PREMI DAVID DI DONATELLO 2024A me sembra un buon momento per il cinema italiano: molti attori si mettono dietro la macchina da presa con esiti spesso interessanti, si affrontano temi anche importanti, con linguaggi accessibili anche al grande pubblico, il cinema medio si sta consolidando anche al di fuori delle scimmiottature di personaggi televisivi (v. i film di Albanese, Zamora di Neri Marcoré, Sei fratelli), mentre qualcuno (la Cortellesi in Francia con una produzione tutta italiana, Guadagnino negli Usa con una produzione internazionale) sembra in grado di scalfire anche i mercati stranieri. La consegna dei David appare sempre una cerimonia un po' abborracciata (presentatori poco competenti, qualche gaffe), ma i premi di quest'anno sono a mio parere decisamente interessanti e ben assegnati. oAi David di Donatello 2024 sono emersi con chiarezza due vincitori, Io capitano e C'è ancora domani, e posso dire che mi sembrano affermazioni entrambe meritatissime. Si trattava in effetti di due progetti produttivi ambiziosi ma per nulla scontati, anzi, estremamente rischiosi. Matteo Garrone ha realizzato un film italiano interamente girato in Africa, con attori esclusivamente africani, parlato in wolof e in francese, con colonna sonora musicale africana. L'Italia e gli italiani non si vedono mai, eppure sono ben presenti, nell'ombra di un tema, quello dell'emigrazione/immigrazione dai Paesi del “Terzo Mondo” verso le nostre coste, tra i più dibattuti e divisivi. Io capitano (leggi qui la mia recensione) mette lo spettatore nella posizione in cui si trova anche da cittadino, a guardare da lontano, seduto in poltrona, persone che aspirano ad una vita migliore, che soffrono e rischiano la vita giusto per avere una chance di sopravvivenza o – come in questo caso – di autorealizzazione. Solo che nel film di Garrone il dramma dell'immigrazione non è asettica materia da talk show, ma racconto incarnato di viaggio e di sofferenza. Forse Garrone si tiene perfino troppo indietro rispetto alla materia trattata - ma è la sua consueta posizione d'autore -, mantenendo una narrazione stilizzata, condotta quasi per astrazioni (anche poetiche), e lasciando ai protagonisti il compito di rendere il loro ruolo coinvolgente ed empatico. Massimo rispetto: premi meritati (film, regia, fotografia, montaggio, suono, effetti visivi) e perfetto anche quello ai produttori (Archimede, Rai Cinema, Pathé, Tarantula) per un progetto davvero coraggioso (non solo nello specifico, ma anche rispetto al clima politico generale). Molto audaci anche i produttori di C'è ancora domani (leggi qui la mia recensione), che hanno accettato il progetto di un'autrice esordiente alla regia, Paola Cortellesi, ovvero un'attrice prevalentemente comica, su un tema affatto divertente come la violenza di genere, ambientato per di più nel passato (gli anni '40), con inserti onirici-musicali e girato nel temutissimo bianco e nero. Davvero un progetto temibile, e anche qui il clima politico si è fatto sentire: innumerevoli sono state, sui social e sui giornalacci, le accuse di aver sfruttato un tema modaiolo, politicamente corretto, woke, come il patriarcato e la violenza sulle donne. Ma C'è ancora domani ha davvero colpito nel segno, convincendo, commuovendo e appassionando milioni di spettatrici e spettatori, complice anche l'intuizione di sublimare la violenza agita ed esibita in passi di danza, rendendola così straniante ma più sopportabile, sopratutto per il pubblico femminile. Anche se qualche dubbio, non completamente risolto, a me il film l'ha lasciato (ne ho parlato qui), C'è ancora domani è stato decisamente e meritatamente il film dell'anno, come dimostrano anche il Premio del pubblico e il David Giovani. Cortellesi come debuttante non poteva competere per la regia, ma giustamente e in modo più appropriato si è aggiudicata il premio per il miglior esordio, e un po' più problematicamente – a mio parere - quello alla miglior sceneggiatura originale (sempre Cortellesi con Calenda e Andreotti). Essendo il film “delle donne”, ha avuto gioco facile nell'aggiudicarsi anche i premi alle interpreti: di nuovo la Cortellesi e la Fanelli, mentre rimangono esclusi i ben tre attori maschi candidati (Mastandrea, Colangeli, Marchioni). C'è anche un vincitore morale del festival, un film che ha lottato aspramente per conquistare una propria difficile visibilità, stentando a trovarsi un posticino nelle sale dei multiplex: è Palazzina Laf (leggi qui la mia recensione), altro ottimo esordio alla regia, che vede premiate le tre anime del progetto: Michele Riondino (regia, ma qui premiato come attore protagonista), Diodato (miglior canzone) e Germano (sodale oltre che interprete). Riondino (come Diodato) è tarantino e ha realizzato un film su Taranto e l'Ilva che è chiaramente un atto politico oltre che un omaggio al cinema di Elio Petri. Immigrazione, emancipazione e autodeterminazione delle donne, sfruttamento del lavoro: i premi principali centrano in modo plastico, meritorio, esemplare, i grandi temi politici della società italiana, che i partiti politici invece strumentalizzano o aggravano (vedi ad es. lo spauracchio eterno dell'immigrazione, l'astensione della destra italiana sull'approvazione della convenzione di Istanbul, la deregolamentazione della normativa sul lavoro, ecc.), o sui quali non hanno la forza e la capacità per intervenire con incisività. E' evidentemente stato avvertito come meno attuale e urgente il tema di Rapito, il film di Bellocchio ispirato al caso pur reale di un bambino ebreo battezzato di soppiatto e quindi rapito dalle autorità ecclesiastiche nell'Italia pontificia dell'800. Tema non banale (nella stessa stagione Giorgio Diritti raccontava in Lubo la storia dei bambini rapiti agli zingari dallo Stato svizzero negli anni '30 – il che dimostra che non sono sempre gli zingari a rapire i bambini altrui, ma può accadere anche il contrario...). Ne sono una conferma icastica i premi ricevuti nelle categorie più “estetiche” (scenografia, costumi, trucco, acconciatura), per un film percepito forse più come bello (possiede una stilizzazione di ambientazione che forse sarebbe piaciuta ai Taviani, appena scomparsi) che come necessario, anche se il premio alla sceneggiatura non originale smentisce in parte quanto sto dicendo. Adagio (leggi qui la mia recensione), il noir preapocalittico di Sollima, prende il David solo per la colonna sonora (Subsonica); avrebbe potuto pretendere altro nelle categorie più tecniche (fotografia – per altro assurdamente neppure candidata -, sonoro, ecc.) o in quelle interpretative (Favino impressionante trasformista, Giannini cattivo, Servillo in surplace, Franchini emergente, Mastandrea con handicap).
Il premio a Laggiù qualcuno mi ama come miglior documentario è un premio doppio: A Mario Martone che l'ha diretto giocando sul proprio terreno e alla memoria di Massimo Troisi. O triplo, perché parlando di Martone e di Troisi ovviamente si parla anche di Napoli (che vince tra l'altro sulla Milano di Gaber e Jannacci, cui erano dedicati altri due documentari in competizione), che non è mai solo un oggetto di rappresentazione ma inevitabilmente sempre anche soggetto e personaggio. Spiace dirlo, ma in fondo sono d'accordo anche rispetto ai grandi esclusi, i pluricandidati rimasti a bocca asciutta. Non dirò di Comandante, che non ha ancora visto; ma confesso di non essere mai riuscito ad entrare in sintonia con il cinema poetico ed ermetico di Alice Rohrwacher, qui in gara con La chimera, che faccio perfino fatica a ricordare dopo averlo visto; mentre il ritorno alle origini (malgrado il titolo) di Nanni Moretti mi è sembrato anacronistico: Il sol dell'avvenire è un progetto - lo dico con rispetto, affetto e rammarico – che ho fatto fatica a tollerare per la sua senile autoreferenzialità. Un film che avrebbe meritato un cenno di attenzione era invece secondo me il bel noir L'ultima notte di amore (leggi qui la mia recensione), magari con un premio alla sorprendente Linda Caridi. Miglior film internazionale (l'ennesimo, tra Oscar, Golden Globe, Palme d'Oro, Cesar, Efa, ecc.) ad Anatomia di una caduta (leggi qui la mia recensione), che vanta un'ottima sceneggiatura ed un'interprete perfetta (la Huller in un ruolo che fino a poco tempo fa si sarebbe detto su misura per la Huppert); io, per ragioni sentimentali, gli avrei forse preferito l'ennesimo monumento scorsesiano alla storia d'America come storia di famiglie criminali, Killers of the Flowers Moon, e avrei fatto entrare nella rosa dei papabili qualche film che ne è rimasto escluso; solo per fare degli esempi alla rinfusa, il melò-noir coreano Decision to Leave, o il tunisino Il frutto della tarda estate, o i francesi Un bel mattino e I passeggeri della notte, o gli iraniani Holy Spider e Kafka a Teheran...
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Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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