per molti altri film italiani che hanno ritentato la strada del genere si pone un problema di relazione culturale, cinematografica e stilistica con il genere d'origine, tra innovazione e adesione agli stereotipi, tra un prodotto che nasce locale (e vuole orgogliosamente, pudicamente, esserlo) e un archetipo di respiro globale. L'incertezza, o la sperimentazione, si rileva anche dal mix in colonna sonora, con la compresenza di musiche sarde, echi ed effetti palesemente morriconiani e musica elettronica, e dallo stile delle riprese, che alterna situazioni statiche e teatrali a movimenti di macchina o inquadrature da sotto in su che evocano una minimale epica terrena e “dal basso”. Ma l'equilibrio tra canone e innovazione non è facile da trovare, e forse l'esempio più miracolosamente felice rimane a tutt'oggi il Jeeg Robot di Mainetti che riparametra in chiave minimal e romanesca il mondo dei supereroi. Anche Il muto di Gallura, malgrado il protagonista sia un infallibile cecchino che non sbaglia un colpo decidendo le sorti di una sanguinosissima faida che divide due gruppi famigliari (la storia è vera, e conta una settantina di morti in una manciata di anni), manca purtroppo il bersaglio. Il film descrive, non nascondendo una certa fascinazione e giocando anche sui costumi tradizionali sardi e sul peculiare panorama della Gallura, un mondo duro, arcaico, testardo, che sopporta stoicamente per il culto dell'onore e della vendetta perdite famigliari immense pur di illudersi di punire nemico; tra uomini stolidamente impassibili e granitici al pari delle rocce che punteggiano il paesaggio, in un mondo regolato da leggi non scritte e grottesche (se tu mi uccidi un bambino della mia famiglia, ma non hai figli sul quale posso vendicarmi, allora sarà lecito per me uccidere una donna). La prima parte del film si risolve però in un meccanico succedersi di fucilate e agguati (con le vittime colte per lo più di sorpresa o che rimangono immobili a farsi sparare); la seconda parte è più mossa, introducendo da una parte la storia d'amore tra l'assassino sordomuto e la bella di Gallura (che appare come l'unica bionda dell'isola); dall'altra un risvolto politico, mostrando un mondo non governato né dalla legge (l'ufficiale dell'esercito) né dalla religione (il prete); e dall'altra ancora il tema del tradimento che rievoca vicende cinematografiche come quelle di Pat Garret e Billy the Kid o de L'assassino di Jesse James da parte del codardo Robert Ford. Ma il protagonista, cosa naturale considerato il suo handicap, è necessariamente poco espressivo, gli altri personaggi rimangono piuttosto monodimensionali, l'aspetto politico rimane marginale e poco sviluppato, l'andamento narrativo è spesso incerto e la recitazione appare non sempre all'altezza. Per Matteo Fresi è l'esordio nel lungometraggio; il tentativo è comunque degno di interesse e lo aspettiamo fiduciosi alla prossima prova.
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SPENCER di Pablo LarrainPablo Larrain ha lasciato le sue asperrime rappresentazioni della società e della storia cilena (Tony Manero, Post Mortem, No – I giorni dell'arcobaleno) per dedicarsi a biopic di personalità famose del '900, con produzioni internazionali e attori di richiamo hollywoodiano. Dopo Neruda e la Jacqueline Onassis interpretata da Natalie Portman (candidata all'Oscar) in Jackie, tocca ora alla Lady Diana incarnata per lo schermo da Kristen Stewart (anche lei candidata all'Oscar, con un'interpretazione vibratile e trepidante). Ma sarebbe sbagliato pensare ad una resa allo show business, a gusti e temi più popolari; il cinema di Larrain resta un cinema di ricerca, di analisi del personaggio e della rispettiva icona, e anche di riflessione politica sull'essere e l'apparire. La scelta stessa dei titoli, che sembra limitarsi a enunciare i nomi dei personaggi, rivela invece già un indizio del tipo di lettura a ciascuno dedicato: il semplice cognome per il poeta-icona, un diminutivo per la donna che all'interno di un cosmo tutto politico si trova a vivere una tragedia tutta privata, ancora il cognome per Diana, ma in una chiave completamente differente da Neruda: Spencer, nel biopic su Lady Diana, è una rivendicazione d'identità (in quanti sentendo nominare il cognome avrebbero pensato di primo acchito alla consorte di Carlo d'Inghilterra?) e insieme di distanza dalla Casa Reale e dalla dinastia dei Windsor. L'esergo italiano di Spencer dice “Una fiaba basata su una tragedia vera”, ma forse a maggior ragione avrebbe potuto recitare “Una tragedia basata su una favola falsa”; la favola data in pasto alla folla e ai media di una principessa buona e triste stritolata dentro un sistema ferreo e a suo modo crudele. Il film, concentrato in tre giorni intorno al Natale 1991, nella residenza reale di Sandringham nel nebbioso Norfolk, racconta di una prigionia. Diana, costretta a passare i giorni natalizi insieme al marito e alla famiglia, è ingabbiata in una prigione nemmeno poi tanto dorata (continui sono i richiami al freddo sofferto nella dimora, specchio del gelo affettivo che la circonda), dove la vita è regolata secondo principi militareschi e concentrazionari. Innumerevoli sono i dispositivi visivi e narrativi messi in scena da Larrain per ribadire il senso di costrizione e di detenzione. Nell'incipit assistiamo ad un'operazione militare in piena regola, che si scopre concepita solo per consegnare le casse con gli alimenti per i pranzi natalizi degli ospiti; simili dispiegamento militare assume la brigata dei cuochi, schierata in una cucina dove bisogna lavorare in sordina per non disturbare le nobili orecchie regali; Diana compare invece sulla scena come un'ingenua portatrice di disordine, letteralmente perduta, disorientata in una campagna che dovrebbe esserle familiare ma in cui non trova più punti di riferimento. Inquadrata dall'alto da un punto di vista zenitale, la sua auto arriva infine nei giardini all'italiana della residenza, un'ordinatissima impeccabile gabbia di aiuole e vialetti. E' la rappresentazione della gabbia del passato, di tradizioni insulse e astratte che gravano come una condanna, da scontare in un presente infelice e che tolgono qualsiasi respiro al futuro. Di Diana viene controllato tutto: il peso (costretta a salire su una bilancia all'entrata e all'uscita della residenza), l'alimentazione, gli abiti, rigorosamente etichettati occasione per occasione e ora per ora, i movimenti, confinati in uno spazio delimitato dal filo spinato. E da tutto Diana tenta vie di fuga (in spazi che sono costantemente alternativi ai saloni della vita “ufficiale” del palazzo: toilet, dispense, case abbandonate), con piccole sterili trasgressioni: indisciplinati cambi d'abito, vomito per rigurgitare i cibi reali per poi ingozzarsi di notte quando nessuno la vede, corse a perdifiato e uscite notturne, sogni e incubi, visioni, colloqui appartati con i suoi due bambini, gli unici a non sembrarle ostili e giudicanti. La principessa è palesemente incapace di esercitare quella schizofrenia utilitaristica che le consiglia il principe consorte, di avere una personalità “vera” e un'altra “cui far fare le foto”. Non è capace di fingere “per il bene della nazione”, di nascondere il dolore di non essere amata, di sentirsi rifiutata e giudicata; la vittima di un tradimento coniugale che non sa comportarsi in società facendo buon gioco alla cattiva sorte di aver sposato un principe azzurro, come nelle fiabe, che però non la ama, non la desidera e non la protegge. Diana ha il cattivo gusto di presentarsi agli occhi del mondo, dei sudditi, dei fotografi, dei media, come appunto una principessa triste, che non sa accontentarsi della sua favola fittizia e amara. E alla fine sarà una fuga reale, verso un mondo più cheap ma meno rigido, con una canzone pop alla radio e un fast food al posto di una salone reale, lasciandosi dietro come una lucertola la vecchia pelle (i suoi lussuoso abiti addosso ad uno spaventapasseri) per tentare di farsene crescere una nuova. Larrain filma una fiaba agra onirica e claustrofobica, e imprigiona a sua volta Diana in spazi e ambienti narrativi che sembrano citare esplicitamente l'Overlook Hotel di Shining, con tra corridoi coperti di tappeti, dispense e gabinetti, cucine e saloni, visioni e fantasmi (forse le apparizioni di Anna Bolena, moglie e vittima di Enrico VIII, sono nella sua letteralità metaforica l'espediente meno riuscito del film). E in un film che delle regole sociali e dell'infelicità che esse possono procurare fa il proprio tema, collocandosi in un ambiente che è l'apoteosi della sclerotizzazione di regole grottesche ma inviolabili, la sequenza del tiro al fagiano, con la sua gratuita crudeltà verso gli animali vivi e verso il ragazzino obbligato ad uccidere, non può non rimandare all'analoga sequenza del massacro ludico di lepri e fagiani ne La regola del gioco, il film girato da Jean Renoir alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, ambientato tra la nobiltà e l'alta borghesia francese, dove anche un omicidio - “Mi uccideranno? chiede Diana - può venire riassorbito nelle convenzioni di una società convinta di poter rimanere per sempre uguale a se stessa. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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