![]() Satira e uso del grottesco sono alla base anche della commedia nera OMICIDIO ALL'ITALIANA, di Maccio Capatonda. Qui i bersagli sono prevalentemente due: una sedicente provincia italiana isolata e arretrata, invecchiata e ignorante, e il circo mediatico che costruisce i propri discutibili spettacoli sulle tragedie di cronaca nera (argomento sfiorato anche da Ammore e malavita nella scena dell'inclusive tour nel degrado di Scampia). Ma qui il risultato decisamente non funziona. Capatonda funzionerà sul web, ma un lungometraggio intero tenuto sempre su toni satirici così esasperatamente grotteschi non regge. Eppure lo spunto poteva offrire occasioni interessanti, e qualche volta si sorride, ma la grana che Capatonda decide di utilizzare è talmente grossa da risultare non digeribile. La Ferilli finisce per stonare nel contesto per professionalità, in mezzo a tanta sgangheratezza. Una gag come quella in cui il rozzo coprotagonista per abbordare una ragazza in una bar gli si rivolge dicendole “Puzzi meno di una capra” non è (solo) politicamente scorretta o volgare, è semplicemente molto brutta. ![]() Discutibile anche il risultato de LA RAGAZZA NELLA NEBBIA, un noir decisamente più tradizionale, con delitti e indagini, serial killer e false piste. Donato Carrisi (autore “totale” in una cinquina dalle molte regie collettive) dirige il suo primo lungometraggio traendolo dal proprio stesso romanzo (modestamente definito nei titoli di coda “bestseller internazionale”). Il titolo, l'ambientazione e la presenza di Servillo riecheggiano La ragazza del lago di Molaioli (ma la cornice narrativa richiama piuttosto Under Suspicion o il suo progenitore Guardato a vista), ma l'esito non ha la stessa finezza. Uno dei grossi problemi del film è la presenza dello stesso Servillo, che, se non è controllato da un direttore d'attori più che bravo, tende a gigioneggiare, illudendosi di lavorare su toni sommessi, in realtà tradendoli completamente. Qui l'istrione imperversa indisturbato, ma quel che è peggio su una sceneggiatura mal scritta e con notevoli buchi. Nessun senso del paesaggio, scene madri orecchiate altrove e maldestramente riprodotte, indagini abborracciate e attori (c'è anche Jean Reno, ma non è certo una garanzia) allo sbando. Forse l'unico personaggio e l'unico interprete a salvarsi, per esclusione, sono il prof. Martini e il suo interprete Alessio Boni. ![]() L'ambientazione de I FIGLI DELLA NOTTE (di Andrea De Sica) in un collegio tra le montagne e in un paesaggio invernale fa pensare all'Overlook Hotel, o anche a una versione maschile della scuola di danza di Suspiria. All'austero collegio, frequentato da figli della buona società che i genitori hanno per un motivo o per l'altro allontanato dalla famiglia, si contrappone visivamente e sonoramente lo spazio altro di un casino (sic), frequentato, malgrado l’asserito isolamento dei luoghi, da una folla di signori viziosi, signorine struscianti e studenti arrapati. De Sica ha una sua idea di regia minimalista, ellittica e formalistica, ma il film soffre di alcuni difetti fondamentali (oltre che di prove d’attore a volte immature). La sceneggiatura accumula temi e spunti (ci sono bulli con maschere terrificanti, fantasmi, omofilia, teorie del controllo, amour fou, romanzo di formazione, ecc.) che disperdono l’attenzione senza che un tema assuma una forza necessaria e sufficiente a reggere il racconto. Il finale amorale dovrebbe forse riscattare il tutto, ma arriva fuori tempo massimo. A ciò si aggiunga che ognuno dei tre protagonisti è portato a prendere delle decisioni fatali, nessuna delle quali sembra sufficientemente motivata in sede di scrittura del personaggio. Inoltre la regia non riesce mai a costruire una reale tensione; non bastano lunghe inquadrature di corridoi (ma al posto delle gemelline e delle ondate di sangue di Shining ci sono due adolescenti che fanno le corse con i carrelli), presenze fantasmatiche inerti o un sound design invadente a generare paura e tensione. Oltre ad Argento e Kubrick, a voler mirare alto, bisognerebbe ripassare Il regno di von Trier o un Lynch qualunque. Interessante, comunque, da aspettare ad una prova successiva in attesa di maturazione. ![]() Si ritorna invece, di nuovo, ad una bizzarra commistione di generi con SICILIAN GHOST STORY, già enunciato da un titolo che a mio parere è tuttavia fuorviante: non solo è del tutto ingiustificato l'uso dell'inglese, ma quel che è peggio il titolo induce ad aspettarsi una sorta di film di fantasmi cinesi in salsa sicula, un pastiche parodico alla Grosso guaio a Sicilytown. Assolutamente nulla di tutto questo: il film racconta di una tragedia reale, uno dei più agghiaccianti episodi di mafia mai occorsi, quello del rapimento del tredicenneenne Giuseppe Di Matteo (ad opera di una gang capeggiata da Giovanni Brusca; sono un centinaio i mafiosi condannati all'ergastolo in seguito ai fatti), colpevole di essere figlio di un pentito, tenuto in cattività per oltre due anni e poi strangolato, il cui cadavere fu dissolto nell'acido e poi gettato in mare. La terribile storia è raccontata dal punto di vista del personaggio di Luna (una giovanissima e determinata ragazza siculo-polacca, Julia Jedlikowska), una coetanea innamorata del ragazzo che non si rassegna alla sua scomparsa e al clima di indifferenza e di omertà che la circonda. Il film affronta però un rischio micidiale, non solo per la trasferta nel regno di una fiction di una vicenda atroce colma di tanta sofferenza, ma anche perché si permette di mescolare i toni realistici con quelli onirici e fantastici (riecheggiando volente o nolente il Salvatores – da Ammaniti – di Io non ho paura). I toni tragici e anche crudamente realistici si mescolano a quelli fiabeschi, arrivando quasi (ma per fortuna fermandosi un passo prima) a lambire il teen-movie fantasy. Fabio Grassadonia e Antonio Piazza (ancora una regia a due teste e quattro occhi e mani) fanno un gran lavoro sull'immagine e sul suono (tanto da attirarsi l'accusa di estetismo) e sono attenti alle qualità degli ambienti e del paesaggio (estetizzante ma emozionante la sequenza in cui l'ostaggio durante un trasferimento crede di trovarsi vicino al mare, viene fatto scendere dalla macchina, gli viene tolto il cappuccio e gli viene mostrato il paesaggio intorno chiuso tra aspri rilievi; dopodiché la macchina da presa, seguendo una farfalla, scollina fino a farci arrivare alla vicina costa di fronte ad un mare fosco e agitato). In definitiva, un progetto multirischio, una scommessa azzardata ma alla fin fine vincente, che ha prodotto un film anomalo e conturbante, complessivamente riuscito. A Cannes era piaciuto anche agli americani. Meriterebbe di tornare in sala, con un titolo più consono ai toni e ai contenuti. Per la cronaca, gli altri due film in lizza (ma a questo punto ce ne siamo andati a Lione) erano Falchi di Toni D'Angelo e Monolith di Ivan Silvestrini.
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Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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