AFRICA OGGI: THE SHORT CUTSSuperata la boa alla metà del percorso del Festival del Cinema Africano, d'Asia e d'America latina che si sta tenendo a Milano, si può già cominciare a tentare un bilancio del concorso dedicato ai cortometraggi africani, 11 film short cut provenienti da diversi Paesi del continente. Il cortometraggio è un'eccezione nella “normale” fruizione cinematografica. La sua eccezionalità, a parità (almeno in proporzione) di tutti gli altri elementi tecnico-linguistici-produttivi, è ovviamente la durata. Il tempo della durata deve a sua volta misurarsi con il tempo del e nel racconto. Cosa, quanto e come si racconta in un film di una ventina di minuti? Proverò a leggere la selezione (di grandissima qualità e interesse) dei cortometraggi africani partecipanti al Festival proprio in relazione alla concezione del tempo contenuta in ciascuna di essi. In BLIND SPOT (Angle mort, Tunisia, 14') Lotti Achour racconta di un paradossale tempo post mortem, quello appunto successivo al decesso di un detenuto nelle carceri della Tunisia di Ben Ali. Ispirato ad una vicenda reale, raccontato con una tecnica che distorce e sporca il realismo fotografico con un'animazione dai toni aspri e quasi acromatici, il film fa raccontare direttamente alla voce off (off of the world) del protagonista la propria vicenda: morto sotto tortura all'inizio del cortometraggio, ma “tenuto in vita” dai depistaggi messi in atto dal governo per nascondere i fatti, che lo fa credere ancora vivo e gli fa subire un processo e una condanna anni dopo il suo decesso, mentre la madre mendica inutilmente notizie sulla sua sorte (non riuscirà mai a sapere neppure dove si trovano i suoi resti). Un racconto doloroso, che richiama alla mente tragici episodi a noi ben noti come quelli di Stefano Cucchi o di Giulio Regeni. Una situazione in parte analoga, legata alla detenzione e alla morte di un giovane uomo, è quella narrata da WILL MY PARENTS COME TO SEE ME (Somalia, 28'). Mo Hatawe iscrive il proprio racconto dentro una bolla temporale, quell'intervallo allucinato e irreale vissuto da un condannato a morte in attesa dell'esecuzione. Una narrazione asciutta e penetrante, di esemplare incisività e sobrietà, capace di raccontare (quasi senza bisogno di dialoghi) la terribile solitudine del condannato ma anche, in un raffinato gioco di piani visivi, quella raggelata della sua carceriera. Il tempo della partenza e del distacco è presente sia in CAI-BER (Egitto, 17') che in THE DEPARTURE (Le depart, Marocco, 25'). Nel primo Ahmed Absalam racconta le concitate ore e i relativi contrattempi prima della partenza dal Cairo alla volta di Berlino di una giovane donna, ben determinata a rompere i ponti con i suoi legami, con il suo presente senza prospettive, e con un Paese oppressivo e corrotto. Un tempo serrato, dove i minuti contano per decidere del proprio futuro, contrapposto al tempo elegiaco del secondo, dove è invece un bambino a dover dire addio al suo paese, ai suoi amici, a sua madre, e alla sua infanzia, per seguire il padre e il fratello maggiore emigrati in Francia. Said Hamich compone un delicato racconto basato sul sentimento del tempo e del distacco, dove il presente si fa già memoria nell'atto stesso di venire vissuto. E' già esule in terra islandese la madre protagonista di ON THE SURFACE (Mali, 4'), una sorta di poesia animata dedicata alla propria bambina firmata da Fan Sissoko. Un tempo letteralmente sospeso, sulla superficie dell'acqua nella quale nuota e si immerge la protagonista, illustrato da un'animazione rarefatta e minimalista, ma precisa e ricca di suggestione. Viceversa, è confinata in uno spazio domestico, enunciato fin dal titolo HOME (Imuhira, Ruanda, 12'), la vicenda di una giovane moglie maltrattata, che cerca inutilmente rifugio, conforto e solidarietà nella casa materna. Myriam Uwiragiye racconta di un tempo bloccato, probabilmente sprecato, dove l'immersione nelle acque di un fiume della protagonista assume un significato opposto, privo di fuga e di futuro, anticonsolatorio, rispetto a quella del film precedente. Si allontanano da casa, all'opposto, le due piccole protagoniste di CHITANA (Tunisia, 19'), per sperimentare un'avventura nel bosco, tra animali e presenze ambigue, dove il senso della libertà e dell'avventura si mescolano - in un tempo sospeso e fiabesco e in uno spazio (la foresta) lontano dalla rassicurante e opprimente protezione domestica - a sentimenti spiacevoli come la paura e lo smarrimento. Amel Guellaty mette la sua piccola eroina a confronto con un presagio di un altro tempo, quello dell'età adulta che verrà. Racconta il tempo della crescita, del passaggio da un'età della vita all'altra, condensato in una manciata di fatidici giorni, ASTEL (Senegal, 17'). Una giovane pastora senegalese è costretta a confrontarsi con il fatto di diventare grande, di entrare in un mondo improvvisamente sessuato, con la conseguenza di doversi sciogliere dal rapporto con l'amato padre (ma anche con la natura e con gli spazi aperti della libertà e dell'avventura) per venire risospinta in un mondo materno e femminile, più ancillare e confinato. La regista Ramata-Toulaye Sy imposta una narrazione suggestiva eppure precisa, che non ha quasi bisogno di parole per essere compresa. E' un tempo fratturato, tra un prima e un dopo, tra un tempo in cui c'è un bambino e quello in cui non c'è più, quello raccontato in KHADIGA (Egitto, 20'). Al centro un atto atroce e cristallizzato, inspiegabile e ingiustificato. Morad Mostafa segue la sua giovane madre protagonista scrutandone il viso a distanza ravvicinata, mettendone in luce le asperità della pelle, ma senza riuscire a scalfirne l'anima. Tra pedinamento dardenniano e raggelante distanza, il film riecheggia nelle sue tematiche quelle di uno dei lungometraggi in concorso, l'algerino Soula. HOT SUN (Jua Kali, Kenya, 18') gioca invece su un tempo segnato dalla ripetizione e dall'alienazione, quello delle domestiche che cercano di porre rimedio al disordine e alla sporcizia che per i loro datori di lavoro ricchi sono quasi una dimostrazione di privilegio e uno status symbol.
Alla routine quotidiana raccontata da Joash Omondi si contrappone la straordinarietà del tempo raccontato in SO WHAT IF THE GOATS DIE (Qu'importe si les betes meurent, Marocco, 23'). Il tempo senza tempo, ma in bilico tra passato e presente, del deserto marocchino, in cui, malgrado si compulsino gli smartphone, ci si sposta ancora a dorso di cavallo, si incrina e si sbilancia davanti a un fatto straordinario che spalanca le porte di un futuro ancora indecifrabile. Sofia Alaoui dirige il film forse più inaspettato del concorso, una sorta di versione in sedicesimo (in termini di durata e di dimensioni produttive) e declinato in chiave etnica e minimalista (ma non priva di ambizioni nello stile di ripresa) de La guerra dei mondi spielberghiana... Leggi anche:
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NOIR IN FESTIVAL 2021 - 31a edizione: |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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