STO PENSANDO DI FINIRLA QUI (I'm Thinking Ending Things) di Charlie KaufmanNota preventiva: poiché il film si basa su un'imprevedibile sorpresa finale, ho cercato nella recensione di evitare spoiler. Chi ha visto il film, capirà, chi non l'ha visto, spero troverà motivi di curiosità per vederlo. Accanto alla produzione e alla distribuzione mainstream, Netflix affianca una vera e propria politique des auteurs, con una meritoria azione di sostegno alla realizzazione di prodotti d'autore (a lei dobbiamo gli ultimi film di Cuaron, di Scorsese, dei Coen) o di nicchia. A sorpresa, quindi, ma non troppo, da settembre è presente sulla piattaforma l'ultima ambiziosa (più dal punto di vista intellettuale che produttivo, in realtà) opera di Charlie Kaufman, uno degli sceneggiatori/registi più atipici e fuori dai ranghi del cinema americano, autore delle sceneggiature di film come Essere John Malkovich, Human Nature, Il ladro di orchidee, Confessioni di una mente pericolosa e regista di Synecdoche, New York e Anomalisa. Com'era prevedibile, ne è scaturita un'opera dalla struttura narrativa involuta e labirintica, che affronta profonde tematiche esistenziali e filosofiche, e che si fonda in buona parte sull'ambiguità e sull'inganno percettivo, degli spettatori ma anche degli stessi personaggi (o forse sarebbe più esatto dire dello stesso personaggio?). I dubbi sulla fabula e sul punto di vista del film cominciano dal titolo stesso: quando si parla di “finirla qui” ci si riferisce a una relazione amorosa, quella tra July e Jake, o alla vita stessa? E chi è veramente l'io che si interroga? Nel corso del film tutte le ipotesi (e altre ancora) sembrano possibili. Il racconto è apparentemente estremamente lineare: il viaggio in auto, mentre fuori nevica, di una coppia di recente costituzione per la prima visita ai genitori di lui; la visita alla famiglia in una fattoria isolata nella campagna; il viaggio notturno di ritorno, mentre la nevicata si fa quasi tormenta. Eppure, ben presto, cominciano a manifestarsi incongruenze temporali e logico-narrative che fanno dubitare che si tratti di una semplice cronaca di coppia e famigliare; così come l'identità stessa della protagonista, attraverso i cui occhi seguiamo la vicenda ascoltandone perfino i pensieri intimi che vorrebbe tenere nascosti al partner, si sfrangia progressivamente mentre la vediamo cambiata d'abito, forse di nome, di professione, di atteggiamento. Nello stesso tempo alla vicenda dei due protagonisti e dei genitori di lui si mescolano inserti con uno sconosciuto anziano inserviente scolastico. Anzi, la narrazione sembra scorrere su un piano inclinato che accelera sempre di più nel corso del film; da un primo segmento improntato ad un realismo psicologico minimalista, ambientato nell'abitacolo di un'auto in movimento, dove solo i cambi d'inquadratura sui personaggi seduti in macchina accompagnano i dialoghi tra July e Jake e i pensieri di lei, si passa alla visita alla fattoria, in un'atmosfera già straniata, dove assistiamo ai comportamenti bizzarri dei genitori di Jake (e del suo stesso cane) e al crescente imbarazzo di lui, e ci troviamo di fronte a segnali e funesti (gli agnelli morti, il racconto dei maiali infestati dai vermi) e misteri (una porta su una cantina che come nei film dell'orrore non si deve aprire). La sensazione di disagio (di Lucy e insieme a lei dello spettatore) aumenta con lo sfaldarsi dei piani temporali, per cui nel corso della medesima visita i genitori di Jake hanno età differenti (fino a comparire sul letto di morte, o affetti da disturbi della memoria, o assenti), mentre affiorano dei pesanti indizi di dubbia identità (i dipinti di Lucy compaiono sui calendari appesi nella camera da ragazzo di Jake, ma attribuiti ad un altro pittore; la “sua” poesia che ha recitato in auto, spingendo Jake ad esclamare che sembrava scritta apposta per lui, appare in un libro già edito; la ragazza riceve sul cellulare telefonate da nomi femminili, ma rispondendo alle quali ascolta una voce maschile porle domande esistenziali e senza risposta). Il viaggio di ritorno assume contorni onirici e quasi felliniani nella sosta per comprare un gelato (in una tormenta di neve) in un chiosco isolato nel quale prestano servizio tre ragazze in maniche corte, una delle quali ammonisce Lucy a non proseguire oltre. Raggiunto con una deviazione notturna il vecchio liceo di Jake, è la forma stessa della narrazione a deragliare definitivamente, abbandonando qualsiasi residua pretesa di preudo-realismo per aprire le porte a doppi dei protagonisti, numeri danzati, inserti animati o sequenze miste di real action e animazione, teatralità onirica, numeri cantati da musical, finché la storia e l'immagine sfocano definitivamente nell'ultima inquadratura. Il passaggio da premesse quasi realistiche a livelli sempre più esasperati di sbandamento narrativo e delirio figurale, sebbene qui in forma molto più controllata, ricorda per molti diversi aspetti il progressivo deragliamento messo in scena nello sconcertante Madre! di Aronofski, anche se ci troviamo in effetti nel cuore dell'amarissima poetica kaufmaniana. Tornano i temi dei suoi script, la solitudine, la dannazione della memoria, il passare del tempo e l'incombere del non-essere e del non-senso, la fallibilità e la caducità della condizione umana, la ricerca nella relazione con l'altro/a di un'illusoria consolazione alla disperazione; ma immersi in una dimensione dalle caratteristiche estetico-tematiche lynchiane (ci sono le notturne strade perdute e i detour narrativi, la confusione delle identità, il grottesco e il mostruoso delle relazioni umane e famigliari, la distorsione dei canoni della rappresentazione, i teatrini onirici), mentre la premiazione di Jake al termine del film ci fa sospettare di aver assistito ad una versione deformata e degenere de Il posto delle fragole di Bergman. Ancora, il film sembra rievocare temi dickiani, come l'ambiguità e la fallacità della percezione umana e i diversi stati di coscienza (Ubik), o la condanna allo scacco dei tentativi dell'essere umano di contrastare un'entropia che è connaturata alla sua interiorità prima ancora che al mondo esterno (cfr. il racconto Spero di arrivare presto, che avrebbe potuto benissimo essere un titolo alternativo per questo stesso film). Le suggestioni riscontrate non devono stupire, visto che è il film stesso, nello svolgere il suo assunto esistenziale-filosofico, a disseminare i dialoghi di una quantità di citazioni, dotte e meno dotte – da Una moglie di Cassavetes al musical Oklahoma, dai saggi di Foster Wallace alla Società dello spettacolo di Debord, dalla poesia di Wodsworth a quella di Eva HD, dalla pittura di Wyeth a quella di Ralph Albert Blakelock -, che all'analisi non suonano mai casuali o gratuite, ma gettano lampi di luce sul discorso e sul senso dell'opera. Profondo, spiazzante, ricchissimo di implicazioni filosofiche e autoriflessive (da quelle sull'influenza delle madri sui figli a quelle sulla pittura e sulla necessità di un “testimone” emotivo all'interno del quadro), servito da un cast appropriato e adeguatamente poco glamour, con gli istrionici genitori di Jake (tra cui la sempre inquietante Toni Collette) a fare da controcanto ai protagonisti, Sto pensando di finirla qui è sicuramente uno dei film più conturbanti dal punto di vista intellettuale ed emotivo delle ultime stagioni; ma proprio nel suo rivolgimento finale (atteso ma non prevedibile) trova uno specifico punto di debolezza. Preparato meticolosamente con la disseminazione in una sceneggiatura geniale e genialoide di indizi di trama e di senso, rileggibili a posteriori, il cambiamento di prospettiva che il finale impone allo spettatore (sia pur in una chiave sfidante ed ermetica, e non quindi come il banale twist di molti smart movies delle ultime generazioni) è però troppo radicale e dissonante dall'impostazione narrativa del film e dalla sua coerenza narratologica per essere accettato senza un enorme sacrificio, e senza provare la sensazione di essere stati ingannati sin dalle prime inquadrature.
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Mauro CaronAppassionato di cinema da sempre, in maniera non accademica. Amo il cinema d'autore, ma quello che spero sempre, accingendomi a guardare un film, è di divertirmi ed emozionarmi, e poi di avere di che riflettere. Dal 2002 collaboro regolarmente con la bellissima rivista "Segnocinema"; ho pubblicato anche articoli di cinema su "Confini", sul sito "Fuorischermo", e nel volume collettivo "Tranen" dedicato a cinema e deportazione. Categorie
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