FUORI ERA PRIMAVERA di Gabriele SalvatoresStrano (o forse no) che tocchi proprio al regista che della “fuga” aveva fatto il proprio tema emblematico, portando i propri antieroi a confrontarsi con l'altrove e a ricercare la propria identità in luoghi più o meno lontani (il deserto marocchino di Marrakech Express, il Messico di Puerto Escondido, l'isoletta greca di Mediterraneo, perfino nell'Italia di provincia di Turné) raccontare il suo contrario, la prigionia, il confinamento, l'isolamento, l'essere “chiusi dentro”. Salvatores ha infatti raccolto, selezionato, ordinato e curato il montaggio di decine di frammenti video girati da persone qualunque durante il primo lockdown, tra marzo e aprile, quando l'epidemia di Coronavirus colpì l'Italia come una mazzata e la travolse, prima di dilagare in tutto il mondo e diventare la pandemia conclamata con cui ancora oggi siamo a fare i conti. L'operazione non è inedita: lo stesso Salvatores aveva curato il docu-film Italy in a Day – Un giorno da italiani, prodotto da Ridley Scott che aveva già realizzato alla stesso modo Life in a Day e Britain in a Day, e anche i responsabili del montaggio sono gli stessi del film precedente, Massimo Fiocchi e Chiara Griziotti. Se in Italy in a Day a scandire il film erano le ore della giornata, qui è il trascorrere dei giorni, dall'impatto con la malattia sino alla parziale e illusoria “liberazione” della scorsa primavera. La malattia e i suoi effetti, di cui ascoltiamo tutti i giorni alla televisione e di cui leggiamo sui giornali e sui siti Internet, e che in tanti abbiamo vissuto sulla nostra propria pelle, viene raccontata così in un'apparente presa diretta (a volte i video rivelano un minimo di costruzione, spesso in un'intenzione diaristica), in una dimensione privata, individuale, di necessità domestica. Il prologo fornisce quello che si potrebbe dire un preambolo ideologico e interpretativo del fenomeno: immagini di natura libera e selvaggia; immagini degli aspetti caotici e artificiosi della vita umana e urbana; e di conseguenza scaturire della malattia dall'intersezione perversa tra le due dimensioni, a causa della distorsione e dello sfruttamento scriteriato da parte dell'uomo delle risorse naturali. Il film si svolge poi alternando gli spezzoni inviati dai singoli realizzatori, con qualche tormentone come quello del rider che pedala nelle città deserte e spesso notturne per fare le proprie consegne, lamentandosi dei magri guadagni. Nella scorsa primavera a prevalere decisamente nelle preoccupazioni della gente era l'aspetto sanitario, a scapito di quello economico che sarebbe emerso prepotentemente subito dopo. L'importante era difendersi e ripararsi da una malattia dilagante che nel giro di pochi giorni aveva precipitato l'Italia in una dimensione inedita e surreale da film di fantascienza. A scandire il percorso del film, molte scene girate negli ospedali, tra malati intubati o incapsulati nei caschi per l'ossigeno e il personale sanitario che si trova a fronteggiare un'emergenza straordinaria e mai affrontata prima, che li mette a dura prova dal punto di vista professionale (perfino gli equipaggiamenti di difesa e protezione più elementari erano venuti a mancare in questa prima fase), ma non certo meno da quello psicologico ed emotivo. Ma ovviamente ad interessare principalmente il regista non è la morte, pur presente in immagini dolorose, bensì la vita, che è continuata in tutti i suoi aspetti, piegandosi e rendendosi flessibile di fronte alla situazione fuori dall'ordinario. Tutti gli aspetti della vita sono documentati, dalla nascita di un figlio ai giochi con i bambini, dal lavoro o allo studio da casa, dall'amore e i suoi stratagemmi (gli innamorati che si guardano da case lontane, quelli che sfruttano le code ai supermercati per incontrarsi e stare – relativamente – vicini), fino ad eventi eccezionali come ad esempio la cerimonia di laurea in streaming. La famiglia (con il corollario malinconico di chi si è trovato immobilizzato in una condizione di solitudine) e la casa (con i prigionieri dei monolocali, o la riscoperta dei balconi come preziosi strumenti per guadagnarsi il beneficio e il piacere a sua volta riscoperto dello stare all'aria aperta) evidentemente sono i temi e gli ambienti ricorrenti. Meno rappresentati sono gli anziani, i meno esperti e disponibili a raccontare e raccontarsi attraverso dispositivi digitali, mentre sono soprattutto i bambini ad offrire a Salvatores l'occasione di mostrare alcune proprie caratteristiche d'autore come la gentilezza di tocco e il senso dell'umorismo. Ma altrettanto ovviamente, al regista della fuga interessano le forme di resilienza, i trucchi inventati dalle persone per sentirsi meno soli e per fare sentire meno soli gli altri, dai percorsi avventura reinventati nelle stanze di casa per far divertire i bambini, ai concerti improvvisati da finestre, balconi e terrazze, fino alle immagini sorprendenti di due tenniste impegnate in uno scambio da un terrazzo sul tetto a quello di fronte. Guardando Fuori era primavera ci si commuove, ci si emoziona, si sorride, ci si addolora, si pensa, ci si preoccupa, ci si rammarica. E a guardarlo oggi, a distanza di quasi un anno, alla vigilia di un'altra primavera che si preannuncia non certo facile, ha tuttavia già un aspetto quasi vintage, come il ricordo di un'epoca in cui eravamo più giovani e ingenui di fronte alla cattiveria della malattia, storditi ma intenzionati a reagire. Oggi i nostri occhi sono più stanchi, più livorosi, più disincantati, fiaccati da problemi psicologici ed economici, da una vita anormale che ci nega le cose più belle della vita, la sicurezza della salute e quel lavoro, le relazioni sociali e gli affetti, la libertà di muoversi, di fare le cose che ci appassionano, di viaggiare. Ci siamo resi conti che la sciagura del Covid non sarà un episodio, da confezionare in un film e conferire nell'album dei ricordi spiacevoli, bensì un tragitto lunghissimo e disseminato di incognite infinite. Prepariamoci, tra poco fuori sarà (di nuovo) primavera.
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ON THE ROCKS di Sofia CoppolaLaura è una donna che potrebbe essere felice. Ha un bel marito che le vuole bene, due bei figli, un'attività da scrittrice. Invece qualcosa non funziona: la routine quotidiana la logora, l'ispirazione langue e il comportamento del marito comincia a istillarle dei dubbi. Un bacio ambiguo e distratto, un beauty case femminile nella sua valigia dopo un viaggio di lavoro, e Laura comincia ad accorgersi di quanto sia stretto il rapporto tra Dean e la sua avvenente assistente. I dubbi confessati al padre, Felix, un ex-mercante d'arte ricchissimo e annoiato, e la sua vita è stravolta: Felix organizza per lei appostamenti, inseguimenti in macchina per le strade di New York, addirittura un'escursione a Manzanillo, in Messico, con il fine di smascherare il fedifrago e risolvere i dubbi che le avvelenano la vita. Le avventure e le disavventure che vivranno insieme diventeranno l'occasione per una resa dei conti tra padre e figlia nei confronti di un passato di amore e di abbandono, di legami spezzati e tradimenti, di affetti mai svaniti e rancori mai sopiti.
Diciamolo, On the Rocks è un film carino. Solo su Into the wonderland ho recensito credo oltre 300 film senza mai usare questo famigerato aggettivo, quindi per una volta penso di potermelo permettere. C'è una storia tenera e buffa, personaggi accattivanti con cui simpatizzare, un finale dolceamaro, una New York morbida ed elegante, ristoranti sofisticati, una raffinata colonna sonora di smooth jazz, l'intimità di un legame familiare, un umorismo leggero basato sull'understatement, un Bill Murray sornione come un grosso gatto, un Alfa Romeo Giulietta rosso fiammante e vintage, un Monet autentico ammirato dagli attori e molte citazioni di artisti contemporanei, oltre a riflessioni aforistiche - che nel finale entrano però nella carne viva del vissuto dei personaggi - su amore, sesso, fedeltà, rapporti tra uomini e donne (anzi, tra maschi e femmine, perché il termine di paragone a volte sono i macachi). Tutto godibilissimo, come fossimo in una sophisticated comedy degli anni '30, e perfino la sfrontata ricchezza di Felix viene controbilanciata dalla modestia e dalla scarsa eleganza (accuratamente calibrata: la Coppola arriva dal mondo della moda) di Laura. Se un difetto c'è in On the Rocks, è al di fuori di esso, e va ricercato non nell'opera in sé ma all'interno della filmografia di Sofia Coppola. È impossibile infatti non avere un continuo senso di deja vu guardando On the Rocks: il rapporto sentimentale tra la giovane donna e l'uomo attempato, la presenza iconica di Bill Murray, l'umorismo sottile e malinconico, perfino certe posture dei personaggi all'interno dell'inquadratura, rimandano alla memoria di Lost in Translation. Il rapporto tra un personaggio femminile e una figura paterna è un leit motiv del cinema sofiacoppoliano, presente in questi due film come anche in Somewhere o ne La vita senza Zoe (da lei sceneggiato, e diretto dal padre all'interno del progetto New York Stories), così come quello del rapporto con la famiglia o con un'“intrusione” maschile, ma questa volta il ritorno del tema e delle situazioni è talmente insistito da sembrare un'involuzione, protetta da quella sorta di nume tutelare rappresentato da Bill Murray (che Sofia aveva già diretto anche nel divertissement A Very Murray Christmas). La responsabilità dei genitori (ma in misura largamente preminente dei padri) nei confronti delle figlie è un tema presente fin dal suo primo film, Il giardino delle vergini suicide, probabile indizio di una complessità edipica inevitabile considerata la presenza di un padre ingombrante come Francis Ford Coppola. Rispetto al suo famoso precedentea mancare in On the Rocks, a parte l'originalità, è probabilmente la presenza magnetica dal morbido sex appeal della giovane Scarlett Johansson, che in Lost in Translation costituiva un irresistibile controcanto all'amara malinconia dell'attempato personaggio interpretato da Murray. Detto questo, godetevi la piacevole scorrevolezza di On the Rocks; magari verso Natale, insieme a pochi famigliari, ma buoni... ELEGIA AMERICANA (Hillbilly Elegy) di Ron HowardE' difficile capire il livore delle stroncature che negli Stati Uniti si sono accanite contro Elegia americana. Stroncature già entrate nella leggenda, che lo definiscono "ridicolmente orrendo", "terribile", "uno dei film più vergognosi dell'anno", il “peggior film di Ron Howard” e così via: tutte definizioni che vedrebbero ben altri titoli più degni di candidatura. (...) Certo, chi preferisce l'Howard più effettistico qui non troverà pane per i suoi denti: niente ricerche del Santo Graal, niente astronauti, niente mostri verdi che rubano il Natale (quest'anno ci pensa già il Coronavirus); per citare un suo titolo d'epoca, qui siamo piuttosto dalle parti di parenti, amici e tanti guai, della parenthood. Siamo cioè nel mondo dell'ordinary people, della gente normale, con i piccoli e grandi problemi della vita reale. La recensione completa di ELEGIA AMERICANA è sul numero 227 di SegnoCinema in uscita a gennaio. HIS HOUSE di Remi WeekesSe a volte il film di genere allude a problematiche contemporanee in modo allusivo o metaforico (ad esempio, per restare sul tema, il fantascientifico District 9 sul tema dell'immigrazione o l'horror Get Out su quello del razzismo), His House, ospitato da Netflix, è estremamente esplicito. La cosa che più mi è sembrata interessante nel film è proprio la sua dimensione realistica da social docu-drama, il suo aggancio dichiarato e puntuale con l'attualità più bruciante. Rial e Bol sono una coppia di immigrati provenienti da un Paese africano in guerra (presumibilmente il Sudan, ma nel film non è esplicitato), che chiedono asilo nel Regno Unito. La loro richiesta viene accolta e viene loro assegnato un appartamento in una periferia inglese senza nome (“Siamo a Londra?” chiede lui al barbiere che gli risponde “Londra? Magari!”) e un appannaggio economico per il loro mantenimento. I servizi per l'immigrazione controlleranno sul loro comportamento e sulla loro capacità di integrarsi. La descrizione di questa situazione è realistica e precisa, delineata appunto con uno stile quasi documentaristico, da dramma sociale. L'appartamento grande ma squallido e disadorno, la spazzatura accumulata dai vicini davanti alla porta di casa, l'illuminazione che funziona ad intermittenza; e all'esterno un paesaggio grigio e sconosciuto, alieno, dove ad essere irridenti e poco solidali sono anche persone che hanno il loro stesso colore della pelle. Ma alle “normali” difficoltà di adattamento e di integrazione di chi si trova catapultato dall'altra parte del mondo, portando con sé ben poco del proprio, in un ambiente estraneo dove la lingua e le abitudini di vita non suonano famigliari, si aggiunge ben presto altro. Tra le poche cose che Rial è riuscita a tenere con sé dal viaggio alla ricerca della salvezza c'è una bambolina, con un filo di perline ad ornarle la gonna che per lei diventa una collanina. Perché, scopriamo presto, sull'imbarcazione che li ha portati in Europa attraverso un mare tempestoso c'era anche una bambina. Che adesso non c'è più. C'è un terribile lutto da elaborare, e questo lutto sembra animare l'appartamento di rumori, ombre, fantasmi, apparizioni spaventose. Sia Bol che Rial sono perseguitati da visioni terrificanti e minacciose. Qualcuno li ha seguiti dall'Africa o dall'oceano che ha inghiottito la bambina, e ora li perseguita. Lo stilema della casa infestata viene rinnovato da His House con due determinanti novità: l'abitazione stavolta non è un castello gotico, un'antica magione, o una capanna in un bosco, bensì un anonimo appartamento della periferia britannica; e i perseguitati non sono dei nobili decadenti o il solito gruppo di giovani o adolescenti, bensì una matura coppia di origine di colore, per cui anche l'immaginario spaventoso che li tormenta nella nuova abitazione esce dai miti e dalla religiosità (o piuttosto dalla demonologia) africani. La donna si abbandona senza riserve alla credenza nelle apparizioni, l'uomo resiste, lotta, brucia tutti i loro pochi effetti personali; sfonda i muri dove si nascondono i fantasmi e li rattoppa; chiede aiuto ai servizi sociali che evidentemente non possono aiutarlo a sconfiggere o dissipare i suoi fantasmi. La narrazione si sdoppia e si scinde: ad un presente in cui alla realtà corrisponde una dimensione terrificante e onirica, si contrappone un racconto in flashback, che racconta della fuga dal Paese devastato dalla guerra, la forza della disperazione, la traversata fatale, ma che ha anch'esso un corrispettivo onirico e minaccioso. Nel momento in cui presente e passato si fondono, in cui realtà e allucinazione diventano un'unica dimensione, emerge una verità ancora più lacerante e dolorosa del lutto che affligge i protagonisti, che a che fare con il prezzo che si è disposti a pagare per la propria sopravvivenza, e il senso di colpa devastante che deriva dall'aver accettato di pagarlo. Con pochi ambienti e pochi personaggi (ben interpretati) il promettente Remi Weekes, al suo primo lungometraggio dopo alcuni corti di allenamento allo spavento (Tickle Monster si può vedere su Vimeo), costruisce un ottimo racconto di tensione, spaventoso ma senza gore, vivificato da un immaginario originale e sostanziato, come si diceva all'inizio, da un efficace radicamento nella realtà. Ma se il genere serve ad affrontare tematiche e problematiche attuali e assai scottanti, si ha volte qui l'impressione che al contrario le tematiche siano usate strumentalmente al servizio del genere. Se i protagonisti hanno una consistenza un po' naïf (si trovano a disagio a mangiare seduti al tavolo usando le posate, sono degli animisti che cedono senza troppe remore alla credenza in forze soprannaturali), vedere i migranti cadere in acqua e affogare, come purtroppo accade quasi quotidianamente nella realtà talvolta documentata dai soccorritori, “solo” per costruire una trama horror, un po' di disagio lo procura. LA REGINA DEGLI SCACCHI (The Queen's Gambit, miniserie) di Scott FrankLa regina degli scacchi (miniserie Netflix in sette puntate da un'ora circa ciascuna) deve parte del suo successo ad una mossa vincente, appunto il queen's gambit del titolo originale. E' infatti un gioco al femminile; non credo che l'esito sarebbe stato lo stesso se la serie (e il romanzo di Walter Tevis da cui è tratto) avesse avuto al centro un bambino e poi un ragazzo con la passione e il talento per gli scacchi. La scelta di una protagonista femminile (immaginaria, forse vagamente ispirata alla personalità di Bobby Fischer) permette infatti di declinare in modo assai più ricco e sfaccettato la storia di emancipazione che ne è al centro (un po' come accadeva ne Il diritto di contare, storia di emancipazione femminil-razzial-intellettual-professionale negli Usa della corsa allo spazio). La storia di Beth, ambientata a cavallo tra gli anni '50 e '60, è innanzitutto una storia di emancipazione individuale ed esistenziale, che allude e riflette comunque l'evoluzione progressista e libertaria della società a lei contemporanea. All'inizio della storia Beth è una bambina orfana ricoverata in un istituto; scopriremo poi che il padre l'ha rifiutata in quanto frutto di una relazione adulterina, che lei viveva in una roulotte con la madre, e che quest'ultima si è suicidata provocando un incidente stradale nel quale avrebbe dovuto trovare la morte anche la bimba. Alla fine è una giovane donna realizzata e di successo, che ha conquistato agiatezza economica, fama e ammirazione universale. La sua evoluzione è resa visibile: quando ritroviamo Beth adolescente, conserva ancora aspetti della Beth bambina, con i capelli tagliati corti, la frangetta ai minimi termini che le lascia nuda la fronte, la divisa dimessa dell'orfanotrofio sostituita da abiti ancora monacali dal taglio castigato e dai colori spenti, ma il maturare e il consolidarsi della sua personalità si manifesta nella scelta di abiti sempre più originali e raffinati e in acconciature sempre più curate ed elaborate. La trasformazione del visibile, abilmente mostrata attraverso l'evoluzione del look e degli outfits, è il segnale di trasformazioni più profonde. Benché a lungo dipendente prima di psicofarmaci – scoperti in orfanotrofio, dove venivano somministrate alle ospiti per tenerle tranquille – e poi dell'alcol, Beth afferma la sua faticosa emancipazione anche in campo sentimentale e intellettuale. Orfana non solo dei genitori ma anche degli affetti (il suo mentore scacchistico è un custode scorbutico, taciturno e misantropo, la sua madre adottiva stenta a trovare il suo ruolo materno, mentre il padre adottivo rifiuta puramente e semplicemente la paternità come anche lo stato maritale), Beth appare attratta precocemente dalle manifestazioni di affettività e di erotismo che si trova più a volte a spiare, ma non finisce prigioniera delle possibilità di relazione che le si offrono, proseguendo in un'esplorazione inconclusa dei propri sentimenti e delle esperienze amorose (con un'incursione anche in territorio omosessuale). Il cerchio si chiude comunque nel finale, quando la donna che fin da bambina non ha più una casa propria (la casa paterna negata, la roulotte, l'orfanotrofio, la “casa d'altri” dei genitori adottivi, l'ospitalità inospitale di Bennie, le camere d'albergo...) acquista l'appartamento d'adozione, ritrova l'amica-complice dell'infanzia, riscopre l'affetto taciuto di Shaibel (forse l'unico suo vero padre putativo), scopre intorno a sé l'affetto e l'amicizia dei ragazzi che ciascuno a proprio modo le hanno voluto bene. Nello stesso tempo Beth sceglie l'indipendenza intellettuale rifiutando le pressioni degli sponsor bigotti o del governo statunitense, che vorrebbero usare la sua immagine e la sua fama crescente in chiave propagandistica contro l'Unione Sovietica atea e socialista. C'è un'altra forma ancora di emancipazione che manca al catalogo, quella razziale (negli anni in cui si svolge la vicenda in molti Stati Usa erano ancora in vigore legislazioni segregazioniste) e Scott Frank lo affronta lateralmente attraverso il ritorno nell'ultima puntata di Jolene, compagna di reclusione di Beth, che si è evoluta da ragazzina orfana afroamericana che nessuno vuole adottare a giovane donna futura avvocato e attivista dei diritti civili. A restare forse più sfumata, è la forma di emancipazione più ovvia, quella relativa a una donna che si fa strada e conquista le posizioni più elevate e prestigiose in un mondo e in un ambito di totale dominio maschile. Benché Beth incontri una sola avversaria donna, in uno dei primi tornei per dilettanti cui partecipa, l'atteggiamento dei suoi avversari – e spesso campioni – maschi non dà mai veramente segni di aperto maschilismo, di sciovinismo o di paternalismo. Beth nella sua ascesa sembra suscitare molto più stupore che ostilità. Il sostegno dei suoi (battuti) ex-avversari e l'abbraccio finale dell'impassibile Bergov sono anche in questo caso la chiusura di un cerchio che ha cominciato a disegnarsi in uno scantinato dell'orfanotrofio con uno scorbutico e laconico custode al di là della scacchiera: un segno definitivo di riconoscimento e di accettazione. Alla felice riuscita dell'operazione - che si basa in effetti su un gioco del tutto sedentario e antispettacolare come gli scacchi e su uno sviluppo narrativo lineare e prevedibile che accompagna la scalata al successo di Beth – contribuisce certamente la scelta di cast che ha assegnato a Anya Taylor-Joy la parte della protagonista, centro assoluto della narrazione. Con il suo visino affilato, i capelli rossi, gli occhioni grandi e magnetici, la bocca piccola a cuore, il fisico minuto, la Taylor-Joy è praticamente perfetta nell'incarnare un'eroina scostante ma bisognosa di amore e di riconoscimento, fredda eppure vulnerabile, ferreamente determinata eppure piena di incertezze, posseduta da un'astratta ossessione ma nello stesso tempo turbata dalla seduzioni del mondo. Se poco azzeccata mi è sembrata la trovata delle visioni di Beth, che vede disegnarsi sul soffitto delle sue stanze la scacchiera su cui si muovono a testa in giù come strane stalattiti i pezzi degli scacchi, e sono forse un po' deboli i flashback che forniscono le informazioni sulla vita di Beth con la madre, prima del ricovero in orfanotrofio, tutta la macchina della produzione è perfettamente oliata; d'altra parte, La regina degli scacchi, ha la compattezza e la coerenza di un progetto squisitamente d'autore, visto che Scott Frank (che ha scritto film celebri celebri come Out of Sight e Minority Report, e che aveva già raccontato la storia di un bambino prodigio ne Il mio piccolo genio), insieme ad Allan Scott e alcuni altri, ha ideato, sceneggiato, prodotto e diretto il film. Molto ben riuscita è la ricostruzione d'epoca, con accattivanti scenografie vintage (firmate da Uli Hanisch) piene di tappezzerie fiorite e con credibilissimi e suggestivi campi da gioco scacchistici, fantastici costumi (creati e scelti da Gabriele Binder, “visitabili” nella mostra virtuale proposta dal Brooklyn Museum) e location molto ben scelte - considerando che quasi tutte le riprese, sia che la storia fosse ambientata nel Kentucky piuttosto che a Las Vegas, a Parigi piuttosto che a Mosca, sono state effettuate a Berlino (o nell'Ontario). Ottima e brillante anche la scaletta della colonna sonora, in cui alle composizioni originali di Carlos Rafael Rivera si aggiungono, a rievocare l'epoca, evitando stereotipi e luoghi comuni, brani evocativi tra jazz e il pop nascente. COSA SARA' di Francesco BruniHo visto Cosa sarà al Cinema Rondinella di Sesto San Giovanni, l'ultimo giorno di apertura prima del nuovo lockdown di ottobre. E devo dire che c'è una scena del film che mi ha lasciato basito. Il destino del film, d'altra parte, sembra legato all'altalena della pandemia in atto. Girato nelle ultime settimane del 2019, doveva uscire il 19 marzo (Festa del Papà) del 2020, con il titolo Andrà tutto bene. Non andò tutto bene e l'uscita fu rinviata a causa dello scoppio della pandemia; e il titolo del film diventò casualmente lo slogan scaramantico del lockdown primaverile. Uscito il 24 ottobre, con un titolo già meno ottimistico, è rimasto nei cinema per soli due giorni, prima della nuova chiusura delle sale. E d'altra parte il film di malattia parla. Francesco Bruni, che ha scritto e diretto il film (con un contributo di Kim Rossi Stuart in fase di sceneggiatura), vi racconta la propria autobiografica esperienza di incontro e scontro con una malattia potenzialmente fatale, e il film è dedicato a Mattia Torre, sceneggiatore e regista, autore del cult Boris ma anche de La linea verticale - a sua volta un racconto autobiografico e ospedaliero - che nella lotta contro la malattia ha avuto la peggio ed è scomparso l'anno scorso all'età di 47 anni. La scena cui accennavo, quindi. Il protagonista, Bruno Salvati (un nome e cognome che sono un'allusione al suo autore e al suo destino), è un regista cinematografico. Dopo che gli viene diagnosticata una mielodisplasia, viene ricoverato in ospedale per un ciclo di chemioterapia, in vista di un trapianto di midollo spinale. Il medico che lo ha in cura lo informa che in ospedale c'è una sala-cinema e gli propone di proiettare un suo film e di presentarlo. Arriva il giorno, e Bruno si presenta davanti allo schermo già provato dalla malattia e dalla terapia, in camice verde, mascherina, cappellino verde sulla testa rasata. Sdrammatizza, dicendo di essere la metafora del cinema italiano - eternamente e proverbialmente non in buona salute. Dice di non sentirsi molto bene, ma che altri suoi colleghi sono messi peggio di lui. E' una battuta, ma non fa ridere; la camera fa un controcampo sulla platea che assiste impassibile: una prima fila con gli allettati, quelli in sedia a rotelle, quelli con le flebo. Dietro, sulle gradinate dell'auditorium, gli altri degenti invitati alla proiezione, malati, la mascherina sul volto. Mi sono guardato dietro e intorno nel cinema, verso gli sparsi spettatori silenziosi, con la mascherina a coprire il volto, e mi si sono rizzati i capelli in testa. Lo schermo era come uno specchio e noi c'eravamo dentro; eravamo noi, siamo noi, potenzialmente malati, che stiamo assistendo (forse) all'ultimo spettacolo dell'ultimo film su grande schermo, senza sapere se - noi e il grande schermo - sopravviveremo e se avremo ancora possibilità di incontrarci in futuro. Il Covid-19 minaccia le nostre vite e minaccia la sopravvivenza del cinema. Cosa sarà? Andrà tutto bene? Ne usciremo migliori? A quest'ultima domanda, viste le cronache degli ultimi giorni, è ovvio rispondere di no, ma queste sono in fondo tutte le stesse domande che si pone il protagonista del film, autore di commedie che non fanno ridere, ma che magari fanno commuovere, uomo adulto che si porta dentro le fragilità di un'infanzia mai risolta, marito in crisi, padre insicuro, con tanta tanta paura di morire. Eppure Cosa sarà racconta la storia di un malato privilegiato, con una professione difficile ma bella, una moglie separata ma amica, una famiglia tutto sommato unita, affettuosa, solidale, con un padre fedifrago ma che non manca nel momento del bisogno; ricoverato in una clinica lussuosa, assistito da un ottimo medico (un anti-Caronte che che ogni anno organizza una gita sull'acqua imbarcando tutte le vite che ha salvato) e da un infermiere premuroso, e che può beneficiare di una donazione di midollo davvero insperata e inaspettata. Molto molto più fortunato, quindi, di tanti malati che hanno conosciuto la sofferenza e a volte anche la morte in questo 2020 sciagurato. Bruni (pluripremiato sceneggiatore di praticamente tutto Virzì e di Calopresti, già autore di film in cui è forte il tema del confronto intergenerazionale (Scialla!, Noi 4, Tutto quello che vuoi), impagina il racconto mescolando andamento cronachistico (diaristico quasi, nella parte ospedaliera), flashback (che arrivano a rievocare anche traumi e ricordi dell'infanzia del protagonista ) e scene oniriche; oscillando tra le cupe ambientazioni ospedaliere e quelle più ariose da commedia famigliare, ma con un'importantissima divagazione picaresca in una trasferta livornese; e alternando i toni lividi del racconto della malattia e della cura a quelli lievi e ironici, senza mai cedere alla disperazione e mantenendo sempre viva la fiamma della speranza. Al centro di questa tragedia di un uomo ridicolo, cui non si può non voler bene, malgrado difetti e debolezze quali tutti ne abbiamo, c'è Kim Rossi Stuart, a volte a rischio di overacting, ma coraggioso nel mostrarsi con la testa depilata e sofferente, e comunque credibile ed efficace in mezzo ad un cast che lo è altrettanto, in cui spiccano la Fiorella di Barbara Ronchi e la figlia Adele di Fotinì Peluso e in cui trova posto nel decisivo ruolo della dottoressa la consorte di Bruni, Raffaella Lebboroni, immancabile nei suoi film. E dopo, cosa sarà? Nessuno può saperlo; speriamo di ritrovarci un giorno, passata questa sporca bufera, sulla nave dei salvati, navigando verso il mare aperto, più consapevoli delle nostre fragilità e della nostra caducità, ma anche dell'importanza dei nostri affetti. E di ritrovarci tutti, un giorno, a viso aperto, a guardare di nuovo un grande schermo e una nuova storia. LACCI di Daniele LuchettiSi intitola Lacci, come il libro di Domenico Starnone da cui è tratto (e i lacci ci sono, quelli veri delle scarpe da annodare – in un modo originale che sembra uno dei pochi lasciti “positivi” che il protagonista lascia ai figli – e quelli metaforici, che annodano inestricabili la coppia dei protagonisti, impedendogli di liberarsi e di non sprofondare nell'abisso di scontentezza di un rapporto deteriorato); ma potrebbe a buona ragione intitolarsi Ferite. E' una ferita quella che si apre all'inizio del film, dopo una festa di Carnevale, con la confessione del marito alla moglie di un relazione extraconiugale; ed è – scopriremo – una di quelle ferite che non cicatrizzano mai, che continuano a rimanere aperte e a spurgare per sempre. Ha una strana e complessa struttura, Lacci. Il film si svolge su due piani temporali. Al centro del primo c'è una coppia (Lo Cascio-Rohrwacher) in crisi, a causa del tradimento di lui, con accanto i due figli piccoli. Ad un certo punto della narrazione, ci si sposta all'improvviso su un secondo piano temporale, molti anni dopo, con la stessa coppia (stavolta Orlando-Morante) ancora insieme, ma ancora percorsa dalla crepa aperta quella sera in cui lui ha confessato la propria infedeltà. Lo sviluppo tuttavia non è cronologico, poiché dal secondo piano si torna spesso al primo, non solo per mostrarne i successivi sviluppi, ma a volte per tornare sulle stesse situazioni già viste e per mostrarle da un'altra angolazione e da un altro punto di vista. Non solo; al “termine” del secondo segmento, con una nuova cesura, se ne aggiunge un terzo, che lo precede di poco in termini temporali, ma la cui coppia di protagonisti è stavolta cambiata, vedendo in scena solo due personaggi, i figli della coppia ormai adulti (Giannini e un'irriconoscibile Mezzogiorno). C'è una ragion d'essere in questa complessità drammaturgica: se i primi due segmenti mostrano infatti gli effetti (letteralmente) devastanti della frattura tra i due protagonisti in termini “verticali”, ossia nel corso del tempo, il terzo ne mostra i disastrosi influssi in termini “orizzontali”, estendendone le conseguenze su altri personaggi, come se i cerchi del sasso gettato della crisi si allargassero nell'acqua. Quello a cui assistiamo è una sorta di carnage coniugale e poi familiare, un gioco al massacro tutto interno alla cerchia famigliare a cui nessuno riesce a sfuggire nemmeno potendolo fare. Un naufragio di cui entrambi i membri della coppia sono consapevoli e in qualche misura colpevoli, l'uomo con il proprio tradimento prima, poi con la propria irresolutezza, la debolezza che lo spinge in fondo a lasciare che siano “le cose che capitano”, o ancor più le altre (la moglie, l'amante, e poi ancora la moglie) a decidere del suo destino, senza mai veramente scegliere tra l'allettamento del desiderio e il dovere della fedeltà famigliare; la donna con la propria intransigenza prima, con un'isteria incontrollata che la porta fin sull'orlo del suicidio, poi con la sete di vendetta e di rivalsa con cui nutre un rapporto sfibrato e sadomasochista, lesionista e autolesionista. E' difficile soffrire in modo simpatico, afferma ad un certo punto il protagonista del film, e il film parla di sofferenza ed è quindi “antipatico”, claustrofobico, con la macchina da presa spesso a ridosso delle facce dei personaggi, a distillarne gli umori cupi, la rabbia, la disillusione, la recriminazione, l'acuta disperazione, il sordo rancore. Il pubblico esce perplesso, portato da una parte a ritenere “eccessiva” la vicenda narrata e gli esiti di una storia apparentemente ordinaria, e nello stesso tempo turbato dalla spaventosa verosimiglianza di una vicenda che - per l'appunto - non ha nulla di “eccezionale”. I personaggi scelgono di soffrire anziché di non soffrire, eppure ci si rende conto che in ciò non c'è nulla di strano o di insolito, che potremmo raccontare delle storie simili di persone che conosciamo, o che forse tutti l'abbiamo fatto qualche volta nella nostra esistenza. Nell'andamento altalenante della filmografia di Luchetti, direi che Lacci si situa in una zona mediana, ma tendente ai risultati migliori; e contro le aspettative non disturba più di tanto l'avvicendarsi nello stesso ruolo di due coppie di attori così famosi e così differenti. PADRENOSTRO di Claudio NoceClaudio Noce aveva due anni quando suo padre Alfonso, vicequestore a Roma, fu ferito in un attentato dei Nuclei armati proletari in cui persero la vita un poliziotto e un terrorista. Suo fratello Valerio assistette alla scena dal balcone di casa. Oltre 40 anni dopo, Claudio mette in scena quella scena primaria, capace di segnare indelebilmente qualsiasi vita, e la racconta attraverso gli occhi di Valerio. La terribile scena dell'agguato, con gli spari, il padre che si accascia, i cadaveri rimasti sull'asfalto nel sangue, viene restituita per frammenti e da diverse angolazioni nel corso del film, che si svolge in gran parte nel “dopo”. Un dopo sul quale grava come una cappa soffocante e angosciante quel fatto terribile eppure ripetibile e eternamente minaccioso (i terroristi proclamano l'intenzione di portare a termine la loro malriuscita “missione”). Il padre granitico si è improvvisamente rivelato vulnerabile; la madre è perennemente nervosa; e qualunque cosa – un'assenza, un rumore, una moto che sorpassa un'automobile – può stendere un opprimente velo di minaccia e di terrore. Molto efficace sotto questo punto di vista, e nella stilizzata ma riuscita evocazione iconografica degli anni '70 in cui si svolge la vicenda, il film sceglie però a fini drammaturgici una strada più arrischiata, che materializza, dalle fantasie di Valerio che già nascondeva un amico immaginario nella soffitta di casa, un amico adolescente che rimane perennemente (fino al finale) sospeso tra fantasia e realtà. Emanazione della solitudine di Valerio, Christian sembra acquistare uno statuto di realtà nel momento in cui raggiunge il protagonista nella sua vacanza in Calabria, dove viene “visto” e accolto dalla famiglia. Per il giovanissimo Valerio sarà però un nuovo motivo di ansia, diviso a quel punto tra l'attrazione per quel ragazzo, più grande e libero di lui, e la gelosia per il rapporto affettuoso che sembra stabilirsi tra il padre e Christian, che insidia il suo solitario primato affettivo. La vicenda nasconde un segreto che porterà ad un drammatico scioglimento finale, mentre un prologo angosciante e un epilogo consolatorio offrono una cornice (ma di nuovo non è dato sapere quanto realistica e quanto frutto delle emozioni non ancora spente del Valerio adulto) alla vicenda al cuore del film. Difficile esprimere un giudizio puramente estetico su un film che tratta una vicenda autobiografica così incandescente per la vita del suo autore; la mescolanza tra la storia criminale del Paese, il punto di vista di un ragazzino, un registro che alterna il realistico e l'onirico, e anche l'ambientazione nella natura del nostro Meridione, mi ha ricordato molto l'operazione tentata da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza con Sicilian Ghost Story, ancora più azzardata ma forse più efficace nel raggiungere un difficilissimo equilibrio tra materia e rappresentazione e tra i diversi toni della narrazione. Pierfrancesco Favino, nel ruolo del padre Alfonso, è una presenza anche fisicamente decisamente importante, ma sembra a volte girare un po' a vuoto; premiato con la Coppa Volpi nell'anomala edizione 2020 della Mostra del Cinema di Venezia, ha dato altrove interpretazioni più convincenti. STO PENSANDO DI FINIRLA QUI (I'm Thinking Ending Things) di Charlie KaufmanNota preventiva: poiché il film si basa su un'imprevedibile sorpresa finale, ho cercato nella recensione di evitare spoiler. Chi ha visto il film, capirà, chi non l'ha visto, spero troverà motivi di curiosità per vederlo. Accanto alla produzione e alla distribuzione mainstream, Netflix affianca una vera e propria politique des auteurs, con una meritoria azione di sostegno alla realizzazione di prodotti d'autore (a lei dobbiamo gli ultimi film di Cuaron, di Scorsese, dei Coen) o di nicchia. A sorpresa, quindi, ma non troppo, da settembre è presente sulla piattaforma l'ultima ambiziosa (più dal punto di vista intellettuale che produttivo, in realtà) opera di Charlie Kaufman, uno degli sceneggiatori/registi più atipici e fuori dai ranghi del cinema americano, autore delle sceneggiature di film come Essere John Malkovich, Human Nature, Il ladro di orchidee, Confessioni di una mente pericolosa e regista di Synecdoche, New York e Anomalisa. Com'era prevedibile, ne è scaturita un'opera dalla struttura narrativa involuta e labirintica, che affronta profonde tematiche esistenziali e filosofiche, e che si fonda in buona parte sull'ambiguità e sull'inganno percettivo, degli spettatori ma anche degli stessi personaggi (o forse sarebbe più esatto dire dello stesso personaggio?). I dubbi sulla fabula e sul punto di vista del film cominciano dal titolo stesso: quando si parla di “finirla qui” ci si riferisce a una relazione amorosa, quella tra July e Jake, o alla vita stessa? E chi è veramente l'io che si interroga? Nel corso del film tutte le ipotesi (e altre ancora) sembrano possibili. Il racconto è apparentemente estremamente lineare: il viaggio in auto, mentre fuori nevica, di una coppia di recente costituzione per la prima visita ai genitori di lui; la visita alla famiglia in una fattoria isolata nella campagna; il viaggio notturno di ritorno, mentre la nevicata si fa quasi tormenta. Eppure, ben presto, cominciano a manifestarsi incongruenze temporali e logico-narrative che fanno dubitare che si tratti di una semplice cronaca di coppia e famigliare; così come l'identità stessa della protagonista, attraverso i cui occhi seguiamo la vicenda ascoltandone perfino i pensieri intimi che vorrebbe tenere nascosti al partner, si sfrangia progressivamente mentre la vediamo cambiata d'abito, forse di nome, di professione, di atteggiamento. Nello stesso tempo alla vicenda dei due protagonisti e dei genitori di lui si mescolano inserti con uno sconosciuto anziano inserviente scolastico. Anzi, la narrazione sembra scorrere su un piano inclinato che accelera sempre di più nel corso del film; da un primo segmento improntato ad un realismo psicologico minimalista, ambientato nell'abitacolo di un'auto in movimento, dove solo i cambi d'inquadratura sui personaggi seduti in macchina accompagnano i dialoghi tra July e Jake e i pensieri di lei, si passa alla visita alla fattoria, in un'atmosfera già straniata, dove assistiamo ai comportamenti bizzarri dei genitori di Jake (e del suo stesso cane) e al crescente imbarazzo di lui, e ci troviamo di fronte a segnali e funesti (gli agnelli morti, il racconto dei maiali infestati dai vermi) e misteri (una porta su una cantina che come nei film dell'orrore non si deve aprire). La sensazione di disagio (di Lucy e insieme a lei dello spettatore) aumenta con lo sfaldarsi dei piani temporali, per cui nel corso della medesima visita i genitori di Jake hanno età differenti (fino a comparire sul letto di morte, o affetti da disturbi della memoria, o assenti), mentre affiorano dei pesanti indizi di dubbia identità (i dipinti di Lucy compaiono sui calendari appesi nella camera da ragazzo di Jake, ma attribuiti ad un altro pittore; la “sua” poesia che ha recitato in auto, spingendo Jake ad esclamare che sembrava scritta apposta per lui, appare in un libro già edito; la ragazza riceve sul cellulare telefonate da nomi femminili, ma rispondendo alle quali ascolta una voce maschile porle domande esistenziali e senza risposta). Il viaggio di ritorno assume contorni onirici e quasi felliniani nella sosta per comprare un gelato (in una tormenta di neve) in un chiosco isolato nel quale prestano servizio tre ragazze in maniche corte, una delle quali ammonisce Lucy a non proseguire oltre. Raggiunto con una deviazione notturna il vecchio liceo di Jake, è la forma stessa della narrazione a deragliare definitivamente, abbandonando qualsiasi residua pretesa di preudo-realismo per aprire le porte a doppi dei protagonisti, numeri danzati, inserti animati o sequenze miste di real action e animazione, teatralità onirica, numeri cantati da musical, finché la storia e l'immagine sfocano definitivamente nell'ultima inquadratura. Il passaggio da premesse quasi realistiche a livelli sempre più esasperati di sbandamento narrativo e delirio figurale, sebbene qui in forma molto più controllata, ricorda per molti diversi aspetti il progressivo deragliamento messo in scena nello sconcertante Madre! di Aronofski, anche se ci troviamo in effetti nel cuore dell'amarissima poetica kaufmaniana. Tornano i temi dei suoi script, la solitudine, la dannazione della memoria, il passare del tempo e l'incombere del non-essere e del non-senso, la fallibilità e la caducità della condizione umana, la ricerca nella relazione con l'altro/a di un'illusoria consolazione alla disperazione; ma immersi in una dimensione dalle caratteristiche estetico-tematiche lynchiane (ci sono le notturne strade perdute e i detour narrativi, la confusione delle identità, il grottesco e il mostruoso delle relazioni umane e famigliari, la distorsione dei canoni della rappresentazione, i teatrini onirici), mentre la premiazione di Jake al termine del film ci fa sospettare di aver assistito ad una versione deformata e degenere de Il posto delle fragole di Bergman. Ancora, il film sembra rievocare temi dickiani, come l'ambiguità e la fallacità della percezione umana e i diversi stati di coscienza (Ubik), o la condanna allo scacco dei tentativi dell'essere umano di contrastare un'entropia che è connaturata alla sua interiorità prima ancora che al mondo esterno (cfr. il racconto Spero di arrivare presto, che avrebbe potuto benissimo essere un titolo alternativo per questo stesso film). Le suggestioni riscontrate non devono stupire, visto che è il film stesso, nello svolgere il suo assunto esistenziale-filosofico, a disseminare i dialoghi di una quantità di citazioni, dotte e meno dotte – da Una moglie di Cassavetes al musical Oklahoma, dai saggi di Foster Wallace alla Società dello spettacolo di Debord, dalla poesia di Wodsworth a quella di Eva HD, dalla pittura di Wyeth a quella di Ralph Albert Blakelock -, che all'analisi non suonano mai casuali o gratuite, ma gettano lampi di luce sul discorso e sul senso dell'opera. Profondo, spiazzante, ricchissimo di implicazioni filosofiche e autoriflessive (da quelle sull'influenza delle madri sui figli a quelle sulla pittura e sulla necessità di un “testimone” emotivo all'interno del quadro), servito da un cast appropriato e adeguatamente poco glamour, con gli istrionici genitori di Jake (tra cui la sempre inquietante Toni Collette) a fare da controcanto ai protagonisti, Sto pensando di finirla qui è sicuramente uno dei film più conturbanti dal punto di vista intellettuale ed emotivo delle ultime stagioni; ma proprio nel suo rivolgimento finale (atteso ma non prevedibile) trova uno specifico punto di debolezza. Preparato meticolosamente con la disseminazione in una sceneggiatura geniale e genialoide di indizi di trama e di senso, rileggibili a posteriori, il cambiamento di prospettiva che il finale impone allo spettatore (sia pur in una chiave sfidante ed ermetica, e non quindi come il banale twist di molti smart movies delle ultime generazioni) è però troppo radicale e dissonante dall'impostazione narrativa del film e dalla sua coerenza narratologica per essere accettato senza un enorme sacrificio, e senza provare la sensazione di essere stati ingannati sin dalle prime inquadrature. ALPS (Alpeis) di Yorgos LanthimosE il copione? Il copione dov’è? Dentro di noi, signore. Il dramma è dentro di noi. da Sei personaggi in cerca d'autore di Luigi Pirandello Lanthimos si ritrova ad essere un “caso” nella distribuzione italiana. Autore in patria intorno agli anni ‘10 di un cinema acido e anticonsolatorio (che gli vale comunque l’attenzione della critica nazionale e internazionale, con premi a Cannes e Venezia, candidature all’Oscar e ai Bafta) acquisisce più larga fama con produzioni internazionali come The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro, La favorita, con attori come Colin Farrell, Nicole Kidman, Rachel Weisz, Emma Stone o Olivia Colman. Questo ha fatto sì che Lucky Red, con indubbio coraggio, nella difficilissima stagione del Covid, avara di titoli, abbia deciso di recuperare il suo secondo e terzo film, rispettivamente Kynodontas e Alps, per distribuirli in Italia rispettivamente 11 e 9 anni dopo la loro realizzazione (nel caso di Alps viene accreditata anche una prima e fantomatica uscita tra Natale e Capodanno del 2016). Caso strano, escono così a distanza di nemmeno un mese l’uno dall’altro due film dello stesso regista, nessuno dei quali nuovo. Come in Kynodontas (di cui mi sono già occupato in Into the Wonderland e di cui mi occuperò più diffusamente nel numero di novembre di SegnoCinema), anche in Alps, l’ultimo arrivato, tira aria di famiglia. Ma la famiglia per Lanthimos sembra essere quella della tragedia classica, funestata da lutti e dolori proprio quando dovrebbe essere luogo di protezione e consolazione. Anzi, i film del regista greco sembrano piuttosto proporsi di confutare qualsiasi tentativo umano di scongiurare la catastrofe che incombe sulla famiglia, vuoi per il male e la corruzione che allignano fuori di essa - ma che in essa trovano il modo di deporre uova fatali - ,vuoi per l'ineluttabilità del decadimento e della morte, vuoi per l'inadeguatezza e la fallacità degli esseri umani. Fallisce il tentativo pedagogico segregazionista di Kynodontas, quello socio-sentimentale di The Lobster, fallisce il tentativo di mettere la propria famiglia al riparo dalle conseguenze dei propri errori e della terribilità del fato ne Il sacrificio del cervo sacro. Alps presenta un altro esempio, altrettanto ingenuo e grottesco, velleitario e fallimentare,ridicolo e tragico, di sfuggire allo scacco della condizione umana mediante simulacri grotteschi di famiglia. Di nuovo, come già in Kynodontas, la famiglia è un set tragico e grottesco, dove si muovono personaggi che sembrano in cerca di un proprio autore; ma a differenza che nel film precedente, dove solo i genitori conoscono il copione della rappresentazione, qui tutti sembrano conoscere le battute e i ruoli - tranne, per lungo tratto, gli spettatori - ma l'esito non è meno rovinoso. Non dirò di più della trama, perché Lanthimos gioca appunto a spazzare gli spettatori, presentando per oltre mezz'ora di film personaggi la cui reciproca relazione è incomprensibile, o ambigua,o ingannevole, con dialoghi astrusi e forzati. Io purtroppo avevo letto due righe di trama, sufficienti a farmi sapere da subito quello che l'autore vuole farci capire gradualmente e con indizi ambigui, che spiazzano lo spettatore fino all'ultimo fotogramma. Quello cui assistiamo é quindi una recita recitata male, una sceneggiatura mal scritta, con battute vuote e ripetitive. Per lungo tempo siamo portati a confondere la sciatteria della messa in scena con quella stessa del film. Ma ancora una volta Lanthimos propone superfici scabre e sgradevoli, sotto le quali sì nascondono profondità sconvolgenti. Di fronte alla nostra caducità, alla potenza del dolore, all'ineluttabilità della perdita, non c'è recita che tenga e che consoli, non ci sono Alpi abbastanza alte sulle quali trovare riparo. |
Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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