FINESTRE SUL(LO STRANO) MONDOIo amo il Festival del Cinema Africano, d'Asia e d'America latina perché è come viaggiare. Non nel senso più banale. Il mondo, la diversità, gli altri si conoscono viaggiando. O andando al Fescaaal (d'altra parte il Concorso principale per i lungometraggi si chiama "Finestre sul mondo"). Con una sorpresa: perché si scopre sì la diversità, a volte più sfumata a volte più radicale; ma nello stesso tempo si scopre che tutto il mondo (degli uomini, delle donne, dei bambini) è paese (degli uomini, delle donne, dei bambini). Che in fondo in fondo, oltre gli usi, oltre i costumi, oltre al modo diverso di vivere e di abitare, oltre alle religioni e alle politiche, ci sono gli stessi sentimenti, desideri simili, la sofferenza, la speranza. Haiti è uno dei posti più sfigati del mondo, oppresso da dittature, violenze di ogni genere e livello, tifoni, terremoti tra i più devastanti a memoria umana. Come si può vivere in un posto del genere? Eppure Freda ci mostra una giovane eroina impavida e resiliente, dal viso intelligente e dai capelli crespi a palla, capace di resistere, di lottare per un futuro migliore per sé, per i suoi cari e per il suo Paese. Una naturalezza e una vitalità della narrazione tutt'altro che ingenua o scontata, interpreti all'altezza, per uno dei film a mio parere tra i migliori del festival. Studenti che lottano contro la povertà e la corruzione, per un futuro individuale, sociale e politico migliore sono al centro anche del centrafricano Nous, etudiants!, tra documentarismo e presa diretta sul reale. Forse sarebbe stato meglio un corto o mediometraggio, ma il regista ha passato dei guai dopo la proiezione del suo film a Bangui, quindi evidentemente con la sua denuncia sulla corruzione imperante ha toccato qualche nervo scoperto. Studentesse e corruzione anche in The Exam. A Erbil, nel Kurdistan iracheno, una giovane donna sposata con figlio cerca di comprare gli esami di ammissione all'università per la sorella, depressa dopo una delusione d'amore che l'ha portata sull'orlo del suicidio e per nulla interessata a studiare. La storia mostra cosa succede quando la corruzione penetra nell'anima della gente comune: ma come nei film di Panahi un evento apparentemente circoscritto allarga i suoi effetti a cerchi concentrici fino ad esiti devastanti e imprevedibili. Possiamo dire di saperne qualcosa. Mondi decisamente più alieni quelli in cui ci fa entrare invece il cinema asiatico in concorso. Children of the Mist ci porta in Vietnam, dove tra la montanara etnia hmong vige la simpatica abitudine, verso Capodanno, di rapire ragazze giovanissime scopo matrimonio, a metà tra ratto delle Sabine e fuitina. La tredicenne protagonista non ci sta e rifiuta il matrimonio, e anche la giovane autrice del documentario prova la rabbiosa tentazione di lasciare giù la cinepresa e balzare dentro la realtà per difendere l'amica. Un ragazzo con una t-shirt con scritto Paradise si sveglia a Tacloban in un inferno di devastazione, nelle Filippine sconvolte dal tifone Yolanda nel 2013. Ma Wheter the Weather Is Fine vuole tirare lo spettatore dentro il senso di smarrimento e di spiazzamento del suo protagonista e il regista inzeppa il suo film di incontri e particolari grotteschi e incongrui, dove il realismo del contesto si contrappone alla surrealtà delle situazioni. Ben due film sono ambientati nella Colombia degli anni '90 disarticolata da guerra civile, violenza e guerriglia. El arbol rojo mette on the road (o meglio en la caretera), un burbero signore, un'inaspettata sorellina e un giovane aspirante pugile. Lungo il migliaio di chilometri e i 2640 metri d'altezza che separano Rincon del Mar da Bogotà i tre casuali compagni di viaggio impareranno a conoscersi ed apprezzarsi. Amparo si impernia invece tutto sulla figura della protagonista, impegnata allo spasimo nelle poche ore a disposizione per tentare di salvare dall'arruolamento forzato e dalla probabile morte il fragile figlio adolescente. Diversi modelli e stili: il primo segue uno schema classico che ha precedenti anche nello stesso continente latinoamericano (come Central do Brasil e Las acacias, ma a volte sembra un po' anche Pechino Express); il secondo adotta la tecnica del pedinamento alla Dardenne, stando addosso alla sua protagonista, intensa ma un po' monocorde, in mezzo a interpreti non professionisti. Come fosse una fusione dei due precedenti, troviamo un altro ritratto femminile (e un'altra madre) in Soula, ambientato in un'Algeria inaspettata percorsa da una ragazza madre tra incontri con prostitute e spacciatori, tra alcol, droga e feste da sballo. Dialoghi credibili inseriti in una gabbia stilistica autoimposta che fa sì che la macchina da presa non si allontani mai dalle vetture in cui si svolge la narrazione. Un tour de force stilistico che non inficia però l'efficacia della narrazione, che si indebolisce un po' solo nel finale. I deserti astratti di Gibuti fanno da sfondo in The Gravedigger's Wife al viaggio di un marito amorevole che torna al suo villaggio (dopo esserne stato cacciato per un matrimonio osteggiato) per trovare i soldi per curare la moglie malata, mentre il figlio nel suo piccolo cerca di essere d'aiuto. Una storia d'amore e malattia che ha vinto molti premi nel mondo. Il boliviano 98 segundos sin ombra è forse uno dei film meno necessari del concorso. Al centro un'adolescente alla ricerca di se stessa tra una famiglia disfunzionale, l'educazione religiosa dalle monache, la ricerca delle trasgressione insieme alle amiche coetanee, esperienze mistico-erotico-sentimentali e desiderio di fuga. Una curiosità la presenza di Geraldine Chaplin nella parte della vecchia nonna. Rimane da dire dei quattro film che ho visto fuori concorso, varie declinazioni di ibridazione (geo-culturale e cinematografica) e del tema dell'autodifesa attiva contro un mondo violento (in due casi su tre). Il festival si è aperto con Twist a Bamako, con il quale Robert Guédiguian si è momentaneamente autoestirpato dalla sua Marsiglia, in cui la sua vita e la sua cinematografia sono radicate in modo profondo, per trasferirsi in altra epoca e altro continente. Ambientato tra l'euforia e le speranze nate in Mali dopo la conquista dell'indipendenza, e con un cast totalmente africano più giovane rispetto agli standard di Guediguan, il film si mimetizza perfettamente nel bene e nel male con lo stile e il ritmo dei film del Continente nero, con un'adesione totale dell'autore dove sono davvero pochissimi gli indizi che possono far sospettare una mano e un occhio europei dietro la macchina da presa. Musica, amore e politica per raccontare dell'ennesima rivoluzione mancata, quando il senso di libertà (anche di costumi) e la sensazione di poter progettare e lavorare a costruire un mondo nuovo e socialista, cioè più giusto e razionale, naufragano contro gli ineludibili scogli della realtà e di una politica costretta ai compromessi. Stesso tema comune ma multiculturalità programmatica per The Year of Everlasting Storm, che raduna una manciata di corti firmati da vari registi in giro per i continenti. Tema comune la pandemia e il lockdown: c'è chi la butta sull'astrazione, chi va fuori tema, chi si dà al racconto autobiografico, chi compone un vero racconto breve e chi si concede un home movie. Proprio in questo campo si colloca l'episodio più accattivante, in cui il regista iraniano Jafar Panahi (peraltro osteggiatissimo in patria) racconta di una visita della vecchia madre, che si presenta in tuta integrale protettiva e finisce con familiarizzare con l'iguana di famiglia. Compatto produttivamente e tematicamente, Assault adotta la chiave di una sostanziale unità di tempo (le 35 ore precedenti l'”assalto”), di luogo (una scuola e una stazione di polizia isolate in una landa coperta di neve) e d'azione (la preparazione dell'assalto, con relativi prologo ed epilogo); ma l'ibridazione è in questo caso tutta nella commistione dei generi cinematografici, in un miscuglio godibile (che ricorda un po' il norvegese In ordine di sparizione). Un gruppo di terroristi senza volto e senza motivazione dichiarata si impadronisce di una scuola; a cercare di liberare i ragazzini imprigionati all'interno sarà un manipolo di sconclusionati dipendenti dell'istituto (preside, insegnanti, custode), tra i quali ci sono pure ubriaconi sedicenti reduci dall'Afghanistan e ritardati mentali, oltre ad un attempato poliziotto e a una mamma angosciata. Ibridazione a 360° gradi infine nel film di chiusura, Kung Fu Zhora. Un racconto di (letterale) empowerment femminile, dove una donna impara a difendersi dalle violenze domestiche di un marito che sembrava innamorato e si è rivelato manesco e autoritario. Lei viene da uno ksar maghrebino, lui è l’esponente di una cultura araba machista, ma la coppia vive nella Francia della società aperta, e ad aiutare la donna ad impadronirsi delle tecniche di combattimento orientali sarà l’anziano cinese custode notturno di una palestra. Alla contaminazione geografico-culturale si assomma quella dei generi cinematografici, in un film è che è un po’ ritratto di una donna e racconto di sorellanza, un po’ dramma famigliare, un po’ kung fu movie (gli amanti del genere non lascino assolutamente la sala prima dei titoli di coda) e un po’ commedia nera (il film era l’unico rappresentante della rassegna “E tutti ridono”). Insomma, l’autodifesa violenta può essere lecita per difendersi e farsi rispettare dai violenti? Un tema quanto mai d’attualità in questi tristi tempi di guerra all’interno del quale un Festival dedicato alla conoscenza e al rispetto tra mondi e culture si è trovato purtroppo e suo malgrado a svolgersi. I film della sezione Finestre sul mondo:
I film della sezione "Flash"
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Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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